i nostri contributi - parte I

In questa sezione sono riportati, in rigido ordine cronologico, i contributi ricevuti.
Rappresentano la traccia base e fondamentale per comporre il nostro libro la cui stesura ed avanzamento si possono seguire nel link 'IL NOSTRO LIBRO'.


Ultimo aggiornamento: 4.06.2016



 1: IL 5 LUGLIO DELL’ANNO 1971 ED UN TAVOLINO TRAFUGATO 
     (Sandro Bazurro)  
 2: TRE GIORNI IN CELLA DI RIGORE (Paolo Moneta)
 3: IL MIO 64 AUC (Vinicio Callegari)
 4: UNA NOTTE SOTTO LA NEVE (autori vari)
 5: IL MURO DEL PIANTO (Alberto Orecchia, Paolo Moneta)
 6: LA PUNTURA SALVATUTTO (Alberto Orecchia) 
 7: UNA SETTIMANA IN POLVERIERA (Roberto Braggion)
 8: LA GRANDE FUGA ... (Mario Sandrone)
 9: IL MULO IMPERO (Vinicio Callegari)
10: IL PICCHETTO ESTERNO (Vinicio Callegari)
11: UNA 500 ROSSA (Paolo Moneta)
12: L'ARRIVO IN CASERMA (Stefano Benazzo)
13: DELL'UTILITA' DEGLI ADDESTRAMENTI INUTILI (Stefano Benazzo)
14: IN MEMORIA DI FRANCO FAVINI (Stefano Benazzo)
15. L'ULTIMA DELLE VERGINI (Franco Rizzo)
16: REATO NON PREVISTO (Roberto Braggion)
17: IL CAMPO DI FINE CORSO E L'IGLOO (Piergiorgio Marguerettaz)
18: L'IGLOO DI PONT SERRAND (Antonio De Paoli)
19: CIAO AMICI MIEI (Mirco Bozzo)
20: UN ATTIMO DI PAUSA (Wikipedia)
21: LA VENDETTA DEL COLLE SAN CARLO (Luciano Ivaldi)
22: ODORE DI AUC (Piergiorgio Matguerettaz)
23: 'COSA SIGNIFICA AUC?' (Franco Ferrario)
24: E L'ACQUA FU TRASFORMATA IN VINO (Franco Ferrario)
25: LA PROCESSIONE (Giuliano Levrero, Piergiorgio Marguerettaz)
26. LIBERA PROFESSIONE (Giuliano Levrero)
27. PULIZIE (Giuliano Levrero)
28. AL POLIGONO DEL BUTHIER (Paolo Moneta)
29. LIQUAMI (Giuliano Levrero)
30. RICORDI DI REGGIMENTO (Sandro Bazurro)
31. ALPINI DI SERIE A (Luciano Ivaldi)
32. IL GIURAMENTO (Sandro Bazurro)
33. ADDESTRAMENTO ALLA RESISTENZA FISICA CON LE MARCE IN MONTAGNA
     (Giuliano Secchi)
34. PERNOTTAMENTO NELLE TRUNE AL COLLE S.CARLO (Giuliano Secchi)
35. L'ESAME DI FINE CORSO (Sandro Bazurro)
36. METTEMMO UN MAZZOLINO...NELLA CANNA DEL FAL (Gianfranco Rebulla)
37. REMINISCENZE IN PILLOLE: LA PARTENZA (Felice Piasini)
38. RUBRICA: FIGURE DI M ... (Felice Piasini)
39. LA 115a COMPAGNIA MORTAI, IL TENENTE IPPOLITO ED UNA
     ESERCITAZIONE PERFETTA (Franco Ferrario)
40. ADDIO ALLE ARMI (Sandro Bazurro)
41. IL MESE PIU' BELLO (Felice Piasini)
42. MONATE! MONATE! (Angelo Soave)
43. LA PRIMA NOTTE DI (NON) QUIETE (Marco Fioroni)
44. PTHIRUS PUBIS (Marco Fioroni)
45. IL COLONNELLO MORENA (Marco Fioroni)
46. IL CORO DEL 64 AUC (Marco Fioroni)
47. ETERNO! (Marco Fioroni)
48. GLI ESCHIMESI AL PICCOLO S.BERNARDO (Marco Fioroni)
49. CONSEGUENZE CORPORALI DELL’ADDESTRAMENTO ALLA AEROCOOPERAZIONE
     (Marco Fioroni)

50. RIDERE FINO ALLE LACRIME (Marco Fioroni)
51. INCURSIONI NOTTURNE (Marco Fioroni)
52. CARO AMORE, TI SCRIVO! (Paolo Moneta)
53. UNA BOTTIGLIA DI GRAPPA ALLA PERA (Sandro Bazurro)
54. FINALMENTE STEN! (Giuliano Levrero)
55. QUADRI DI UNA ESPOSIZIONE (Vinicio Callegari)
56. LA RECLUTA CON IL BAMBINO (Luciano Ivaldi)
57. IL CALVARIO DI ENRICO CASALEGNO (Alberto Orecchia)
58. ALPINO A TUTTI I COSTI (Piergiorgio Marguerettaz)
59. FORELLEN AUS DEM PASSEIERTAL (Felice Piasini)
60. COMODO! COMODO! (Felice Piasini)
61. UN ALZABANDIERA TRAVAGLIATO (Alberto Orecchia)
62. ARRIVEDERCI AMICI (Giuliano Levrero)
63. DUE UFFICIALI E UNA FIAT 124 SPORT SPIDER (Sandro Bazurro)
64. LA VITA A FORNI AVOLTRI (Mirco Bozzo)
65. LAVAGGIO STRADA (Giuliano Levrero)
66. OSTERIA PAPA' MARCEL (Sandro Bazurro)
67. VODKA A LA THUILE (Franco Ferrario) 
68. NONNISMO (Sandro Bazurro)
69. IMPOSSIBILE DIMENTICARE IL PERIODO DI NAIA (Marcellino Bortolomiol)
70. LA TRADOTTA (Sandro Bazurro)
71. LA PARTENZA (Michele Casini)
72. IL SILENZIO (Michele Casini) 
73. IL FORTE DI BARD (Giorgio Buizza)
74. GLI ALPINI VANNO AL MARE (Piergiorgio Marguerettaz)
75. L'ARTISTA E IL SOMMELIER (Luciano Ivaldi)
76. IL RENITENTE ALLA LEVA (Luciano Ivaldi)
77. UN GIRO SULLA GIOSTRA (Luciano Ivaldi)
78. MAL DI NAIA (Sandro Bazurro)
79. LE VALLI DEL NATISONE (Evelino Mattelig)
80. ESSERE ALPINO (Mario Lorenzi)
81. FREGATO! (Roberto Braggion)
82. APPUNTI (Aldo Perron)
83. MARINELLA, ROBERTO, BARBARA (Marinella Salati)
84. DUE PILLOLE (Luciano Ivaldi)
85. IN RICORDO DI FRANCO CASATI (Franco Rizzo)
86. UNA MONTAGNA DI ... RICORDI (Giuliano Levrero)
87. ALLA MEMORIA DI FRANCO CASATI (Sandro Bazurro)




1.
Il 5 di luglio dell’anno 1971 ed un tavolino trafugato.
(Sandro Bazurro)

Era il 5 di luglio dell'anno 1971, lunedì, giornata caldissima.
Il giorno precedente l'avevo trascorso al mare, ignaro di ciò che mi avrebbe riservato la sorte per i futuri quindici mesi.
Il postino sudato ed ansimante comparve improvvisamente dalla curva della mulattiera che conduceva alla mia casa, posta sulla sommità della collina, nell'entroterra di Genova.
Lessi con ansia la cartolina che mi consegnava. Destinazione: Aosta, Scuola Militare Alpina. Partenza immediata, il corso iniziava il giorno stesso.
Non sapevo che fare, ero assolutamente impreparato. Aosta poi mi sembrava così lontana, l'avevo solo vista in cartolina.
Appena mi ripresi mi guardai nello specchio, indubbiamente la mia chioma fluente da sessantottino non era appropriata per un simile evento.
Con terrore ricordai che i barbieri al lunedì erano in riposo settimanale; risolse il problema la mia ragazza, telefonando alla sua parrucchiera, che si impegnò all'inverosimile per rendermi presentabile.
Soldi buttati, da lì a poco “Cochise“, il figaro della caserma, avrebbe rovinato quell'opera d'arte.
Un rapido saluto a parenti ed amici servì anche ad incassare un po' di soldi, come si usava al mio paese per salutare coloro che partivano per il servizio militare.
Il giorno successivo partii col primo treno per Aosta.
Una fastidiosa dissenteria, credo di origine nervosa, mi accompagnò per tutto il viaggio Genova, Torino, Aosta.
Giunsi il primo pomeriggio ad Aosta, quindi alla caserma Cesare Battisti, ed il primo impatto con la nuova vita lo ebbi con un caporal maggiore assai scostante.
Il corso era iniziato il giorno precedente e io credo di essere stato uno degli ultimi ad arrivare.
Mi salvai per il rotto della cuffia e grazie ai disservizi postali dall' essere subito punito.
Tralascio quanto successe il giorno stesso ed i contatti con i superiori ed i nuovi compagni, che si ritenevano ormai anziani rispetto al sottoscritto, spaesato in tutto ciò che gli si presentava.
Il giorno dopo il Generale Gallarotti, Comandante la Scuola Militare Alpina, ci riunì nell'aula magna per il saluto di inizio corso.
Dopo le prime parole di saluto, di rito, esordì all'improvviso chiedendo se tra gli allievi ci fosse stato qualcuno che non aveva chiesto di essere assegnato alle truppe alpine, ed esattamente in quale specialità, in quanto forse c'era ancora tempo per essere accontentato ed essere ivi trasferito.
Ho dimenticato di dire che alla visita di leva avevo scritto nelle preferenze di assegnazione: Genio Pontieri, di stanza a Piacenza, Artiglieria da Montagna come mio padre, ed in ultimo Alpini.
Il Comandante aggrottò le sopracciglia mentre, in attesa, percorreva con lo sguardo gli astanti; mi feci coraggio ed alzai timidamente la mano.
Onestamente non so se oltre a me ci fossero altri “mona”, come mi apostrofò una voce alle mie spalle.
So però che quelle ciglia si aggrottarono ancora di più, se ciò fosse stato ancora possibile, e cominciai a temere una di quelle terribili sfuriate di cui tanto si parlava.  Il Generale invece raccolta evidentemente tutta la pazienza del buon padre di famiglia, che si acquisisce stando a contatto con i giovani, ringraziò per la sincerità, mentre un sudore gelido, ma forse era il caldo del periodo, complice una banale corrente d'aria, mi imperlava la fronte e scivolava lentamente sulle guance roventi.
Poi, con estrema calma, spiegò che comprendeva la scelta, in quanto in effetti la montagna provocava a chi la frequentava, quasi sempre, una malattia terribile ed incurabile; chi la prendeva difficilmente sarebbe guarito.
La malattia in discorso aveva il nome di “alpinite” ed il contagiato se la sarebbe portata dietro per tutta la vita. Nei suoi occhi vidi un lampo di orgoglio mentre  pronunciava quelle parole: ben presto mi sarei reso conto del loro vero significato, quando contrassi quella malattia che tuttora mi accompagna.
Dopo questo brillante esordio la mia vita da allievo si svolse tra alti e bassi come per tutti gli altri compagni, con decine di aneddoti che varrebbe la pena di raccontare, ma uno di questi mi pare assai significativo della vita di caserma.
E' noto che gli allievi della seconda Compagnia AUC, tra le tante altre agevolazioni (o almeno tali ai nostri occhi), potevano adornare il loro viso con barba e baffi, ben curati ovviamente, a noi invece era negato.
Già questo rendeva antipatici a molti di noi i “Petrocchini”, e la cosa che più infastidiva era la loro arroganza, unita alla mancanza di deferenza nei confronti dei “padri”.
Ora la cosa mi fa ridere, ma a quel tempo, quando i goliardi portavano la “feluca” ed i diplomandi la “papalina“ e la naia era “pinciare”, a strisciare sotto i muli con l'uniforme di ordinanza, a poter “tirare” il cappello ed ad altre chicche del genere, ci si dava una certa importanza .
Questo stato di fatto, complice alcune ingiustizie nei nostri confronti, li fece oggetto di molte ritorsioni e scherzi da parte nostra; uno in particolare fu di grande effetto.
La prima compagnia doveva partire per il campo invernale con trasferimento alla caserma Monte Bianco di La Thuile. Era il 29 novembre e mancavano 24 giorni alla fine del corso. Fino al 13 di dicembre quella sarebbe stata la nostra nuova casa.
La notte che precedeva la partenza, al piano della prima compagnia ci fu molto movimento, ombre scure rapidamente scendevano dalle brande, sgusciavano lungo i corridoi ed altrettanto rapidamente, poco dopo, si infilavano nuovamente sotto le coperte.
Il mattino della partenza eravamo schierati, armi e bagagli, sulla piazza antistante la palazzina AUC, quando il comandante di Compagnia tenente Folegnani, detto Tex, ci apostrofò duramente: se non usciva chi aveva prelevato e fatto sparire nottetempo il tavolo dell'allievo di giornata della seconda Compagnia, registro compreso, saremmo rimasti sugli attenti al freddo e sotto la neve.
Al di là del timore per la minaccia, la cosa portò una certa dignitosa ilarità nella Compagnia, prontamente spenta da Tex, però non con la solita severità, anzi mi parve persino che un furtivo malizioso sorriso distendesse la solita grinta, il solito viso truce.
La cosa andò avanti un bel po', poi non confessando i colpevoli, che evidentemente erano più di uno, considerato l'oggetto trafugato, si decise di partire egualmente verso la tradotta, demandando a successivo periodo la punizione più consona al misfatto perpetrato.
Nessuno confessò, né mai si seppe la fine che avessero fatto il suddetto tavolino ed il soprastante registro dell'allievo di giornata della seconda Compagnia, che si disse fosse prontamente stato sostituito con altro similare; il povero allievo di giornata della seconda compagnia, pare per combinazione proprio il meno “religioso” di tutti, subì una esemplare lavata di capo dal proprio Comandante.
Si dice anche che anni dopo il tutto sia stato rinvenuto nel sottotetto, sotto un cumulo di vecchie divise, in occasione di, evidentemente rare, ispezioni in loco.
Se non si fosse trattato di uno scherzo più goliardico che naione, si potrebbe parlare di una operazione di “commando” da manuale.

Sarebbe bello anche ricordare tra i tanti aneddoti che mi sovvengono, quando un allievo che era famoso per la predisposizione al sonno, tanto da dormire anche in piedi, trasportato, completo di branda, nottetempo, sotto la bandiera, continuò a dormire per svegliarsi solamente al suono della tromba dell'adunata; ma questa è un'altra storia.
Ci sono poi decine di altri ricordi seri e faceti, di quel bel periodo, sofferto ma stupendo, l'ultimo bel periodo della vita spensierata di un ragazzo, dopo il quale sarebbe iniziata la vita reale, seria, con i suoi impegni e le conseguenti preoccupazioni.

Tali ricordi li porteremo sempre con noi e se qualcuno ce lo chiederà forse li racconteremo, così semplicemente, fermandoci solo un attimo quando un groppo in gola ci obbligherà a schiarirci la voce.



2. 
Tre giorni in cella di rigore 
(Paolo Moneta)

… La tattica di addestramento degli allievi ufficiali (addestrati esclusivamente da ufficiali alpini) è quella delle antiche scuole ed accademie militari: soffocare la personalità individuale, addestrare alla sofferenza, al sonno, alle decisioni difficili, far forgiare un uomo che dovrà avere la responsabilità di altri uomini, implementando queste caratteristiche con le attitudini individuali (che non vengono soppresse in cinque mesi ma restano latenti). Sveglie anticipate, contrappelli notturni, accanimento nei confronti delle personalità esuberanti, punizione collettiva per l’errore del singolo, punizioni immotivate …
(Sottotenente degli alpini Tommaso Botto)

In linea di massima, credo di poter condividere quanto ha scritto l’alpino Botto, anche se la realtà della mia esperienza alla SMALP, per quanto dura e faticosa possa essere stata, mi è parsa tutt’altro che inaccettabile e comunque sempre allineata e mai al di sopra delle reali possibilità di una persona sana di fisico e di mente.
Forse ho trovato un po’ fuori dalle righe soltanto la severità e, mi sia permesso il termine, la stupidità di certe punizioni, comminate a destra e a manca, direi quasi a sorteggio, o per soffocare la tua personalità (e spero sia stato questo il motivo) o per esercitare più o meno inconsci sensi di rivalsa (e temo che molto spesso sia stato questo il motivo).
E’ da queste considerazioni che ha inizio il mio breve racconto.
Sono passate da poco le dieci di sera e gli altoparlanti della scuola militare alpina di Aosta hanno già mandato in onda le note del Silenzio militare. Da allora fino alle 5.30 del mattino seguente, così come per tutti i 150 giorni della durata del corso, nelle palazzine riservate agli AUC e agli ACS non deve volare neppure una mosca.
Ciononostante, nella camerata numero 1, quella ‘riservata’ ai primi arrivati alla scuola, al piano terreno, tre allievi ufficiali decidono, ahimè, di disubbidire a quest’ordine tassativo (ma in gergo militare si direbbe, giusto per aumentarne la gravità, ‘trasgredire’).
Questi ingenui mariuoli, un ligure, un piemontese ed un lombardo, in realtà non hanno in mente nulla di eclatante.
Fattosi prestare un mazzo di carte da gioco napoletane, con l’impegno di restituirle a fine partita al collega AUC che ‘abita’ al primo piano, hanno deciso di sfidarsi nella più banale partita a carte che possa esistere.
Per non essere scoperti, visto che il finestrone della stanza si affaccia direttamente sul piazzale della scuola e non è ovviamente possibile accendere la luce, Mirco Bozzo, Ugo Ferrando e Paolo Moneta hanno deciso di disputarsi il titolo di ‘re della briscola dalla camerata 1’ scomodamente accovacciati per terra, sotto una branda malconcia, alla misera luce di una pila a batteria.
Essendo ormai trascorsi molti anni, non ricordo chi dei tre conquistò l’ambito titolo in palio.
Ricordo invece molto bene quanto successe in seguito.
Terminata infatti la grande sfida, come d’accordo con l’amico che ci aveva prestato le carte, era necessario provvedere alla restituzione delle stesse. E qui sorgeva il primo problema.
A silenzio suonato, infatti, era sì possibile uscire dalla propria camerata, ma solo per accedere ai bagni, e specificatamente a quelli situati nello stesso piano della tua camerata. In altri termini, a noi che abitavamo al piano terra, non era giustamente concesso di andare a fare pipì al primo piano, e viceversa.
E l’essere scoperti a passeggiare su un piano non di ‘competenza’ avrebbe potuto essere motivo di grave infrazione alle regole.
Bozzo, Ferrando e Moneta, di fronte a questo primo problema, commisero il loro primo grave errore.
Presero in considerazione tre diverse opzioni.
La prima, chiaramente la più logica, sarebbe stata quella di riconsegnare le carte da gioco l’indomani mattina, essendo preferibili le controllabili ire dell’amico a quelle ben più incontrollabili dei superiori: essendo una soluzione logica e scontata, i tre intellettualoidi decisero di scartarla.
La seconda opzione avrebbe previsto la riconsegna del mazzo di carte in serata, così come concordato all’origine, incaricandone soltanto uno dei tre. Per la scelta del malcapitato, si sarebbe potuto procedere sia per estrazione che selezionando l’ultimo arrivato nella tenzone appena terminata.
Ma, inevitabilmente, i tre scelsero l’ultima possibilità: la più rischiosa e la più illogica. ‘In tre abbiamo trasgredito ed in tre, insieme, provvederemo alla riconsegna’ fu la frase che più o meno all’unisono i nostri eroi sussurrarono con estrema fierezza, sempre nascosti sotto la malconcia brandina e sempre alla più fioca luce della pila a batteria.
All’andata andò tutto abbastanza liscio. I tre procedettero cautamente in rigorosa fila indiana, a guisa di squadra speciale addetta alle operazioni ad alto rischio. Ferrando manteneva la posizione di testa, Moneta era al centro, mentre Bozzo copriva le spalle al terzetto.
Raggiunsero senza ostacoli il piano superiore e, senza alcun intoppo, arrivarono alla camerata obiettivo della missione provvedendo così alla riconsegna di quanto dovuto.
Ma fu nella fase di rientro che iniziarono i guai.
Appena usciti dalla stanza e pronti per la discesa al piano inferiore, scorsero infatti un Sottotenente della seconda compagnia che passeggiava lungo il corridoio, con l’aria di chi volesse prendere qualcuno in difetto e castigarlo severamente.
Pur essendo ad una certa distanza, gli sguardi si incrociarono. Erano stati scoperti.
Ormai addestrati dalla ferrea istruzione della scuola, i tre, questa volta, scelsero la strategia più consona e corretta. Diversificarono difatti i loro percorsi, rendendo così assai più arduo l’inseguimento da parte dell’alto graduato.
Ugo Ferrando, non per niente valente pilota di auto da rally, sgusciò gettandosi letteralmente a capofitto lungo la scalinata e raggiungendo la propria camerata prima ancora che il nemico potesse avvicinarsi al primo gradino della lunga scala. Fu il solo del terzetto a salvarsi ed a restare impunito.
Paolo Moneta decise invece di entrare nel vicino locale toilette e di nascondersi dietro la porta di legno di uno dei dieci bagni turchi che correvano affiancati lungo la parete. Fatto edotto da uno dei tanti film di spionaggio che arricchiscono la sua cineteca, lasciò la porta più aperta possibile e si acquattò dietro la stessa, sperando di dare l’illusione che il piccolo bagno fosse vuoto. In effetti l’ufficiale entrò nello stanzone della toilette, controllò tutti i bagni e, per fortuna del nostro, non scoperse nessuno. La strategia di Moneta sembrava aver avuto successo. Purtroppo non fu così.
Mirco Bozzo accettò invece con estrema filosofia le eventuali conseguenze che sarebbero potute derivare dalla sua piccola malefatta. Mentre Ferrando e Moneta cercavano alternative vie di fuga, lui si presentò tranquillamente all’ufficiale, pronto a scontare le sue colpe.
Moneta restò nascosto nel bagno per qualche tempo. Quando ritenne che fosse arrivato il momento giusto, decise di uscire per tornare, sano e salvo, alla propria camerata.
Uscì con cautela dal locale toilette. Ma riuscì a fare solo pochi passi perchè improvvisamente, voltato il primo angolo, davanti a lui si parò l’ufficiale, ora accompagnato da qualche altro graduato, e con l’imperturbabile amico Mirco Bozzo che attendeva in apparente tranquillità l’evolversi della situazione.
Il beffardo sottotenente, al momento, si limitò a prendere i nomi ed i dati identificativi (numero della compagnia, della camerata, del plotone, della squadra) dei due ragazzi.
Nella stessa notte, purtroppo, sempre al primo piano, ma la cosa si seppe solo la mattina successiva, un allievo ufficiale (si maligna che fosse della prima compagnia) pensò bene di fare il solito gavettone notturno ad un figlio della seconda, dopo un rapidissimo toccata e fuga tra le due camerate.
La sua azione fu perfetta, rapida ed efficace perché raggiunse l’obiettivo. E, soprattutto, l’autore ebbe il merito di non farsi individuare.
Sta di fatto che, l’indomani mattina, agli alti ufficiali della scuola, risultava che nella notte era avvenuta un’azione gavettone e contestualmente erano stati individuati due allievi che avevano gravitato in zone non di competenza: Bozzo e Moneta.
Collegare le due azioni fu un fatto scontato.
L’auto difesa dei due, ingiustamente incolpati di un fatto non commesso, fu molto labile.
Penso che entrambi, avendo ritenuto che le alte sfere non avrebbero mai creduto alla loro versione, valutarono che continuando a dichiarare che loro nulla centravano con la storia del gavettone, altro non avrebbero fatto che aggravare la loro posizione, aggiungendo alla non colpa del gavettone una ulteriore ed ingiusta qualifica di persone non veritiere.
Fatto sta che il mattino seguente Bozzo e Moneta furono convocati, separatamente, nell’ufficio del comandante delle compagnie AUC, tenente colonello Verunelli. Lo stesso, con fare grave e solenne accompagnato da un continuo andirivieni nella stanza, dopo aver adeguatamente sottolineato la gravità del comportamento e l’immaturità dei due ragazzi, comminò loro la punizione esemplare, ancorchè esageratamente eccessiva e al di fuori di ogni logico buon senso: tre giorni di cella di rigore!

Mi permetto un piccolo inciso.
Bozzo e Moneta, avendo deciso come sopra scritto di non difendersi ad oltranza, ritenendo la cosa per loro controproducente, provvidero a raccontare il reale accadimento dei fatti, per filo e per segno, al compagno capo-corso e tri-baffo Bertarione.
La speranza era che lo stesso indagasse tra i colleghi e, magari, trovasse il vero responsabile e ne riferisse a chi di dovere. O, quantomeno, parlasse con il nostro comandante Folegnani prendendo, in qualche modo, le loro difese.
L’amico Bertarione, purtroppo e con nostra grande delusione, non diede alcun seguito a queste attese.
Voci di corridoio d’allora, non so comunque se attendibili, sussurrano che il vero artefice del malfatto fosse stato invece l’allievo ….
Orbene, carissimo allievo …. , se ci sei, ci leggi, e sei stato tu, potresti ancora rimediare con un simpatico invito a cena per Bozzo Moneta e signore.

L’unica cella di rigore della SMALP si trova nella palazzina subito retrostante all’ingresso principale della scuola, in via Saint Martin de Corleans. Una sala d’ingresso, una ampia stanza per le visite dei parenti, un locale di riposo per le guardie di servizio ed una camera con branda per l’ufficiale di picchetto completano la piccola struttura.
La configurazione della cella segue per filo e per segno le disposizioni regolamentari.
Misura circa 8 piedi (1,80 x 2,40), le pareti sono rigorosamente in muratura, con una finestrina protetta da sbarre in acciaio nella parte alta della solida porta in legno. 
All’interno non c’è alcun mobile, tranne un grande lettino in legno a due piazze, tipo quelli usati negli spogliatoi sportivi per fare i massaggi.
Bozzo e Moneta fecero il loro ingresso nella cella di rigore portando con sé solo quanto concesso dal severo regolamento vigente: un solo capo di abbigliamento (la tuta da ginnastica), il loro materasso con cuscino, una coperta di lana, i libri di studio della scuola, il necessaire igienico. Disposero di due mezze ora al giorno di libertà ‘vigilata’ (cioè con al seguito un piantone) oltre alla completa libertà di muoversi in caserma nel periodo serale corrispondente alla libera uscita. Pranzo e cena venivano consumati in cella, mentre per soddisfare i bisogni corporali bisognava chiamare il soldato di guardia di turno e per la relativa urgenza era necessario affidarsi alla sua pietà.
Bozzo e Moneta vissero così per tre giorni e tre notti more uxoris, condividendo in tre metri quadrati settantadue ore di gioventù e l’assurdità di un castigo che sapevano perfettamente di non meritare.

Post scriptum
Non conosco il pensiero di Mirco in merito, ma io vissi molto male questa esperienza.
Rimasi deluso, nell’occasione, da tutti i miei superiori coinvolti, che preferirono individuare in fretta e furia dei colpevoli e dare una punizione esemplare, piuttosto che accertarsi di come effettivamente si fossero svolti i fatti.
Nella mia modesta valutazione, salvai soltanto il mio capitano, il taciturno tenente Folegnani, soprannominato Tex, del quale serbo ancor oggi un ottimo ricordo.
Terminati i giorni della punizione, mi chiamò infatti a rapporto. Temevo, all’inizio, l’ennesima sfuriata con conseguente lavata di testa. Inaspettatamente, avvenne invece il contrario. Lodò la dignità con cui Bozzo ed io subimmo la punizione, quasi avesse seri dubbi riguardo la nostra presunta colpevolezza.




3. Il mio 64 AUC (Vinicio Callegari)

Fine anno 1970, frequento il 3° anno di Scienze Geologiche e, a causa di un protrarsi di scioperi in Ateneo, non riusco a certificare il rinvio alle armi.
Con data 5 gennaio 1971 (cinque giorni dopo... che solerzia da parte dello Stato) ricevo la cartolina verde con la quale mi dicono di stare a disposizione per essere inviato presso un reparto.
Tento la carta della domanda al corso Allievi Ufficiali pensando che, fra test attitudinali ed altro passerà un po’ di tempo e quindi sotto con gli esami. E poi chissà...ci saranno molte domande e avrò forse più tempo a disposizione.
Con data 7 febbraio 1971 sono perentoriamente invitato a Verona per fare tutta una serie di visite, test e quant’altro. Non mi impegno neanche tanto, io ho solo bisogno di tempo per laurearmi.
Tant’è che a luglio una cartolina spedita da lontano mi invita a presentarmi entro il 7 luglio 1971 presso la Caserma “Cesare Battisti” in Aosta per frequentare il 64° corso AUC. Amen.
Passerà anche questa mi ripeto. Il mio spirito libero stenta ad adeguarsi alle ferree regole vigenti: attraversare i cortili sempre di corsa … scattare sull’attenti al passaggio di un superiore, fosse anche un caporale (ma non ero parificato al grado di caporale come Allievo ???), il “cubo”, la reazione fisica con scarpette che ti mortificano i piedi, i Vibram che da marron devono diventare neri...ecc.
Lo spirito e forte ma la carne è debole. Così, dopo tre settimane senza poter comunicare a casa e alla morosa (telefono dello spaccio sempre sotto assedio e chissà come mai “uniforme non in ordine...niente libera uscita”), finalmente esco.
Arrossisco ancora oggi al pensiero, ma arrivato in piazza sbatto contro un Vigile Urbano in divisa, con i suoi galloni dorati e luccicanti. Scatto immediatamente sull’attenti e col saluto al cappello....
Lui mi guarda, sorride e mi fa: ” Ma va....”.
Il mio spirito libero si era addormentato.
Vengo inserito nel Plotone Pionieri come specializzazione e riesco a superare il corso in qualche maniera restando a metà classifica. Un po’ scarso in attitudine al comando!
Faccio parte del coro, il magnifico coro diretto da Rebulla e con i colleghi almeno giriamo per portare le nostre cante dove ci richiedono.
Siamo il primo Corso che non farà il Sergentato AUC, e il Comando si trova a dover gestire il passaggio dai 5 mesi ai 6 mesi di istruzione, ragion per cui restiamo in caserma a fare i servizi di guardia e picchetto anche col “brevetto da S.Ten.” in tasca fino alla scadenza deil sesto mese.
Vengo assegnato al 6 Rgt. Alpini, Btg. Bolzano a Bressanone (BZ) che è tuttora sede estiva dei corsi dell’Università di Padova come mio diritto allo studio.
A parte qualche rovescio me la sono cavata. Dopo circa due mesi comandavo La C.C.e S. E questo fino alla fine del servizio di prima nomina (alla faccia di quel “un po’ scarso in attitudine al comando”) e mi hanno dato l‘Eccellenza.


La brutta cosa che mi è capitata è stata quella del recupero dei resti del povero collega Turini deceduto a causa del ribaltamento di un camion e di aver poi comandato il picchetto d’onore durante i suoi funerali. Lo ricordo ancora con commozione.


4. 
Una notte sotto la neve (autori vari)

Contrariamente alle attese, la salita al Colle San Carlo, per quanto faticosa, risultò meno improba del previsto.

Del resto, i sette chilometri di strada innevata che portavano dai 1.441 metri di altitudine di La Thuile ai 2.000 metri del colle San Carlo, non potevano rappresentare un ostacolo insormontabile per dei ragazzi allenati ed in buona forma fisica.
La vera difficoltà, per la maggior parte degli allievi, fu piuttosto rappresentata dal peso dello zaino, fonte di continuo sbilanciamento.
Pendeva di tutto, dagli zaini: la gavetta, il badile pieghevole, il fucile, la borraccia.
Anche gli sci in dotazione non erano il massimo della tecnologia: due legni stagionati, pitturati di bianco, talvolta disuguali tra loro, con due lamine arrugginite avvitate ai lati.  La loro scorrevolezza era un optional non incluso.
Gli attacchi di sicurezza? Sarebbe stato un sogno irrealizzabile. Quegli sci avevano dei superati attacchi a ganascia, con la classica molla posteriore e con la leva davanti per tenderne il cavo. In caso di caduta non si sarebbero sganciati neppure invocando la Madonna degli Alpini!
Le pelli di foca? Solo impensabile immaginare che fossero pelli di ultima generazione, con la banda di tessuto sintetico adesiva da un lato e ricoperta dall’altro di fibra tessile orientata: erano semplicemente due strisce conciate (doppio senso quanto mai appropriato) di pelle animale, con i lacci di cuoio che si rompevano o si slacciavano di continuo. Affermare che quelle pelli fossero un filino superate ed usurate non è neppure un eufemismo.
Gli allievi salirono le ripide rampe verso il Colle San Carlo a passo lento e costante. La fatica, complice il peso dello zaino, si faceva sentire.
In lunga fila indiana proseguirono senza intoppi il loro cammino.
Nel primo pomeriggio raggiunsero la cima del colle.
Lo spettacolo che si presentò loro era superbo.
Il panorama sulle due valli sottostanti era molto ampio ed a nord-ovest la vista si perdeva fino a raggiungere le rampe finali del colle del Piccolo San Bernardo.
I ragazzi deposero i pesanti zaini sulla neve e cominciarono a rifocillarsi.
Era trascorsa poco più di mezzora quando il comandante Folegnani, assistito dagli altri graduati della prima compagnia, provvide a formare squadre di quattro allievi ciascuna ed a predisporre la disposizione delle trune.
Immediatamente, con solerte ed intatta energia, rinvigoriti dai viveri di conforto, i ragazzi si misero all’opera.
Per loro fortuna, a differenza dell’igloo che richiede una perizia costruttiva nient’affatto banale, la truna è abbastanza semplice da realizzare.
Ligi alle spiegazioni tecniche ricevute dai loro superiori, i gruppi di quattro allievi cominciarono a scavare nella neve con il piccolo badile pieghevole. Per raggiungere la corretta dimensione della truna, all’incirca 3 metri per 2 con un’altezza interna di almeno 80 centimetri, le prime squadre impiegarono quasi due ore.
Successivamente bisognava completare l’opera con la realizzazione, si fa per dire, della pavimentazione, della copertura, della porta d’ingresso e dell’impianto di riscaldamento.
I servizi igienici non erano inclusi: alla bisogna era sufficiente uscire dalla truna (ma la cosa avrebbe comunque presentato qualche piccolo problema) e fare pipì o altro ad una ventina di gradi sotto lo zero.
Non disponendo di parquet e neppure di moquette, fu un abbondante strato di rametti di pino, poi ricoperto da un telo militare, a fare da funzionale sistema isolante. Questa operazione si concluse rapidamente e non presentò alcuna difficoltà.
La copertura della truna richiese invece una maggiore diligenza edilizia. L’intelaiatura ad incrocio di rami, sci e bastoncini doveva infatti, ricoperta dal solito telo militare, essere in grado di sostenere il tetto vero e proprio, nella circostanza almeno trenta centimetri di neve. Qualche quartetto, purtroppo, causa la relativa carenza ingegneristica, fu costretto a ripetere l’operazione più di una volta. Fortunatamente, alla fine, tutte le trune presentavano una corretta copertura.
Davvero geniale fu la messa a punto dell’impianto di riscaldamento. Furono realizzati dei micro caloriferi, rappresentati da due candele incerate a due gavette. Opportunatamente posizionati all’interno della ‘suite’, avrebbero dovuto garantire una temperatura intorno ai 5 gradi sopra lo zero. Incredibilmente, questo originale impianto funzionò alla perfezione e meglio riscaldò dove maggiore era stato lo spessore di neve impiegato nella costruzione del tetto.
Per terminare la realizzazione degli interni, furono lisciate al meglio le pareti per impedirne il gocciolamento, mentre il ricambio dell’aria venne garantito praticando con un bastone due piccoli fori, l’uno nella parte bassa dell’ingresso e l’altro nella parte alta della truna.
La porta di accesso al locale, rigorosamente dalla parte dei piedi e preferibilmente sottovento per evitare l’ingresso violento e diretto di aria fredda, fu realizzata impilando gli zaini, cercando di tappare nel modo migliore tutti i possibili spifferi.
Stava calando definitivamente la luce quando anche l’ultima squadra completò la costruzione del proprio alloggio di fortuna.
Quell’originale accampamento composto da una quarantina di casette di ghiaccio era pronto per ospitare tutti gli allievi.
Invitati dal loro comandante, i ragazzi si ritirarono nelle trune.
La temperatura esterna era già precipitata sotto lo zero.
Con cura, i ragazzi attivarono l’impianto di riscaldamento.
Al lieve tepore di questi ingegnosi ripari, si prepararono a cenare. Aprirono le confezioni di razione K.
Ne controllarono il contenuto con l’attenzione di chi sa che, dal punto di vista alimentare, rappresentavano tutto quanto avevano a disposizione. C’era una bustina di cordiale, del caffè, del cioccolato, un tubetto di latte condensato, qualche galletta, della carne in scatola, dei fagioli e, per terminare, dieci sigarette (che rappresentarono un’ottima merce di scambio tra fumatori e non-fumatori).
La minuscola dimensione del locale-loculo, come lo definì Robertino Salati, invitava a parlare sottovoce.
Si cenò in tutta calma poi, con movimenti disciplinati per non urtare il compagno vicino, ci si infilò nei sacchi a pelo.
Prima che il sonno vincitore abbracciasse l’intera compagnia, ci fu solo il tempo per scambiarsi quattro chiacchiere. La preoccupazione su come avrebbero trascorso la notte fu l’argomento più gettonato.
Alle quattro del mattino suonò, brusca e improvvisa, la sveglia. Non era il solito squillo di tromba cui erano stati abituati in caserma, bensì la roca voce del sottotenente di servizio che, passando di truna in truna, dopo aver spostato gli zaini all’ingresso, sollecitava la truppa con un perentorio: ’Sveglia, smontare tutto. Si riparte!’.
Robertino, appena uscito dal suo loculo, per prima cosa si prese la briga di misurare la temperatura: 20 gradi sotto lo zero!
Poi si soffermò ad ammirare, solitario, l’incantevole spettacolo dell’alba nascente in un paesaggio ammantato di candida neve.
La magia, purtroppo, durò solo pochi istanti poiché in pochi minuti l’accampamento si ripopolò.
Infatti, uno dopo l’altro, tutti i ragazzi sbucarono velocemente dai loro alloggi e, con incontrollata rapidità, distrussero quel momento incantato innaffiando di caldo liquido giallognolo buona parte del bivacco.
Una volta espletati, e disciplinatamente ricoperti, i bisogni fisiologici, tutti si misero alacremente al lavoro.
Del resto, anche per i più pigri era preferibile restare attivi e in movimento piuttosto che soffrire inoperosi al gelo.
Nell’arco di un’ora l’accampamento venne completamente smontato e l’intera zona adeguatamente ripulita.
La prima compagnia del 64 corso AUC aveva superato la tanto temuta prova di sopravvivenza ed era pronta per il ritorno in caserma.

Inaspettatamente, i dieci chilometri di rientro fino a Morgex rappresentarono un ostacolo molto più arduo da superare rispetto alla salita del giorno precedente.
Durante la discesa, infatti, accadde di tutto.
La lunga fila indiana che avrebbe dovuto serpeggiare ordinata lungo i continui tornanti che scendevano verso valle, fu di continuo interrotta da ripetuti capitomboli.
Diverse le cause che determinarono questa piccola ecatombe.
I circa 30 kg. di peso dello zaino e l’impossibilità di ancorarlo al petto essendo lo stesso sprovvisto degli appositi lacci, furono senza dubbio un motivo rilevante. Ad ogni curva, infatti, il peso dello zaino ti spingeva dalla parte opposta e mantenere l’equilibrio diventava uno sforzo improbo se non del tutto inutile. A complicare poi le cose, ben presto i ragazzi si accorsero che, una volta caduti, era impossibile rialzarsi da soli e necessitavano due solidali compagni che, preso il tapino per le braccia, lo risollevassero in piedi.
Ma responsabili di questa strage furono anche coloro che si ritenevano sciatori di buon livello. Convinti infatti di poter controllare senza alcuna difficoltà i due obsoleti pezzi di legno che avevano ai piedi, si lanciarono in ripetuti sorpassi, convinti di potersi fermare a sci paralleli ed in assoluta eleganza come erano soliti fare volteggiando sulle piste ben battute ed innevate.  Fu una bella musata nella neve fresca a riaccendere la lampadina della saggezza, riportandoli a più miti atteggiamenti.
Immense difficoltà le ebbe anche e soprattutto chi, per fortuna un’esigua minoranza, non era uso agli sci. Per costoro la discesa si rivelò un ostacolo insormontabile e dopo qualche vano tentativo, furono costretti a procedere a piedi.
Infine, l’ultima ragione di questo scempio sciistico, e probabilmente era la causa principale, fu l’immane stanchezza determinata da due giornate tanto indimenticabili quanto faticose. Il peso dello zaino trasportato camminando all’andata o mal sciando al ritorno, il freddo intenso per buona parte del tempo, una notte gelida per molti quasi insonne, un’alimentazione da soldati al fronte, avevano sottoposto a durissima prova la resistenza dei ragazzi.
Poi, come sempre accade al termine di una faticosa, impegnativa e per certi versi indimenticabile impresa portata a buon fine, l’immensa soddisfazione per il risultato raggiunto ebbe ben presto il sopravvento.
Cominciarono a sprecarsi i commenti più aulici. C’era che affermava che ormai si fosse diventati dei veri soldati e grandi uomini tutti d’un pezzo, altri si lasciavano andare a valutazioni più profonde, pensando a quanto, immersi tra le nevi sulle bianche montagne, si fosse purificato il nostro corpo e la nostra mente, e così via senza dar limite alla creatività della fantasia, per di più ubriacata dall’abbodante stanchezza.


Fu l’affermazione improvvisa del solito burlone di turno che, scatenando l’ilarità dei presenti, riportò tutti con i piedi per terra: ‘Non mi sono mai rotto il culo così tanto come in questa discesa di merda!’.


5. 
IL MURO DEL PIANTO (Alberto Orecchia, Paolo Moneta, altri)


La lunga camminata di ritorno da quota 1.790, corrispondente alla rinomata località conca di Pila, fino ai 583 metri di altitudine della caserma di Aosta, sottopose a dura prova i giovani soldati.
La difficoltà maggiore della discesa non derivò tanto dal peso dello zaino, stabilita in 25 kg. sulla base di quanto furono obbligati a riporvi all’interno, quanto dal primo vero collaudo cui furono sottoposti i pesanti scarponi da montagna avuti in dotazione insieme al resto dell’equipaggiamento personale.
Già la consegna del materiale, soprattutto per coloro che si presentarono tra gli ultimi, aveva suscitato qualche perplessità. Un numero di scarpa in più o in meno (allora non esistevano ancora i mezzi numeri) non rappresentava differenza alcuna per il furiere addetto alla bisogna.
Non fu la stessa cosa, purtroppo, per le estremità dei ragazzi.
Inoltre i Vibram, ancora non rodati all’uso, finirono col procurare dolorose vesciche ai piedi dei tanti di loro abituati ai più comodi mocassini borghesi e non ancora avvezzi a quelle dure calzature simili a stivaletti malesi.
Per di più, nella foga della discesa a rotta di collo, qualcuno scivolò pesantemente o sugli aghi di pino del sentiero o semplicemente per mancanza di equilibrio, minato dal pesante affardellamento.
Non erano ancora giunti a metà strada, quando un allievo non si sentì bene e fu chiamata d’urgenza una A.R. (autovettura da ricognizione) affinchè venisse portato di tutta fretta all’infermeria della caserma.
Fu così che il conseguente ritardo di marcia di taluni, le lamentele doloranti di tanti altri ed un ‘ritiro dalla competizione’ scatenarono, al rientro in caserma, la reazione punitiva del loro Comandante.
Il sole era già calato quando la prima compagnia del 64mo corso AUC, sfilacciata e lagnante, varcò il cancello d’ingresso della caserma.
I ragazzi, dei quali una buona parte risultava claudicante, furono messi in riga nel grande cortile antistante le camerate.
C’era un silenzio assoluto, segno di imminente temporale.
Ruppe infatti questa quiete solo apparente un tonante ‘Mezze seghe’, rivolto alla truppa da un innominabile sergente.
Poi parlò il Comandante Folegnani.
Come suo solito, fu molto parco nell’uso delle parole. Ne bastarono solo cinque.
Tex sentenziò: ‘Fidanza, al percorso di guerra!’  

Qui necessita un lungo e dettagliato inciso per descrivere nei particolari le difficoltà previste in questa originale passeggiata bellica.
Per la precisione, gli ostacoli sono 17, di foggia e dimensione diverse.
L’intero percorso misura all’incirca 450 metri.
I praticanti possono affrontare il percorso indossando la tuta ginnica o la tenuta da combattimento.
Ecco l’ordine e la denominazione degli ostacoli:
1. Banchina con fosso
2. Doppia trave
3. Assi di equilibrio
4. Gabbia di staccionate
5. Spalliera orizzontale
6. Riviera
7. Reticolato
8. Spalliera
9. Palco di salita con scala di corda e tacche di invito e passaggio su fune
10. Reticolato
11. Macerie di abitazione
12. Terreno rotto
13. Castello per il salto dall’alto e muro a parete liscia verticale
14. Passaggio su ceppi
15. Tavola di equilibrio oscillante
16. Passaggio con resistenza allo spingere
17. Passaggio con resistenza al tirare
Solitamente, vengono impiegati dai 2’15”ai 3’30” per compiere l’intero percorso che è di una durezza estrema.
Alcuni ostacoli, come il palco di salita e le macerie di abitazione, soprattutto perché inseriti dopo più di un minuto di percorso, sono stronca gambe.
Inoltre, la quattordicesima barriera, che prevede il superamento di un muro alto circa m. 2,50, viene affettuosamente chiamata, per la sua difficoltà, ‘muro del pianto’.
Da un punto di vista della tipologia dello sforzo, questa simpatica scampagnata può essere paragonata ad un ibrido tra una gara dei 400 metri ostacoli ed una dei 3.000 metri siepi, con un maggior impegno delle capacità di forza e, data la diversità degli ostacoli, con un maggior stimolo delle capacità coordinative.
Nell’effettuare il percorso di guerra, i principi base sono:
- Corretta distribuzione dello sforzo
- Superamento efficace degli ostacoli
- Passaggi radenti
- Discesa degli ostacoli con sguardo orientato all’ostacolo successivo
- Affrontare il percorso con grande volitività



Quella decisione, era veramente assurda e sproporzionata.
Ma quello che accade successivamente a quell’ordine, fu qualcosa di assolutamente prodigioso.
L’esagerata ed illogica ostinazione con la quale l’alto ufficiale voleva portare allo sfinimento i suoi ragazzi, finì con l’essere recepita da questi ultimi come una sfida che non poteva assolutamente essere persa.
La battaglia, se tale si poteva definire, tra i ragazzi ed i loro superiori non era più una questione di fatica, tanto, più sfiniti di così non si poteva essere, bensì una questione d’orgoglio, da vincere e basta.
Una scarica improvvisa di adrenalina, come fosse una scossa elettrica, attraversò tutti i giovani militari.
Scattò tra loro un solidale e spontaneo spirito di gruppo.
Questo tacito e non concordato patto d’acciaio fece sì che ogni coppia avrebbe affrontasse il percorso con la ferrea convinzione che tutti, in ogni modo, avrebbero dovuto portarlo a termine con successo e, se necessario, ci si sarebbe aiutati vicendevolmente fino alla fine.
I ragazzi, trasferitisi immediatamente alla vicina caserma Ramirez, sempre con gli stessi malaugurati e colpevoli scarponi ai piedi, si allinearono in fila per due davanti alla banchina con fosso, primo ostacolo della lunga serie.
Cominciarono le partenze, con un breve intervallo tra una coppia e la successiva.
Il sole stava calando e le prime oscurità della notte cominciavano ad avere il sopravvento sul giorno che andava a terminare. L’ora del rancio serale era già passata e i giovanotti si chiesero se avrebbero avuto la possibilità di cenare.
Giuseppe Cerri, stremato, cadde nel superamento del muro e si lussò una spalla.
Rischiò, per questo incidente, di perdere il corso.
Venne poi il turno di Giorgio Colombo.
Era stremato come tutti, ma ancor più affaticato causa la sua mole naturale, essendo lo stesso di costituzione robusta, anzi, molto robusta!
Superò faticosamente i primi 12 ostacoli e si trovò di fronte al ‘muro del pianto’.
C’era arrivato, al muro del pianto, certamente non fresco come una rosa, ma piuttosto come uno straccio bagnato che nelle precedenti stazioni di quella inedita Via Crucis ci aveva già sputato l’anima.
Per vincere quel muro liscio avrebbe dovuto aiutarsi ad arrivarne alla sommità con la sola forza delle braccia, per poi scavalcarlo lasciandosi cadere nel retro e quindi proseguire verso l’ostacolo successivo. 
I suoi ripetuti tentativi si infrangevano inesorabilmente nel vano tentativo di superarlo.
Giorgio, caparbiamente, provava e riprovava l’impossibile scalata, ma inesorabilmente non cavava un ragno dal buco.
Ma c’era in gioco un patto d’acciaio, Giorgio ‘doveva’ farcela!
Alle sue spalle sopraggiunsero altri compagni, tra cui Giuliano Levrero.
Forse anche grazie alla indifferente compiacenza di qualche loro sottotenente, che aveva compreso quale fosse l’unica via per porre fine a quel martirio, Giuliano e compagni si adoperarono per aiutare Colombo nella spinta liberatoria verso l’agognata sommità di quel muro.
Sfinito ma esultante, Giorgio Colombo arrivò al traguardo.
Si susseguirono le partenze e gli arrivi.
Mano a mano che ogni ragazzo finiva la prova, si posizionava vicino ai compagni che avevano già portato a termine la propria fatica, fissando dritto negli occhi i superiori con aspetto fiero, quasi provocatorio, pronto a qualunque ulteriore sforzo.
Era ormai buio quando anche l’ultimo allievo concluse il suo impegnativo giro.
Rigorosamente in silenzio, come volevano i loro superiori, i ragazzi tornarono verso le loro camerate.
Finalmente riuscirono a ripulirsi, a rilassarsi, a mangiare qualcosa.
Chi vinse quel duello d’onore?
Probabilmente entrambi.
I ragazzi perché ‘ce l’avevano fatta’, il comandante Folegnani e la sua troupe di graduati perché, finalmente, vedevano trasformarsi quei coccolati bambocci di città in promettenti futuri ufficiali.

P.S.:
Ricordando l’episodio una quarantina d’anni dopo, è divertente notare come il fatidico muro del pianto divenne di volta in volta sempre più alto.
A parte infatti il realistico Aldo Perron (‘il muro del pianto era alto circa due metri’), altre memorie storiche del gruppo si lasciarono andare a valutazioni iperboliche.
La quotazione record fu quella di Giuliano Levrero, che stimò in 4 metri l’altezza del tramezzo. 
Lo riportò a più miti valutazioni Alberto Orecchia, ricordandogli che quel muro, se fosse stato alto 4 metri, non lo avrebbe e non lo avremmo superato neppure con una scala!




6. LA PUNTURA SALVATUTTO (Alberto Orecchia)

Tra i tanti Comandamenti da osservare scrupolosamente all'arrivo alla SMALP, vigenti d'altronde in ogni altra caserma del nostro territorio, figurava:"O Milite pellegrino, offri sempre senza esitazione il tuo petto al dolore dell'ago miracoloso per il prosieguo del cammino nella tua vita stellata in grigioverde". 
Non nego che il solo pensiero di tale dogma mi turbava oltremodo conoscendo la mia atavica fobia verso gli aghi, retaggio di pene recondite subite con le obbligatorie vaccinazioni alle scuole elementari della mia infanzia, vere decimazioni di massa di quei tempi in cui le siringhe usate erano quelle da sterilizzare previa bollitura e arricchite da un ago simile a quello usato per gonfiare i palloni di cuoio di quei tempi lontani. 
Il pensiero a quel "buco" di ordinanza era tuttavia condiviso dai più, in virtù delle nefaste leggende che giravano nel mondo della naja. 
Quella vaccinazione antitifica più antitetanica, così dicevano, ti procurava gonfiori e dolori per un paio di giorni, ma ti preservava effettivamente da ogni malattia durante il servizio militare e forse anche oltre. Erano le siringhe che impressionavano i più fifoni, descritte al pari di veri clisteri e con aghi che sembravano pali; le leggende che si diffondevano tra i militari narravano il riuso delle siringhe con il solo cambio degli aghi. 
Ma arriva quindi il fatidico giorno in cui sei stato comandato alla tua prima missione sanitaria e cerchi allora di prepararti mentalmente nascondendo il tuo timore con un training autogeno degno di un atleta, nascondendo con dignità i tuoi tremori al cospetto dei tuoi compagni più baldanzosi. Ti ritrovi in fila, scrupolosamente in ordine alfabetico, fuori dal locale infermeria dove un Caronte del servizio sanità, un infermiere strappato a chissà quale lavoro nella vita civile, con spocchia intinge un tampone nella tintura di iodio e ghignando ad un tuo malcelato timore, ti spennella il petto nudo su un seno. 
Un altro aiutante di sanità, per il dilungarsi della fila all'esterno dell'infermeria, oltre a spennellare l'allievo di turno si è cimentato a pungere qualcuno di noi, ma non come prassi demandatagli dal breve corso infermieristico, ma sbadatamente schiacciando il muscolo pettorale di un malcapitato a mò di enorme brufolo per poi trafiggerlo non nella sua profondità, ma facendo trapassare i lembi di carne come quando si cuce un tacchino! 
Accortosi dell'errore ha rimediato con un secondo inserimento dell'ago stavolta correttamente, forse dopo avere osservato il Tenente medico nel suo fare lì vicino! E' ora il mio turno. Guardo il liquido marrone che odorosamente sgradevole cola verso il basso, anteprima della mia "stimmata" alpina. 
Mi appresto ad interpretare fieramente la parte del figlio del Guglielmo Tell medico che mi sta dinnanzi impaziente. Prendo coraggio e vinco la fifa. Zac! Il Tenente medico gioca al tiro a segno e affonda lo stiletto nel mio petto duro come un sasso, ma io non accenno ad una benché minima reazione, impietrito nel mio intento di sfida alla paura. 
Fatta! Per documentare grottesche situazioni del momento è stato demandato il nostro compagno Gaddo, delegato fotografo di Compagnia, che scatta istantanee a parecchi di noi, anche a me. Orgoglioso di me stesso mi rivesto ed esco dal locale ripassando accanto alla fila dei compagni in attesa del loro turno. Osservandoli, incrocio lo sguardo con uno di loro che quando ancora attendevamo nel locale si era rivolto a noi presenti ritenendoci figli di un Dio minore, con fare di superuomo, irridendoci nelle nostre titubanze e schernendoci ironicamente. 
Tale Sivieri, un "pioniere", uno della banda dei sette nani per la sua altezza di poco superiore al minimo consentito, sfoggia una baldanza oltre i limiti a giustificazione della sua audacia. Uscendo dall'infermeria non nego che ho invidiato quel suo stato d'animo. Ma il tempo è galantuomo. Al suo turno Sivieri subisce la legge del contrappasso: smanioso prima e ... disteso subito dopo! Sgonfiato come un pallone bucato si era accasciato al suolo! Grande finto eroe! 
Dice un antico proverbio cinese:" Siediti sulla riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico!". 
Detto e fatto. Malore e svenimento ne avevano cancellato quella sua irridente alterigia! 
Era così tornato tra gli umani, con somma soddisfazione dei tanti in apprensione in fila. 
Non nego di avere io stesso goduto dell'accaduto. 


7. 
UNA SETTIMANA IN POLVERIERA (Roberto Braggion)

Come a qualcun altro, anche a me è toccata una settimana, come responsabile della sicurezza, nella Polveriera  a pochi km. di distanza da Tolmezzo. Non ricordo più il nome della località. Il luogo però era, allora, più tetro di quanto si possa immaginare.
Era situata a ridosso di una rupe, circondata su tre lati da fitto bosco e cinta da un reticolato simil-campo di concentramento. Solo da un lato, dove c'era l'entrata, confinava con la strada statale che portava a Tolmezzo. Unica forma di rappresentanza di vita, di là della strada, era un bidone, enorme, delle immondizie a disposizione della polveriera.
La montagna era percorsa da cunicoli, grotte, camminamenti sotterranei, stanze enormi un tempo adibite a dormitori, santabarbara, depositi ed altro.
Con me in servizio, a quanto ricordo, c'era una dozzina di Alpini addetti ai turni di guardia e ai servizi.
Il tempo passava molto molto lentamente in un alternarsi di luce e buio sempre uguali. Niente tv, internet, wi-fi, movida con spritz.
Le ispezioni si susseguivano con una regolarità ferrea e con notevole attenzione e diligenza: presente era ancora l'eco di attentati in Tirolo. Mi sono sentito un po' Sottotenente Giovanni Drogo, della Fortezza Bastiani ne “il Deserto dei Tartari” e, comunque, investito nella parte lo ero.
 E tutti i miei sforzi erano diretti al buon funzionamento del gruppo e alla sicurezza.
 Uscivo per le ispezioni giorno e notte, con ogni tempo che, purtroppo era freddo e piovoso, come non mai di primavera.
La ferrea disciplina (alla Sottotenente Dogo) che imponevo, a me ed ai miei sottoposti, non ha impedito loro, però, qualche piccolo momento ricreativo durante i turni di riposo. Memorabili le sedute spiritiche con relative comunicazioni con l'aldilà e perfino una colossale mangiata di lumache raccolte durante una delle poche schiarite e cucinate al modo abbruzzese: con sugo di pomodoro, origano e altre spezie misteriosamente apparse.
A parte queste poche delizie devo ammettere che quei sette giorni furono per me abbastanza duri. Ma, sopratutto, pieni di apprensione perché l'imprevisto era sempre in agguato: tanti erano gli aneddoti relativi a disgrazie che, a quanto si diceva, colpivano con regolarità e gravità il comandante di turno della Polveriera.
Fu con sommo piacere quindi che vidi trascorrere anche l'ultimo giorno di turno senza nessun intoppo e senza che alcunchè di negativo accadesse e, finalmente, salivo sulla Campagnola per fare ritorno nell'amata Caserma per un buon caffè al Circolo Ufficiali.
Trascorse solo un giorno dopo il mio arrivo alla caserma di Chiusaforte.
La punizione consistente in tre giorni di arresto di rigore mi arrivò puntuale.
Motivazione, stilata dal personale pugno del Generale allora in capo alla Brigata Tolmezzo:
…...quale responsabile, essendo al comando, di aver permesso ad un Alpino, alle ore 7,15 di mattina, di andare a depositare le immondizie dentro al bidone, situato oltre la strada fuori dal cancello, SENZA IL CAPPELLO.
Il Generale era passato in auto proprio in quel momento.
Il bello è che sono perfettamente d'accordo con il Generale. La divisa dell'alpino non era regolare e io non avevo vigilato a sufficienza affinché ciò non accadesse.
Mi piacerebbe che, ai nostri giorni, anche “altri” si prendessero le proprie responsabilità, in qualsiasi campo e in qualsiasi frangente. Sono sicuro che la nostra società sarebbe migliore di come è adesso.



8. 
LA GRANDE FUGA (Mario Sandrone)

Il sabato pomeriggio alla Scuola Militare Alpina era un giorno quasi sempre speciale, le attività erano sospese e gli allievi si rilassavano dalle fatiche della settimana appena trascorsa.
Ognuno si dedicava al disbrigo di piccoli lavori personali o curava  collegamenti epistolari con i propri familiari, non tralasciando la cura e la pulizia personale.
Quel sabato in particolare fu per me indimenticabile.Approfittando della concessione dei cosiddetti “Permessi in Valle” avevamo con Casetta, Casalegno, Miglioretti ed io, predisposto ogni dettaglio per una “fuga”verso casa da effettuarsi l’indomani mattina.
Simulando la visita alle bellezze della Valle d’Aosta avremmo invece raggiunto le nostre case nel torinese e cuneese, per rimanere anche solo per poche ore, con i nostri amici e familiari.Tutto era stato calcolato: l’ora e la località del ritrovo per la partenza, il  luogo appartato dove effettuare la  vestizione con abiti civili per essere meno riconoscibili alla vista di  ronde militari lungo il percorso, la messa a punto dell’auto e gli  itinerari del percorso , gli orari di ricongiungimento per il ritorno in caserma ….ma…. non avevo previsto che l’adunata per la doccia, prevista in quel sabato pomeriggio, sarebbe diventata un incubo, una amara delusione!
“Eravamo in attesa  sul piazzale lungo il muro delle docce e al suono dell’adunata , con una rapida corsetta di pochi metri raggiungemmo il luogo solito dove veniva inquadrata la Compagnia, proprio di fronte alle camerate.
Lì eseguimmo i primi ordini impartiti dal Ten. Fidanza, ufficiale di giornata, che ci era apparso  ben curato e sbarbato a dovere, fiero ed elegante  nella sua divisa diagonale di fresca stiratura di lavanderia.
Egli aveva il solito mezzo sadico sorriso e sembrava quasi volere esternare oltremodo il desiderio di comando sulla Compagnia. Mentre impartiva gli ordini At-tenti, Ri-poso, Fianco destr d’un tratto esclamò … “Ehi ! Allievo….” rivolgendosi verso la Compagnia tenendo alzato il dito indice.
Fummo atterriti dal tono di voce usato e non comprendendo chi fosse l’Allievo oggetto del richiamo  nessuno dapprima si mosse, salvo farlo al ripetere dell’invito ..”Ho detto a Lei !! “sempre con il dito rivolto verso la Compagnia schierata.
Gli  Allievi, che secondo l’indicazione presumevano essere interessati dall’ordine perentorio, cominciarono ad uno ad uno ad uscire dallo schieramento e si presentarono davanti all’’Ufficiale ma vennero tutti rimandati al proprio posto accompagnati dalla sua voce indispettita...”Non Voi…Non voi.. Lui lo sa !! ..Lui sa..? che mi rivolgo a Lui !”
A quel punto mi guardai attorno … c’era il vuoto vicino a me.. e mormorai incredulo  a bassa voce.. perbacco ma… allora !… Fidanza si sta rivolgendo a me ! Era proprio così !!
Lui  urlò tutto il suo disappunto minacciando punizioni  ma io ancora non ne avevo compreso il motivo; poi si avvicinò e allungò la mano afferrando un lembo della mia camicia che spuntava da sotto il giubbotto della divisa.
Quasi come se avesse fra le mani un trofeo da ostentare strattonando la mia camicia urlò “ Vergogna…Vergogna … divisa in disordine !” ( accovacciandomi  avevo probabilmente provocato il rigonfiamento della camicia che, a mia insaputa, spuntava dal giubbotto).
Il suo tono di voce si fece violento e alla fine sentenziò soddisfatto “Stia punito”.
Mi crollò il mondo addosso, disperazione, delusione ed amarezza mi sopraffarono!!
Dopo tanta ansia e speranza di rivedere i miei genitori, gli amici, la mia fidanzatina, tutto era improvvisamente svanito; infatti come conseguenza della punizione avrei i dovuto rimanere fra i puniti in caserma.
Così fu ! venni punito e non potei riabbracciare i miei cari.
Rimasi in caserma, triste, addolorato e solo.
Piansi, consapevole che, sfumata quella occasione, non si sarebbe più ripresentata la possibilità di un’altra “ fuga.”



9. IL MULO IMPERO (Vinicio Callegari)


Finito il corso alla SMA venni destinato al 6° Rgt. Alpini di stanza a Brunico (BZ) e al Btg, Bolzano, Compagnia Comando e Servizi a Bressanone.
Si era nel gennaio 1972 ed il giuramento da ufficiali avvenne in ritardo per causa mia...ma questa è un’altra storia che racconterò più avanti.
Saltai il campo invernale appunto perchè mia fu la causa del ritardato giuramento e mi rifilarono il comando della guardia in polveriera al forte di Fortezza (BZ).
Questa era quasi una punizione perchè non si poteva uscire per 20 giorni, si dormiva completamente vestiti (scarponi e tutto) e mi beccai gli arresti ragion per cui mi rifilarono altri 20 giorni di polveriera.
Al rientro in Caserma, più spaesato che mai, mi ritrovai col collega Pfeifer (esploratore) ad essere l’ufficiale più “anziano” della Compagnia, perchè il Comandante si era assentato per frequentare alcuni corsi. Non lo rivedemmo più. Pfeifer Alois era sempre in giro a divertirsi con gli sci....
Fu così che finii per comandare una Compagnia (ad interim), sotto gli occhi vigili e anche paterni dell’Aiutante Maggiore. Feci presto ad imparare come si fa!
E arrivò il periodo del “campo estivo” e contro la malcelata volontà del mio superiore di farmi restare in caserma, decisi di farmelo il campo.
Si deve sapere che le C.C.e S. di Battaglione avevano in dotazione i muli che servivano alla compagnia mortai da 120 e così finii per scorazzare tra Trentino, Veneto e Alto Adige nelle mie montagne portando a spasso quelle bestiacce con i tubi della 127 Compagnia mortai del Sten Viarengo.
Il 1972 fu un anno meteorologicamente particolare con alternanza di caldo afoso e di violenti temporali. Ecco che, durante il secondo giorno di marcia con arrivo all’Alpe di Pampeago, sopra Cavalese, durante la notte una forte nevicata imbianca tutto con oltre 20 cm di neve.
Tendine non preparate a dovere afflosciate fra sonore bestemmie degli alpini. Sveglia in un’alba con freddo pungente e noi con uniformi estive. Viene l’ordine di attendere a causa del pericolo di valanghe e predispongo il “campeggio” all’interno della struttura di un fabbricato in costruzione per tutti. I muli no. Ecco che la notte seguente la temperatura scende sotto zero con forti folate di vento gelido. Turni di guardia ravvicinati e fuoco sempre acceso. Il giorno seguente scopro, avvertito dal Sergente salmierista, che 4 muli si sono ammalati. E’ un problema perchè possono peggiorare in polmoniti e bisogna assolutamente sostituirli.
Il Comando, avvertito, manda il “carro attrezzi” con 3 muli ed altrettanti rientrano in caserma (guariranno). Il quarto mulo è Impero. Sempre il primo, il più forte, il leader ed il suo alpino conducente non ha voluto farlo rientrare quasi piangendo e promettendomi di farlo guarire. Con perplessità acconsento dando però un termine perentorio di due giorni, tanto era la sosta comandata.
Ebbene, per due notti e due giorni quell’Alpino, con una coperta sulle spalle è stato seduto in mezzo alla neve ed al freddo a far compagnia al suo mulo, carezzandolo sul muso e parlando a quell’animale che all’inizio respirava malissimo a causa delle froge piene di muco e con gli occhi lacrimosi. Il giorno seguente già dava segni di insofferenza per essere stato tenuto a lungo legato al filare tanto che, verso sera, permisi al conducente di liberarlo: egli partì con due sgroppate liberatorie per una corsa in discesa nel prato innevato.
Partimmo all’una di notte per la tappa successiva, io in testa al plotone e Impero a darmi colpetti col muso sulla schiena, ogni tanto come per dire: “Vai troppo piano … allunga il passo!”
Finì anche quell’avventura senza ulteriori danni, passando attraverso sentieri che l’alluvione del 66 aveva cancellato, fra pietraie e boschi senza fine e fortunatamente dove passava lui tranquillamente passava anche il resto dei muli.
Proposi quell’Alpino veronese per la promozione a caporale.




10.
IL PICCHETTO ESTERNO
(Vinicio Callegari)

Il 64° AUC è stato il primo Corso che non è passato attraverso il “Sergentato AUC”. Dapprima alla SMA di Aosta si trascorrevano 5 mesi dopodiché si veniva trasferiti presso un reparto come Sergenti AUC per la durata di tre mesi ed anche qui si passava un esame di idoneità dato soltanto col giudizio dei superiori. Se tutto filava liscio arrivava la nomina a Sottotenente. Questa fu una discreta novità perchè l’esperienza di mio fratello prima e del mio “padre” di naia, trovato al Battaglione poi, mi hanno convinto che non fosse proprio una gran bella esperienza.
In ogni modo io ed i miei compagni di corso ci siamo trovati a seguire i programmi stabiliti ormai per i 5 mesi di corso anzichè dei 6, previsti da ora in poi, ragion per cui avanzava un mese, quasi, di vita in caserma e cosa si poteva fare di quei 180 e passa allievi, già col brevetto e la stelletta in tasca, se non far loro fare tanti servizi ?
I turni di guardia si susseguivano: Pollein, guardie, picchetti esterni ecc. ecc..
Come tutti anche io feci la mia parte....ma ricordo ancora una delle ultime notti.
Intorno alla fine di dicembre del 71, ma prima del Natale, Aosta si presentava imbiancata da una discreta nevicata. Le temperature viaggiavano sottozero tanto da far ricordare le esercitazioni alla Thuile di qualche settimana prima. Sopratutto la notte si raggiungevano picchi ben oltre i 10° sottozero, quasi -20° e mi toccava, una di quelle notti, il turno di picchetto di ronda esterno.
Ricordo il vento gelido che mi tagliava le orecchie, i baffi si erano imbiancati dal vapore del naso che colava. Gli indumenti in dorazione non erano molto protettivi, vietato rialzare il bavero del cappotto per riparare almeno le orecchie. Camminavo evitando di pensarci. Passavano lenti i minuti ma dalle 2 di notte alle 4, due ore, in quelle condizioni, erano lunghissime. Per di più pesava il fatto, pensavo, che un ufficiale in pectore non doveva fare quei turni di guardia. Intanto credevo che il freddo ed il vento fossero aumentati, non sentivo quasi più neanche le mani ed i piedi nei Vibram. Non passava nessuno neanche un’automobile lungo la strada davanti alla caserma e nella quasi totale disperazione mi vennero le lacrime agli occhi dal nervoso e dalla rabbia.
Fu così che dicendo fra me e me un sonoro “ma va....” mi chiusi dentro la guardiola della porta carraia, locale riscaldato. Credo di aver anche sonnecchiato.
Avevo un orologio con la suoneria, regalo della morosa. Quello mi avvisò che il turno era quasi terminato e ripiombai in strada, sempre freddo cane ma...
Venne il capoposto (non ricordo chi fosse), mi fissò, passai le consegne al collega montante e rientrammo. Nessuno disse niente.
Quello credo fu l’ultimo servizio che feci e che ricordo ancora.
Anche quella esperienza mi servì in seguito anche nella vita di tutti i giorni.
 Il Comandante di Battaglione, al reparto, mi chiese di raffermarmi e, al mio cortese rifiuto, mi disse “ caro tenente Callegari, lei ha forse trascorso la sua ultima vacanza senza pensieri ne affanni e si ricordi che anche per lei la”naia” comincerà dopo la naia”
Sante parole.


11.
UNA 500 ROSSA
(Paolo Moneta)


Qualche giorno più tardi, quando venne il suo turno, neppure l’apparentemente tranquillo e disciplinato Paolo Moneta si dimostrò particolarmente rigoroso nello svolgere in modo corretto il servizio di ronda.
Paolo, dopo la prima licenza verso casa, era rientrato ad Aosta con la sua affezionatissima ‘bomba’: una strepitosa 500 L, rossa fiammante, che aveva parcheggiato nel grande piazzale alberato che fronteggiava tutto il lato principale della caserma che correva lungo il viale San Martin de Corleans.
Gli serviva, la mitica utilitaria, per delle sistematiche fughe vespertine a Courmayeur, durante l’orario di libera uscita. Di quelle quattro risicate ore, poco più di una era consumata per il viaggio di andata e ritorno, ma i momenti restanti erano dedicati a spassarsela con gli amici di sempre con i quali andava da anni in villeggiatura nella verdeggiante località valdostana.
L’iter della ricorrente evasione era ormai consolidato. Appena scoccata l’ora della libera uscita, il ragazzo si precipitava, a guisa della partenza della ventiquattrore di Le Mans, all’interno dell’abitacolo della sua Formula 1.
Una volta acceso il rombante motore, ancora in perfetta divisa, percorreva a tutta la statale della valle fino ad un piccolo bivio all’altezza di Sarre. Qui scattava l’operazione di cambio dei vestiti. Così liberato dei pericolosi indumenti di riconoscimento, continuava il suo breve viaggio fino a raggiungere Courmayeur. Analogamente, procedeva con la medesima sequenza operativa nel percorso di rientro in caserma.
Per sua fortuna, non venne mai scoperto.
Orbene, dopo questa breve divagazione, si può tornare al servizio di ronda ed al secondo fondamentale ruolo ricoperto dalla gloriosa 500 rossa.
Paolo, la sua amata vetturetta, l’aveva attrezzata a dovere.
Non ci era voluto molto: due piccoli cuscini ed un pesante plaid di lana merinos, che la solita mamma premurosa gli aveva messo in mano prima che partisse da casa, erano più che sufficienti alla bisogna.
Fatto sta che il ragazzo, quando montava di servizio esterno nelle ore notturne, dopo i primi dieci minuti in cui percorreva come da disposizione il marciapiedi perimetrale della caserma in senso antiorario, subito dopo si rifugiava nel suo piccolo ma accogliente ricovero.
Si sedeva sul sedile anteriore destro (non essendoci il volante era un poco più spazioso) e posizionava il primo cuscino dietro il fondo schiena ed il secondo dietro la testa. Quindi si avvolgeva nella calda coperta.
Qui subentravano altri due importanti elementi di conforto.
Il primo era rappresentato da una mini bottiglietta di Genepy Ottoz, che Paolo gestiva con saggia oculatezza. Il secondo era un originale compagno di viaggio: la trasmissione radio ‘Notturno italiano’, cui, dopo mezzanotte, si collegavano tutti i tre canali della RAI e che allietava gli ascoltatori fino alle 5.30 del mattino.
Così adeguatamente sistemato, Paolo trascorreva la maggior parte del suo servizio di picchetto. 
Poi, poco prima che terminasse il suo turno, il ragazzo, dopo aver riordinato l’occasionale cameretta, ricominciava come se niente fosse ed in perfetta forma a marciare lungo il marciapiede, per poi procedere al rituale passaggio di consegna al collega subentrante.
Paolo Moneta e la sua 500 rossa non vennero mai smascherati.

Probabilmente il destino aveva operato una sorta di compensazione pensando ai tre giorni di cella di rigore che il ragazzo aveva dovuto ingiustamente sopportare qualche mese prima.





12.
L'ARRIVO IN CASERMA
(Stefano Benazzo)

La preparazione alla naja: andare dal barbiere per evitare di giungere in caserma con una chioma non previamente regolata; preparare un sacco ridotto; informare amici e amiche che le comunicazioni saranno ridotte, per diverso tempo (i cellulari erano inesistenti…); cercare di ignorare l’ignoto psicologico rappresentato dal periodo di naja; convincersi che la naja deve essere assolta, anche se tanti la evitano; prendere coscienza che il periodo di naja è solo una sosta, in attesa di poter affrontare o continuare la vita lavorativa.
Estate 1971: partenza da Torino in serata con l’ultimo treno della giornata per giungere in tempo in caserma; Aosta: discesa nella notte dal treno gestito dal battaglione ferroviario del genio militare; passeggiata verso la caserma, eliminando i pensieri suscettibili di complicare il momento; in sostanza: svuotamento della mente; ingresso in caserma, cogliendo sguardi di compatimento e di moderata solidarietà: siamo pur sempre ancora degli estranei; indirizzato verso gli edifici dei futuri AUC; istradato verso la fureria. Lasciate ogni speranza….
Al primo piano, un gruppo di sergenti furieri, non astemi. Mi presentano i moduli per iniziare burocraticamente la mia esistenza militare. Comincio a compilare, senza troppo pensarci su.


Cognome: Benazzo; nome: Stefano; data e luogo di nascita: ...; livello scolastico: …; stato civile: NUBILE…. Risata devastante dei sergenti furieri... Come si spiega a un gruppo di sergenti furieri che un aspirante AUC, laureato, confonde la parola celibe con la parola nubile? Per fortuna, essendo in un paese civile, non vi sono state conseguenze…. Sono persino diventato Vice Capo Corso….



13. 
DELL'UTILITA' DEGLI ADDESTRAMENTI INUTILI
(Stefano Benazzo)

Gli AUC del 64° Corso, purtroppo ancora imbevuti da una concezione civile della vita quotidiana e lavorativa, basata sulla certezza che le azioni e le iniziative di ciascuno devono avere una ragione di essere e non essere gratuite, nefaste o controproducenti, arrivano al termine di una delle tante, interminabili giornate di studio/addestramento pratico e teorico, ecc., durante i sei mesi di addestramento ad Aosta per ottenere il grado di Sotto Tenente.
Veniamo cortesemente informati, con tono caldo, confortante, collaborativo e pieno di attenzione, da un certo tenente che, per ricompensa di non so quale malefatta di uno di noi o di più di noi, avremo diritto ad una seduta supplementare serale di addestramento alla marcia, in cortile, ben oltre l’orario normale della giornata.
Ovviamente, sacco pieno in spalla, arma personale, armi di reparto, ghette, stupida in testa (chi sa perché non si può almeno indossare il cappello alpino?). A digiuno, per avere meno fastidio. Cominciamo all’imbrunire a marciare intorno al cortile. Il giranastri ripete senza soste i tipici canti alpini. (E mi chiedo come è possibile che, anni dopo, li si possa cantare con piacere e nostalgia…). Ovviamente, questa marcia inutile ed esclusivamente punitiva viene spacciata per essenziale modo di formazione del carattere, creazione dello spirito di corpo, preparazione alle future marce/sfilamenti/adunate/rompimenti di righe. Nulla di ciò. Si tratta solo di fare valere un grado, costringendo diverse decine di uomini ad ubbidire, affinché uno solo possa trarne una squallida soddisfazione…
Poiché non voglio scrivere lo scenario di un film sulla vita in un distaccamento della legione straniera nel deserto del Sahara, salto i dettagli della lunga seduta di marcia nel cortile. Ricordo solo due pensieri: marciare come un automa; lasciare crescere sentimenti poco cristiani, e sicuramente non in sintonia con la disciplina militare, nei confronti dell’ufficiale addestratore. Non so quale dei due pensieri prenda il sopravvento, ma alla fine si giunge al rompete le righe. Il Codice Penale militare sembra rendere inopportuna la messa in esecuzione di taluni commenti via via ripetuti a mezza voce dagli AUC marciatori, e delle azioni punitive descritte dai medesimi nei confronti del loro superiore. Però si comincia a capire lo stato d’animo degli schiavi rematori sulle galee romane. Ma loro almeno erano legati, e quindi era inutile illudersi di poter sopraffare il capo della ciurma…. Noi, invece, quasi a malincuore, lasciamo il cortile (mancato luogo del delitto), avviandoci verso le palazzine.
In un modo o nell’altro, affamati (la mensa era ovviamente chiusa), e delicatamente irritati, gli AUC tornano nelle loro camerate. Uno di loro si rallegra di non correre più il rischio di strozzare il superiore, e per scaricarsi – con un unico pugno – ma molto, molto ben assestato, distrugge un armadietto metallico, che si apre in sei parti: fondo, soffitto, tre pareti, sportello anteriore, oltre ai ripiani interni. Rumore infernale, quando tutta la ferraglia si spande sul pavimento…
L’indomani, visita medica in ospedale, un ossicino della mano rotto, tre settimane di gesso, e un pensiero grato all’armadietto per essersi prestato a fungere da capro espiatorio, evitando all’interessato un lungo soggiorno all’allora Carcere militare di Peschiera per aggressione ad un superiore, lesioni volontarie, tentato omicidio, eccetera……




14.
IN MEMORIA DI FRANCO FAVINI
(Stefano Benazzo)

Il S.Ten. Franco Favini, classe 1943, laureato in ingegneria edile, fidanzato, residente a Roma, partecipa al 64° corso AUC ad Aosta, camerata 3, Fuciliere. Destinato in servizio di prima nomina al Battaglione Addestramento Reclute Julia, all’Aquila, dall’inizio di gennaio 1972.
Domenica 4 giugno 1972, da solo e senza informarne chicchessia, il S.Ten. Favini si avvia per un’escursione sul Corno Grande del Gran Sasso d’Italia. Cade al Passo del Cannone. I suoi resti, dopo una caduta di circa 700 metri, vengono recuperati nella Valle dei Ginepri e deposti nella tomba di famiglia, a Modena.
Il 22 settembre 1972, Evelino Mattelig, Paolo Nicoli e Stefano Benazzo pongono una croce con una targa esplicativa nel luogo ove è caduto. Evelino ha preso nota degli eventi della giornata: “partenza dall’Aquila (quota 723), Prati di Tivo (q.1.400), La Madonnina (q. 2.028), Passo Scalette, Valle delle Cornacchie, Rifugio (q. 2.433), Sella Due Corni (q. 2.547), Passo del Cannone (q. 2.679).”
Il 10 agosto 2014, il S.Ten. Favini viene ricordato nel corso di una cerimonia Alpina a Paspardo, cui partecipano la vedova di suo fratello e sua nipote, rintracciate dopo lunghe ricerche, grazie ad Evelino ed all’Alpino Pietro Salari, responsabile dell’Ufficio di Stato Civile del Comune di Paspardo (Val Camonica, BS). Diversi componenti del 64° Corso sono presenti a Paspardo, con il Gagliardetto del Corso.
In occasione dell’Adunata ANA all’Aquila, poiché l’antica croce è scomparsa, nasce l’idea di recare un’altra croce al Passo del Cannone. Purtroppo il Soccorso Alpino ci informa che c’è ancora troppa neve sul Corno Grande. Si decide quindi di fare celebrare una S. Messa il 16 maggio 2015 al Santuario Giovanni Paolo II, a San Pietro della Jenga (vicino ad Assergi). La messa è officiata da Don Nelson Callegari. Sono presenti tutti i componenti del 64° Corso presenti all’Aquila per l’Adunata, il Reduce Alpino Ugo Balzari, ingegnere 95nne (guerra in Russia a 20 anni, ritirata del Don, portaordini; guida alpina, aiutante di Don Gnocchi; ha recentemente pubblicato un libro di memorie), e numerosi turisti giunti in gita. Giuliano Secchi ricorda uno per uno i compagni del 64° Corso andati avanti. Franco Zanin recita la Preghiera dell’Alpino. L’Alpino Balzari legge una sua poesia, la Preghiera del Reduce.
Oltre a Franco, 20 Colleghi del 64° Corso sono andati avanti. Non dimentichiamoli!




15.
L’ULTIMA DELLE VERGINI
(Franco Rizzo)

La cartolina di convocazione giunse improvvisa la mattina di sabato 3 luglio 1971: il giorno seguente dovevo presentarmi alla S.M.A.L.P. presso la Caserma Cesare Battisti di Aosta per partecipare al 64° corso A.U.C.
A quei tempi la mia capigliatura era alquanto più folta di quanto (sigh) non lo sia oggi e la lunghezza dei capelli era adeguata alla moda sessantottina corrente. Dati i tempi ristrettissimi non andai a farmi rapare come si conviene ad una recluta confortato anche dall’esperienza di mio cugino che aveva frequentato il 59° corso AUC che mi assicurò che appena arrivato il famigerato barbiere tristemente noto con l’appellativo di Sadik mi avrebbe adeguatamente “sistemato”.
Partii dunque per Aosta munito della mia abbondante chioma ed al mio arrivo in serata notai subito il piccolo drappello di militari che attendeva i coscritti eli radunava per guidarli in caserma. Ovviamente dato il mio aspetto io non venni minimamente considerato e dovetti farmi riconoscere per unirmi a loro. Arrivati in caserma a bordo di un pulmino fummo accolti dai futuri compagni già vestiti con tuta mimetica (destinata ad essere il nostro unico abbigliamento per i primi 15 giorni) e fra di loro ebbi la sorpresa di trovare il mio ex compagno di istituto tecnico Giuseppe Alineri. Espletate le formalità di rito, guidato dal primo piantone di giornata Mario Pancera fui indirizzato alla camerata già buia e popolata; entrando ricordo che inciampai in una valigia e istintivamente pronunciai la tipica interiezione genovese:” belin!” il che scatenò’ l’ilarità immediata dei presenti e di Alberto Roviaro che esclamò “ecco un altro belin!” Eh sì perchè nella camerata ce n’erano già altri due di genovesi: Ermanno Tegami e Giovanni Narratone.
Il bello venne il giorno dopo all’adunata dopo lo shock della prima sveglia alle 5.30, quando al diradarsi dell’oscurità dopo la reazione fisica il mio aspetto di capellone si appalesò allo sguardo sorpreso ma beffardo del Tenente Fidanza che non mancò di appellarmi con il consueto termine di “mambrucco” e di promettermi vita dura per la mia impudenza di presentarmi in quella guisa.
Diverso e simpatico fu invece l’atteggiamento del comandante di Compagnia Capitano Zuzzi (che sarebbe poi stato sostituito da Tex Folegnani) Il quale mi definì scherzosamente come “l’ultima delle vergini “. 
La cosa buffa fu che il mio arrivo coincise con l’inizio delle ferie estive di Sadik per cui la mia capigliatura rimase intonsa per ben due settimane prima di venire brutalmente (e sadicamente) rapata. Da quel momento Fidanza perse le mie tracce…….   




16.
REATO NON PREVISTO
(Roberto Braggion)

La partenza, con la fatidica “cartolina” in mano per Aosta, destinazione Caserma Battisti, 64^ Corso Auc fu vissuta anche da me, come per tanti altri, in un modo allo stesso tempo entusiasmante ma anche con apprensione. 
Cosa ci sarebbe successo?  
Sicuramente Avrei sentito la mancanza della mia casa, della mia piazza piena di amici, degli affetti. A quella età di più si sente la necessita di confrontarsi con I propri coetanei su tutto. Condividere tutto quello che si può condividere bevute, mangiate, letture, passioni che vanno dalla musica alle passeggiate. 
Il caso mi destinò alla terza camerata. 
Subito noi dieci Allievi Ufficiali facemmo amicizia tra di noi e legammo bene. La nostra camerata (ma sicuramente anche le altre) era sempre piena di iniziative: le barzellette del toscano Nicoli, l'ironia del genovese Poggi che su tutto e su tutti calava come una scure scatenando la nostra ilarità.  E poi il Fioroni.  Il Fioroni che, forse per il suo naso alla Giorgio Gaber, che a quei tempi ascoltavo venticinque ore al giorno e il suo andare dinoccolato, calmo e tranquillo che faceva da calmiere al mio, invece, nervoso e agitato ci portò ad affiatarci in modo più marcato. In fondo anche fra muli ci sono quelli che fin dal primo momento si scalciano oppure quelli che non solo convivono pacificamente, ma addirittura ‘si fanno compagnia’.
Noi a differenza dei muli che non possono farlo abbiamo dapprima confrontato le nostre passioni e ne abbiamo trovata una in comune. La musica. Alla prima licenza (anche l'unica) ci siamo riproposti di riportare lui la sua chitarra e io un flauto traverso. Fu così che cominciammo a demolire, in qualsiasi momento possibile, I timpani dei nostri colleghi di camerata. Santi uomini che ci hanno sopportato stoicamente e, quasi, senza fiatare.
Soprattutto però, fra me e il Fioroni Marco, era sorta un'intesa che sfociò in un continuo chiacchierare. Su tutto. Morose lasciate a casa, interpretazione dei regolamenti militari, commenti sulle lezioni, rancio, fatiche dl corso e via dicendo.
E' cosa risaputa che, al Corso, il tempo non basta mai. Troppe cose da fare in troppo poco tempo.
Fu così che nacque un'idea geniale. Avevamo trovato una soluzione per aumentare il tempo a disposizione da dedicare alla nostra intesa chiacchiereccia.
Avevamo io e il Fioroni Marco i letti contigui: fra I due letti però la sorte aveva deciso di allocare un doppio armadio metallico, accostato al muro. Si poteva si chiacchierare fra il momento in cui ci si coricava e il suono del silenzio ma male, dato che anche le testiere della branda erano accostate allo stesso muro e l'armadio ci impediva di vederci in viso costringendoci anche ad alzare il volume di voce. La ‘musica’ era tollerata ma lo strepito delle corde vocali non lo sarebbe stato.
Mettemmo così in atto l'idea geniale.  Spostammo I cuscini nel posto dove, per volere di dio, erano usualmente collocati i piedi. Quella sera chiacchierammo di più e meglio, sottovoce per non disturbare e la sveglia del mattino arrivò più velocemente.
Come al solito le sveglia consistette in un urlo bestiale del caporale di giornata, subito dopo il suono della tromba: ‘SVEGLIAAAAAAAA’.
Quel mattino l'urlo gli si smorzò in gola trasformandosi in un rantolo.
Aveva visto una cosa mai vista a memoria d'uomo ed inspiegabile: due allievi avevano dormito con la testa al posto dei piedi. Cosa ben visibile dato che questo sconvolgeva la geometria del resto della camerata. Due teste erano contrarie rispetto alle altre otto. Erano rivolte verso il centro, verso il corridoio, le altre otto verso i rispettivi muri.
Il caporale di giornata sparì con un guizzo oltre la porta suscitando un interrogativo in noi.
Dopo qualche secondo il caporale di giornata apparve accompagnato dal sergente di Giornata che, di queste cose ne sapeva di più dato il più alto grado.
La sentenza del sergente fu immediata: dormire con la testa al posto dei piedi non si può.
Io trasalii e penso anche il Fioroni.
Malauguratamente però fui io a parlare per primo e ingenuamente rimarcai che pensavo che nessun regolamento militare avesse mai preso in considerazione la geo localizzazione delle nostre due teste.
Come il sergente uscì dalla camerata seguito passo passo dal caporale, con uno sguardo di odio e disprezzo nei miei confronti da parte di entrambi, un brivido freddo corse lungo la mia schiena.
Provai a buttare l'occhio fuori dalla porta per vedere dove si erano diretti. Si erano diretti verso la bacheca dove usualmente erano iscritti gli allievi comandati ai vari servizi.
Feci tempo a vedere che il sergente scriveva qualcosa sulla bacheca: scriveva il mio nome, come comandato alla settimana al servizio mensa, dopo aver depennato l'allievo già preposto al turno, attuando così una sostituzione ‘al volo’.
A me sinceramente dispiaceva più che non potevo partecipare all'esercitazioni al poligono che quella settimana erano previste e che avrei perso che il fatto del servizio in  mensa in se stesso..
Ma le disgrazie non vengono mai da sole.
La mattina stessa mi presentai in mensa preparandomi a passare centinaia di vassoi della colazione, pranzo e cena, posate e pentole comprese nella macchina per lavare, dopo averli debitamente svuotati degli avanzi.
Il terrore mi prese quando appresi che le la macchina era guasta e non l'avrebbero riparata prima di una settimana.
Tutto doveva essere lavato a mano mattina mezzogiorno e sera per sette giorni.

Pensai che questo era sicuramente uno di quei casi previsti da una nota canzone goliardica: era meglio morire da piccoli.




17.
IL CAMPO DI FINE CORSO E L’IGLOO
(Piergiorgio Marguerettaz)

Ad inizio dicembre 1971, a completamento dei corsi per diventare sottotenente, ci hanno spedito a La Thuile per il campo di fine corso.
Siamo partiti dalla stazione ferroviaria di Aosta con il treno diretto a Pré S. Didier che, nonostante fossimo quasi nel 2000, poteva benissimo essere paragonato ad una vecchia tradotta.
Giunti a destinazione ce la siamo fatta a piedi, sotto una bella nevicata, fino a La Thuile, dove siamo stati alloggiati alla caserma Monte Bianco sede del Plotone Esploratori del Battaglione Aosta.
In Caserma ci stavamo praticamente solo per dormire e fare i servizi di guardia.
Tutte le attività ruotavano intorno alla D.E. situata in quel di Pont Serrand, una piccola frazione lungo la strada che porta al passo del Piccolo S. Bernardo, a circa 4 km da La Thuile a 1600 m. di quota.
Quindi tutti i giorni ci facevamo a piedi sia l'andata che il ritorno.
La D.E. era situata su un piccolo cocuzzolo a monte delle frazione, separato dalle pendici del monte Belleface e dal vallone di Orgère da un profondo orrido attraversato da un piccolo ponte (oggi su quel ponte, opportunamente sistemato, passa una strada poderale che porta nella conca di Chavannes).
L'attività prevedeva che i vari plotoni della prima compagnia a turno salissero verso i suddetti Belleface e Orgères: i fucilieri per sbalzare, i pionieri per posare i loro campi minati e cosi via per le altre specialità. Succedeva così che mentre alcuni di noi erano impegnati ad esercitarsi gli altri dovevano seguire il tutto dal cocuzzolo della D.E.
In quel periodo in zona vi era molta neve e le temperature era molto al di sotto dello zero quindi gli allievi A.U.C. che dovevano osservare i loro colleghi in azione per non congelare si muovevano pestando la neve …
A quel punto a qualcuno è venuta l'idea: e se ci costruissimo un ricovero? Tutti d'accordo!! E se il ricovero fosse un Igloo? 
In men che non si dica con le baionette abbiamo ricavato dalla neve, da noi pestata e quindi ben compattata, dei parallelepipedi simili come dimensioni ai blocchetti in cemento usati nell'edilizia. Con questi "mattoni" i nostri ingegneri coadiuvati dagli architetti (vero Giuliano Levrero?) hanno realizzato un bellissimo igloo capace di contenere una decina di persone e forse anche di più. 
Ricordo che durante le esercitazioni notturne, quando il freddo era molto intenso, a turno ci si imboscava all'interno dell'igloo godendo per qualche minuto di un piacevole calore.
Dopo una lunga giornata, intervallata da un bel pranzo nella frazione di Pont Serrand , in quel periodo dell'anno disabitata, la prima compagnia rientrava in caserma per un pò di meritato riposo.
Prima della cena niente di meglio che una bella doccia calda per rinfrancare il fisico, peraltro già temprato da 5 mesi di S.M.A., e lo spirito: peccato che di acqua calda, nella caserma Monte Bianco sede di plotone, ve ne fosse a sufficienza ovviamente per una cinquantina di persone per cui dopo i primi fortunati chi voleva poteva lavarsi sì ma con l'acqua fredda!!!
Nel corso delle due settimane di campo abbiamo comunque avuto qualche giorno di defaticamento consistente nel salire al Col San Carlo con gli sci bianchi dell'epoca e le relative pelli di foca. Ci siamo comunque divertiti nella discesa .... (vi ricordate che il Ten. Fox ci ha dato l'ordine di scendere prima di lui e rigorosamente di non voltarci indietro per non assistere alle sue cadute sugli sci?)
Alla fine del tutto ritorno ad Aosta passando dalle trune del San Carlo quindi esame finale e finalmente a casa per la licenza prima di raggiungere i reparti di destinazione con la nomina a Sottotenente.

Per la cronaca subito dopo Natale sono salito a Pont Serrand con la mia futura moglie per farle vedere la nostra opera trovando solo un mucchietto di neve marcia: una notte di foen in poche ore lo aveva sciolto!!! 



18.
L’IGLOO DI PONT SERRAND
(Antonio De Paoli)

Ho dei ricordi un po’ annebbiati dell’IGLOO di Pont Serrand.
La mattina dell’esercitazione noi delle Trasmissioni abbiamo fatto una marcia di alcune ore nella neve alta, seguendo la strada fino al Confine sul Passo del Piccolo S. Bernardo.
Poi per l’esercitazione che si sarebbe svolta in notturna il gruppo delle Trasmissioni venne incaricato di stendere dei cavi telefonici dalle sagome poste nella parte alta del Vallone di Orgère fino a circa la metà della posizione di partenza per gli sbalzi dei Fucilieri. Ai piedi delle sagome ponemmo delle lampade collegate ai cavi telefonici e alimentate con delle batterie. Alla sera scavammo delle buche sotto la neve e collegammo le batterie e i cavi telefonici a delle specie di interruttori che poi usammo per simulare l’intermittenza dell’illuminazione delle sagome.
Mentre stavamo accovacciati nei buchi di neve durante la notte vedemmo passare sopra le nostre teste i proiettili traccianti sparati credo con MG verso le sagome che si illuminavano per qualche secondo e poi sparivano nel buio.
La scena era di particolare effetto: notte limpida, tutto l’ambiente bianco di neve, verso la parte alta del Vallone delle luci tipo Presepio e sopra nel cielo stellato le scie colorate dei traccianti.
Credo di ricordare che il giorno dopo abbiamo recuperato il materiale usato per l’esercitazione e l’abbiamo deposto fuori dall’igloo in attesa di un mezzo per il recupero. Mentre aspettavamo siamo scesi al paesino e abbiamo prelevato delle tavole dalle legnaie per porle sul pavimento dell’igloo e ci siamo stesi per riposare accendendo qualche candela per creare un minimo di confort. Forse mi sono addormentato perché ricordo di essermi ripreso all’improvviso ed ero tutto intirizzito.
Eravamo 11 o 12 tutti sdraiati sul pavimento di tavole.
Gradirei il contributo dei colleghi per precisazioni e ulteriori particolari.




19.
CIAO, AMICI MIEI
(Mirco Bozzo)

Ho avuto, durante il nostro corso, tre amici (più vicini tra tutti noi) Alfredo Peaquin, Alberto Turrini, Franco Favini.
Uscivamo assieme tutte le sere (Alberto passava a chiamarmi, redarguito da Ermanno Tegami; "mettiti le pattine" ... ricordate il pavimento lucidato a cera?).
A fine corso, durante la licenza natalizia, per Capodanno, abbiamo cenato, ospiti dei genitori di Alfredo, a Verres. Poi, noi quattro, in Valtournenche, affacciati ad un "ORRIDO" (profonda fessura nel terreno con l'acqua di montagna che scorre rumorosa sul fondo) ... brindisi alla bottiglia al nuovo anno, con il Cervino (la piramide di granito più bella del mondo) lucente e silenzioso testimone.
Alberto, Franco e Alfredo sono (come diciamo in gergo alpino) andati avanti.
Ciao, amici miei.



20.
UN ATTIMO DI PAUSA
(Wikipedia)

A questo punto, dopo il piacevole sovrapporsi di tanti divertenti ricordi legati a quei giorni, è opportuno fare un attimo di pausa e dedicare almeno una piccola parte di questo libro a qualche breve cenno storico ed ai rigorosi criteri di selezione e di addestramento militare cui venivano sottoposti i ragazzi affinchè diventassero validi ufficiali in grado di difendere con capacità e coraggio la loro patria in caso di reale necessità.
Nel merito, un grazie particolare, nella realizzazione di questo paragrafo, va rivolto all’enciclopedico sig. Wikipedia ed al tecnologico sig. Copia Incolla.
Grazie al sig.Wikipedia è stata data una rigenerante rinfrescata alle nostre memorie ormai settantenni, mentre il sig. Copia Incolla ha reso la stesura di queste righe quanto mai rapida e funzionale.

Fondata ufficialmente nel 1934, la scuola si poneva come obiettivi la formazione di nuovi istruttori e di comandanti capaci di guidare piccole ma agguerrite formazioni negli ambienti più impervi della montagna.
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, con la dichiarazione di guerra alla Francia, venne formato sul fronte delle Alpi Occidentali il Reparto Autonomo "Monte Bianco", dalle dimensioni di una compagnia, con il compito di presidiare i valichi del Monte Bianco tra il Col Ferret e il Col della Seigne, tutti alla quota di 4000 metri.
Nel corso della campagna di Russia la scuola ebbe inoltre il compito di formare i nuovi ufficiali da impiegare su quel fronte.
Con l’armistizio dell’8 settembre le attività della scuola si fermarono.
Il 1º luglio 1948 la scuola riprese le sue funzioni, sotto la nuova denominazione di "Scuola militare alpina" (SMAlp), estese anche al personale di altre forze armate e di eserciti stranieri.
Nel 1953 fu affidata alla scuola la preparazione degli allievi sergenti di complemento e nel 1964 il ciclo addestrativo degli allievi ufficiali di complemento destinati, rispettivamente, al comando delle squadre e dei plotoni dei reparti delle truppe alpine.
Tale addestramento è stato interrotto nel 2000 a seguito della sospensione del servizio di leva obbligatorio.

Essere ammessi alla SMALP, ai tempi, era un onore che spettava a pochi eletti.
La proporzione tra i giovani che richiedevano di frequentare il corso e quelli ammessi era di circa 1 a 15.
La selezione era dura.
Oltre all'attitudine e all'idoneità fisica, requisiti essenziali, l'iscrizione al CAI e gli attestati rilasciati dalle scuole nazionali di sci costituivano titoli preferenziali per l'ammissione.
Era inoltre necessario essere in possesso di un diploma di scuola superiore.
Ultimo e non trascurabile requisito, del resto eravamo in Italia, era una buona raccomandazione.
I criteri di amissione prevedevano che i cittadini aventi obblighi di leva presentassero domanda per la selezione AUC già nel corso della prima visita di leva obbligatoria (i cosiddetti 3 giorni), senza con ciò inficiare i rinvii del servizio militare per motivi di studio, oppure potevano presentarla al termine degli studi, nell'eventualità di aver conseguito almeno il diploma di maturità.
A quel punto si veniva convocati presso uno dei distretti con competenza interregionale alla selezione, e nel corso di altri 3 giorni si affrontavano test scritti, psico-attitudinali e una nuova visita medica (più approfondita e selettiva della precedente, ma con possibilità di ricorso presso altra struttura sanitaria militare in caso di respingimento).
Nel corso delle prove veniva richiesto di indicare tre preferenze per l'Arma o specialità di destinazione.
Il corso di istruzione, o addestramento, una volta varcato l’ormai super citato cancello della caserma Charlie Bravo, prevedeva lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche in varie materie. Alcune erano comuni a tutti i corsi AUC delle varie forze armate, armi e specialità (addestramento formale, ordinamento e impiego, regolamenti, difesa N.B.C., topografia, movimento sul campo di battaglia, manutenzione e tiro con armi portatili e di reparto, impiego delle apparecchiature radio), altre specifiche per il Corpo di assegnazione e ancor più per la specialità.
Attorno al terzo mese di corso un'aliquota di allievi distintisi per rendimento e attitudine militare poteva fregiarsi del distintivo di Allievo scelto, il cosiddetto ‘baffo’, una V dorata (sorta di ibrido tra il grado di soldato scelto e sergente).
Gli AUC come status e diaria erano peraltro tutti equiparati a Caporal Maggiori, tanto da poter rivestire sin dai primi giorni, a turno, i ruoli specifici di Sergente di Giornata.
Ciò non li esimeva peraltro dall'obbedienza a quei graduati di truppa a cui fossero stati affiancati nel corso di servizi di guardia o altri eventi addestrativi.
Tra li allievi giudicati idonei al grado di Sottotenente, i primi in graduatoria potevano aspirare, o venivano invitati, a prestare servizio quali istruttori presso la Scuola, gli altri erano assegnati a un reparto per lo più operativo. Dopo una cerimonia collettiva in uniforme da ufficiale si veniva inviati in licenza straordinaria di fine corso, alla fine della quale, divenuta effettiva la nomina a sottotenenti, si raggiungeva il reparto.
Con un nuovo giuramento dinnanzi al Comandante iniziava ufficialmente il servizio di prima nomina.



21.
LA VENDETTA DEL COLLE SAN CARLO
(Luciano Ivaldi)


Premessa
Leggendo il bel racconto “Una notte sotto la neve”, ho pensato ad un episodio che mi accadde quando ero Sten.
Paolo Moneta, a cui ho proposto di allargare il cerchio del nostro blog al dopo SMA, mi ha sollecitato: “Scrivi, scrivi, che qualcun altro si sta allargando prima di te”.
Sono certo che l'album dei nostri ricordi si arricchirà di nuovi capitoli.

Se siete curiosi di sapere quale fu la vendetta del Colle San Carlo, proseguite nella lettura.

Il 64° Corso AUC era finito. Prima di lasciare Aosta, venni chiamato in fureria da un graduato che mi disse di scegliere la destinazione da Sten. Pensai a quale ministro o cardinale mi stesse raccomandando. Un dattilografo mi tolse d'impiccio rivelandomi che il diritto di scelta spettava agli AUC classificati nel primo decimo del Corso. Quale performance? Mai saputo! Forse ero tra i più veloci al percorso di guerra.
Tra le varie destinazioni scelsi il secondo Reggimento Alpini, la Taurinense, non per perpetuarne la gloria e i fasti ma, semplicemente, per non allontanarmi troppo da casa (e adesso biasimatemi!).
Augurai buona fortuna al mio compaesano Angelo Soave, che andava a difendere i  confini del Nord-Est, e mi ritrovai al CAR di Bra, una cittadina nota per i suoi vini e i suoi formaggi.      
In quei luoghi, precisamente a  Pollenzo, Carlin Petrini ha fondato “Slow Food” ed oggi vi si trova l'Università del Gusto, da dove escono i giovani chef che portano la cucina italiana nel mondo.
La caserma di Bra era un CAR (Centro Addestramento Reclute). Con me, Sandro Cerrato, Adriano Peracchia ed Enrico Casalegno, purtroppo già andato avanti. Capitan Burdese era il Comandante della Compagnia e ognuno di noi Sten comandava un Plotone. Erano i ragazzi di leva che arrivavano ogni due mesi e, dopo quaranta giorni di addestramento, raggiungevano i Reggimenti operativi.
Il mio primo compito consisteva nel selezionare i futuri alpini. In pochi minuti dovevo individuarne le attitudini psico-fisiche. Il campionario che mi sfilava davanti era variegato. Testimoni di Geova che rifiutavano la naia, contestatori del 68' che avevano in odio il sistema, ladri e spacciatori con la fedina sporca... e per fortuna molti ragazzi giudiziosi.
Fatta la selezione, i giovani affrontavano la triplice alleanza: doccia, parrucchiere, vestizione. Il parrucchiere era un boia senza pietà...... finiti i tempi dei Beatles e Rolling Stones!
Il giorno seguente iniziavano le lezioni. Orari delle attività, regolamento, gradi, saluto, presidio, punizioni..... Avete presente il nostro Corso alla SMA? Fatene due volte la radice quadrata, aggiungete una massa di allievi svogliati, pagateli 500 lire al giorno. Il risultato sarà sempre troppo.
Meglio l'addestramento, sul grande piazzale della caserma. Avanti-march! Dietro-front! Segnare-il-passo...  “Fa meno baccano un esercito che cammina di un esercito che segna il passo” disse un generale infastidito. Sottufficiali tronfi impartivano ordini urlando. Il loro obiettivo recondito era di trasformare giovani imbranati in arditi guerrieri. Di fatto, alla fine del CAR, bastava che i nostri eroi sapessero imbracciare il fucile e lanciare la bomba a mano un poco distante dai piedi.
Prima che partissero, con malcelato sorriso dicevo loro: “la pacchia è finita. Sulle montagne troverete i miei compagni di Corso. Sono molto cattivi (incattiviti?), vi faranno trovare lungo!”.  Ero certo che non sarebbe andata così.
Nei venti giorni successivi, in attesa che arrivasse la nuova leva, le porte della caserma restavano chiuse. Faceva un certo effetto affacciarsi alle finestre e guardare il grande piazzale vuoto. Un silenzio di tomba regnava sovrano, dappertutto.
Durante uno di questi periodi, eravamo a fine agosto, proposi a Mariuccia, che due anni più tardi sarebbe diventata mia moglie, di venire con me, in tenda, sul Colle San Carlo. Volevo rivedere, in estate, i luoghi dove ci eravamo accampati, in inverno. Accettò senza troppo entusiasmo, da sempre preferisce i resort ai campeggi.
Partimmo da Bruno in auto, non troppo presto. Ci lasciammo alle spalle prima Torino e poi Aosta. Era una splendida giornata, il sole riscaldava la terra e i cuori. Un tornante dopo l'altro arrivammo al Colle. Lasciai l'auto in un piccolo slargo della strada e dispiegai una cartina militare per trovare il luogo che avevo in mente. Proseguimmo a piedi sotto i pini. Io con lo zaino in spalla, lei portava il cibo: yogurt, sottilette e pan carré (sic!).
Una breve salita ci condusse alla meta. Il sole era allo Zenit.
Quell'inverno, quando il 64° si accampò sul Colle, la neve ricopriva ogni cosa. Alberi curvi sotto mantelli immacolati, animali in letargo nelle tane, uccelli al riparo nel bosco.
A pochi mesi di distanza la natura era in trionfo. Germogli vigorosi, profumi di muschio, uccelli in volo.
Provai un'emozione immensa quando vidi sul terreno i rami secchi che, verdi, avevamo posto nelle trune. Ripensai alle nostre casette bianche, una vicina all'altra. Un fortino fragile, che per una notte aveva resistito al gelo. La truna di Capitan Folegnani era un poco appartata. Grande Tex! Mantenevi le distanze, sarebbe bastato un tuo piccolo cedimento e ti avremmo sopraffatto.
Sopita l'emozione, iniziai a tirar su la tenda. Era una bellissima giornata, cielo azzurro, sole caldo, tutto lasciava presagire una vacanza stupenda. All'improvviso, non era passata un'ora, nuvoloni scuri si addensarono all'orizzonte. In pochi istanti furono sopra di noi. Il giorno divenne notte. Lampi di fuoco fendevano il buio, tuoni rintronanti scuotevano la terra. Un vortice sollevò un lembo della tenda e una cascata d'acqua ci piovve addosso. Finirà quest'inferno, pensai. Bisogna fare come la  betulla, chinare il capo e girare le spalle al vento.
La bufera non si quietava. Un fulmine colpì un pino sul crinale di fronte a noi. Un troncone si spezzò dall'albero e rotolò giù dalla china.
Mariuccia, pallida in viso, con un filo di voce disse: “andiamo in auto, saremo più al sicuro!”.
Di corsa guadagnammo il riparo. La pioggia mutò in tempesta. Biglie di ghiaccio percuotevano la carrozzeria con un fracasso metallico. Pareva di essere sotto il tiro di mitraglie.
E' in quel frangente che pensai alla vendetta del Colle San Carlo.
Noi del 64° lo sfidammo, lo destammo dal suo sonno invernale, calpestammo le sue nevi, ci accampammo sul suo ventre, bivaccammo nelle trune. Eravamo un esercito armato, non poté reagire.
Ma il gigante non dimenticò. Restò in agguato per vendicare l'onta subita. E mi trovò disarmato, con il cuore tenero, lo sguardo dolce. Toccò a me pagare per tutti.
Quando quell'inferno finì, risalimmo la china fangosa per vedere cos'era rimasto delle nostre cose. Faceva freddo, gli abiti inzuppati: “Torniamo a casa”, disse Mariuccia.
Recuperai gli stracci e guardai per l'ultima volta il Colle. Il vento aveva spazzato via i rami secchi delle trune.

P.S. In autostrada, lasciata la Valle d'Aosta, ritrovammo l'estate. Ci fermammo all'Autogrill. Gente allegra, turisti in bermuda e infradito. Dissi a Mariuccia. “Sei sicura di voler tornare a casa “. “Hai delle alternative? rispose. “Ti porto al mare!”.
Quella notte dormimmo in un hotel a Santa Margherita Ligure (e adesso radiatemi dal 64°!).




22.
ODORE DI AUC
(Piergiorgio Marguerettaz)

Vi ricordate di ‘Congedo’, il cane che viveva nei giardini di fronte alla caserma Cesare Battisti sede della scuola militare alpina?
Lui aveva adottato gli AUC e in particolare quelli della compagnia ‘anziana’ della Smalp.
Infatti accompagnava nelle varie attività fuori caserma esclusivamente gli allievi che avevano già trascorso la metà dei mesi di corso previsti.
Solo alla partenza dalla scuola degli allievi anziani diventati Sten. si aggregava al corso successivo.
Penso di aver trovato una spiegazione di come facesse questo mitico bastardino a riconoscere i ‘padri’ anziani dai ‘figli’.
Dopo il congedo del settembre 1972 ho vissuto ad Aosta fino a metà del 1974 e mi è capitato di transitare a piedi davanti alla caserma sul marciapiedi adiacente al giardino-casa di congedo.
Orbene, quando mi vedeva mi gratificava della sua amicizia con tanto di strusciate, scodinzolamenti e richieste esplicite di carezze: ma solo a me e non a miei eventuali accompagnatori (chiaramente non AUC).
Credo che alla Smalp aleggiasse un particolare ‘odore alpino’ che una volta che ti si appiccica addosso non te lo levi più: e Lui era in grado di riconoscerlo !!!
Sono tornato tante volte a salutarlo e sempre la stessa storia.
Sembra che congedo abbia vissuto con gli AUC dal 47^ ad almeno tutto il 70^ guadagnando così anche lui la sua ‘stelletta’ da sottotenente.

Penso che siate d’accordo nel dire che si merita un piccolo ricordo nel nostro libro per l’amicizia che ci dimostrava dividendo con noi marce fatiche rancio e anche un goccetto di vino, il che non guastava mai …



23.
COSA SIGNIFICA AUC?
(Franco Ferrario)
“Signora Ferrario, c’è suo figlio?” la signora Dirce, portiera dello stabile di viale Coni Zugna a Milano, al citofono stava comunicando l’arrivo di una cartolina.
“No è in vacanza a sciare; la facoltà di Fisica è ancora chiusa per le festività”.
Solo che la cartolina non era della morosa.
Quella sera al telefono, e con un po’ di imbarazzo: “Franco, scusami, ma devo essermi dimenticata la scadenza della richiesta di rinvio per motivi di studio”.
Era il gennaio del 1971.
Al distretto di via Mascheroni, un solerte e comprensivo furiere: “Perché non fai domanda per il corso AUC? Ne hai i requisiti e poi il prossimo, il 64°, parte a luglio, così puoi completare l’anno accademico e non devi partire subito.”
“Ottimo! Ma… che cosa significa AUC?” fu la domanda-risposta di Franco che aveva già da tempo passata la visita di leva e giudicato molto (= senza via di scampo) idoneo, ma che nulla sapeva di questioni militari.
Seppe poi che il 64° corso era il primo che dopo 6 mesi di scuola militare conferiva direttamente il grado di Sottotenente, senza più il passaggio intermedio a Sergente; successivamente si veniva inviati per altri 9 mesi ai reparti operativi.
Occorreva però passare una prova attitudinale in febbraio, superata la quale si dovevano fare ulteriori tre giorni a Torino al Gruppo Speciale Selettori nel mese di marzo. 
Nell’aula del Distretto di Milano arrivò con un po’ di ritardo; gli altri avevano già cominciato. Fu fatto accomodare in un banco libero nell’ultima fila, quasi contro la parete di fondo, ed invitato a rispondere al questionario di cultura generale e scientifica, oltre a domande personali. Il questionario gli sembrò facile e si sbrigò in breve.
Gli altri erano ancora alle prese con il test quando il Capitano esaminatore che, mani dietro la schiena e fare corrucciato e pensoso, girava continuamente tra i banchi, sbirciando, gli disse: 
“Perché lei non scrive?”
“Perché ho finito”.  
Altro giro e altra domanda: “Ha già finito? Ma è sicuro di avere risposto bene?” 
“Mi sembra di sì”.
(Si vociferava a quel tempo di una balzana strategia per essere riformato: fingere di essere deficiente rispondendo a capocchia; a qualcuno che lo aveva sostenuto Franco aveva ribattuto: “Bravo pirla, così sarai bollato per tutta la vita”).
Altro giro, il Capitano non era convinto (evidentemente in tanti applicavano la tattica suicida) e insistendo:
“E’ proprio sicuro? E poi leggo qui che alla richiesta del corpo di destinazione desiderato lei ha indicato: ALPINI SCIATORI, ma lei è forse maestro di sci? No? Ha un diploma di rocciatore? No? Allora è impossibile: non verrà mai accettato!” e aggiunse: “Le conviene modificare la richiesta”.
“Mi spiace, ma essere ufficiale alpino è il mio desiderio! Se poi non ne ho i requisiti spetterà a voi deciderlo”.
Altro giro:
“Ma lei è forse almeno iscritto al CAI, almeno da due anni?” – gli almeno furono proprio pronunciati in corsivo e scanditi con voce più bassa.
“Certo! E ho vinto anche diverse gare di sci” fu la pronta risposta di Franco che mai era stato iscritto al CAI (solo al TCI – ma non serviva), ma che aveva afferratoal volo il velato suggerimento del Capitano.
“Allora mi porti oggi pomeriggio tesserino e documentazione”.
           
Di corsa nell’intervallo (le prove venivano sospese per due ore) alla sezione CAI di Milano che però era chiusa per la pausa del mezzogiorno. All’usciere spiegò la cosa, e questi lo indirizzò ad un bar vicino dove una segretaria stava pranzando. Dopo poco, battuto ogni record di velocità ed aver strappato la segretaria al suo pranzo, aveva tra le mani la tessera – non datata – del prestigioso Club Alpino!
Poi ancora di corsa all’ITIS Feltrinelli con il quale gruppo sportivo aveva gareggiato per cinque anni nelle competizioni provinciali di sci con sempre ottimi piazzamenti nelle gare di fondo coronate al quinto anno dalla vittoria nella gara di staffetta e della coppa dei campionati studenteschi.       
In segreteria: “Bene, la certificazione dei tuoi risultati sportivi sarà pronta domani o tra due giorni, dopo la firma del Preside” annunciò candidamente l’addetta alla documentazione.
 “Mi scusi, ma non avete capito, a me serve non subito, ma adesso!!!”

Più tardi al distretto il Capitano ricevette le documentazioni richieste, e sembrò soddisfatto; poi soppesando la luccicante tessera blu, fece solo un’ultima – retorica – domanda:
“È da tanto che Ella è iscritta al Club Alpino Italiano?”

Nel pomeriggio del 3 di luglio 1971 il futuro Sottotenente Ferrario, a bordo della sua fedele R4 e con l’inseparabile chitarra Eco 12 corde percorrendo l’autostrada Milano Aosta alla volta della SMALP pensava: “15 mesi! ma quando mai passeranno?!?”

Sono passati. 



24.
E L’ACQUA FU TRASFORMATA IN VINO
(Franco Ferrario) 

Fine agosto, primi di settembre. Anno 1971.
Caldo soffocante!
La prima compagnia alpina del 64° corso AUC era impegnata in una esercitazione congiunta con l’aviazione sul colle Torrette non lontano da Aosta.
Il tenente Folegnani, comandante di compagnia, con tortuosa e sadica perversione aveva condotto la marcia di trasferimento ed avvicinamento all’obiettivo assegnato a tappe forzate e ritmo vertiginoso toccando, e più volte, tutti i punti cardinali possibili e immaginabili, moltiplicando artatamente a dismisura il dislivello da coprire, senza badare a perdite di insignificanti vite umane.
Qualcuno avanzò l’ipotesi che Folegnani, da poco trasferito alla SMALP da Paluzza (Udine) conoscesse poco la zona e procedesse in realtà galileianamente per ‘tentativi ed errori’.
Gli allievi ufficiali, terminate le scorte d’acqua, e ormai completamente disidratati dopo aver percorso in lungo e in largo praticamente tutta la Val d’Aosta, raggiunsero la postazione e si attestarono per l’esercitazione sopra una altura desertica ed assolata. L’Aeronautica partecipò all’addestramento inviando alcuni caccia che sorvolarono l’area a volo radente e velocità supersonica.
All’ora del rancio dalla caserma puntuali arrivarono i rifornimenti consistenti in vitto abbondante e alcune taniche di tiepido (!) vino, rosso e bianco.
Per l’acqua ognuno avrebbe infatti dovuto provvedere da sé.
Ma esistono anche gli alpini astemi e per combinazione nella prima compagnia AUC ce ne erano diversi.
“L’allievo ufficiale Franco Ferrario insieme ad altri due intrepidi commilitoni anch’essi disperati per la sete, approfittando della pausa pranzo, con fulminea iniziativa, partì arditamente per non autorizzata perigliosa missione idrica” (questo si sarebbe poi letto nella motivazione della medaglia al valore).
Portarono cinque borracce a testa, per rifornire gli altri astemi rimasti a coprire la loro assenza.
C’era, prima del sottostante abitato, una isolata casetta adiacente ad una fontana-abbeveratoio addossata alla roccia; dal doccione di freddo metallo sgorgava dell’acqua cristallina.
Sembrava perfino di colore blu.
Forse proveniva direttamente dai ghiacci del Gran San Bernardo!
O era un miraggio?
I tre, dopo essersi dissetati momentaneamente, riempirono con diligenza le altrui borracce, allungando l’acqua con della Coca Cola, posseduta da uno di loro, troppo calda per essere bevuta direttamente.
Missione quasi compiuta: chi, arso e riarso, li stava attendendo sull’ermo colle rovente era ormai in salvo!
A questo punto un componente della estemporanea pattuglia, avvistato in lontananza in fondo al minuscolo paese uno pseudo-bar, convinse gli altri a strafare e scendere lì a prendere un caffè.
Per non portarsi appresso il carico ingombrante, chiesero ad un uomo, che fumava seduto davanti alla casetta, se nel frattempo poteva custodire le borracce.
Felici e fieri del pieno successo dell’impresa, dopo il caffè, ormai scaduto il tempo rubato allo ‘alt-orario’ per la pausa pranzo, riaffrontarono rapidamente la salita per recuperare il prezioso, e soprattutto analcolico, liquido e rientrare alla base (in questo caso all’altezza) prima di essere scoperti.
            L’uomo, che dal suo presidio poteva coprire con un solo sguardo l’intero ‘fronte’ e oltre, li aspettava a piè fermo impaziente, e quindi con aria pienamente soddisfatta e voce vibrante di orgoglio disse loro:
“Ragazzi, ci ho pensato io! Ho buttato via quella schifezza che avevate dentro le borracce e le ho riempite con il vino fatto da me…”
“!!!” fecero le nostre facce.
“Andate in pace e non ringraziatemi: è un dovere di vecchio alpino”.

N.B.: Si deve sapere che il vino ‘fatto in casa’ è, per i delicati palati astemi, quanto di più schifoso esista nell’universo; i nostri, tuttavia, come avrebbero potuto frustrare il vigile e fiero vinificatore, operando, sotto i suoi attenti occhi brillanti di compiacimento, la ri-conversione del liquido in santa sorella H2O?


…risalirono allora in disordine e senza speranze l’erta che avevano pocanzi disceso con orgogliosa sicurezza. (A. Diaz.)





25.
LA PROCESSIONE
(Giuliano Levriero, Piergiorgio Marguerettaz) 

Aosta.
Domenica, 21 novembre 1971.
Di lì a una settimana ci sarebbe stato il Giuramento dei figli del 65^ corso.
Il ‘glorioso’ 64^ era ormai giunto alla vigilia del campo invernale in quel di La Thuile e poi, dopo gli esami di fine corso, la sospirata stelletta da Sottotenente sarebbe diventata realtà.
La settimana appena trascorsa aveva impegnato gli allievi, oltre che nel consueto programma standard, anche in una intensa attività di addestramento formale in vista della partecipazione di una loro rappresentanza nello schieramento, in occasione del suddetto Giuramento.
C’era anche un po’ di fermento per la consueta rivalità con la seconda compagnia, questa volta alimentata dal fatto che il comandante tenente Folegnani aveva informato i suoi allievi di aver scommesso con il capitano Petrocco una damigiana di vino a beneficio della compagnia che si sarebbe meglio comportata durante la cerimonia. E siccome lui non era disposto a perdere, la conclusione per i suoi ragazzi era ovvia: dovevano essere i migliori! Giudice arbitro della singolare tenzone era stato nominato il comandante del battaglione, colonnello Verunelli.
Domenica, 21 novembre 1971, primo pomeriggio.
Come accadeva ogni domenica, giorno di libertà, i ragazzi passavano il loro tempo chi in biblioteca (in realtà molto pochi), chi allo spaccio (una buona parte) e chi in camerata (la maggior parte). In gergo un po’ triviale, si potrebbe dire che il cazzeggiamento era l’attività più gettonata nei giorni di festa trascorsi in caserma.
Poi, improvvisamente, si sentì echeggiare: “Nevica! Nevica!”.
La compagnia immediatamente cominciò ad animarsi.
Si sentirono dei vocii in corridoio, c’era un certo fermento e si sentiva ridere.
Quasi tutti gli allievi si affacciarono alle finestre delle loro camerate o corsero fuori per verificare l’evento.
E con grande sorpresa, si accorsero che la copiosa nevicata che stava imbiancando l’ampio cortile non era la sola novità.
In men che non si dica era stata organizzata una originalissima processione.
Un cospicuo gruppo di allievi, una ventina, procedeva con passo lento e cadenzato nel grande piazzale.
In testa al corteo c’era un suonatore di flauto che intonava ‘Tu scendi dalle stelle’. Due ragazzi si erano coperti con un grande mantello bianco, ovviamente un lenzuolo, ed uno di loro era stato issato sulle spalle dei colleghi a guisa di santo protettore.
La singolare sfilata, dopo aver gironzolato un po’ per la caserma, alla fine si diresse verso la palazzina dove ‘abitavano’ gli ufficiali.
Lì si fermò.
Anche il flauto smise di suonare.
In un attimo, il religioso corteo, quasi si fosse nella curva sud dello stadio di San Siro, cominciò ad invocare, ripetutamente ed a gran voce: “Lambri, Lambri, Lambri !!!”.
Bastò poco, poi si videro aprirsi le finestre ed affacciarsi la sagoma dell’ufficiale.
Un applauso scrosciante e ripetute invocazioni ne accompagnarono l’apparizione.
Dall’alto del suo seggio l’aitante graduato osservò compiaciuto e con fare amichevole la ciurma dei suoi allievi.
Stando al gioco, da buon compagnone e dopo un attimo di pausa, con fare ecumenico quasi fosse un santone, benedì quella folla festante e la salutò con un discorso allegro, bene augurante, simpatico.
Dopodiché il gruppo natalizio si sciolse e ritornò verso le camerate per ricevere gli abbracci ed il compiacimento dei compagni che avevano assistito divertiti alla spassosa rappresentazione.
Almeno per quella sera, nei cortili della Cesare Battisti non riecheggiò l’immancabile voce del terribile tenente marchigiano: “Sdade bunidi, mambrugghi”.
Intanto la nevicata continuava sempre più copiosa.
Fece pure crollare il baldacchino del palco delle autorità che era già stato allestito per la cerimonia del Giuramento.
Il mattino del lunedì i ragazzi del 64^ vennero informati che avrebbero dovuto provvedere allo sgombero della neve di tutta la caserma.
Coordinò le operazioni il colonnello Napolitano. Disse ai ragazzi che, usando il badile leggero in dotazione ad ognuno di loro, avrebbero dovuto ammucchiare tutta la neve in modo da essere poi caricata, con l’intervento della compagnia comando e dei suoi mezzi, sui camion C.L. e C.P. per la sua evacuazione.
Il 28 novembre 1971, giorno del Giuramento dei figli del 65^, nella Battisti non era rimasto neppure un piccolo fiocco di neve.
Il colonnello Napolitano fu insignito dagli spalatori del titolo di colonnello Neve.

Mentre il colonnello Verunelli, a fine cerimonia e senza alcuna incertezza, dichiarò il tenente Giovanni Folegnani unico ed insindacabile vincitore di una damigiana di vino. 



26.
LIBERA PROFESSIONE
(Giuliano Levrero)

Premessa:
questamemoria ha poco a che fare con la vita, le incombenze e le attività di caserma, ma è un ricordo personale che mi fece ritornare, anche se per poco, alla vita 'borghese'.

Il nostro Cappellano (di cui ho dimenticato il nome) era venuto a conoscenza che nella nostra Compagnia vi erano due architetti: Buffa ed il sottoscritto (Luigi Bugatti non era ancora laureato).
A fine corso, terminati gli esami, ci contattò per chiederci se eravamo disponibili all'esecuzione di lavori di progettazione richiesti dal Comando del Castello; i lavori avrebbero dovuto iniziare ed essere terminati con urgenza (come al solito succede sempre): se ricordo bene al massimo in due settimane.
Ovviamente accettammo con effimero motivo di 'grande prestigio': in quel momento ci sentimmo crescere 'la coda da pavone' e facemmo 'la ruota', cosa che molti colleghi con un po di invidia videro brillare splendente!
Fummo ricevuti dal Gen. Gallarotti che ci diede l'incarico verbale per eseguire due progetti: l'uno consisteva nella risistemazione di un piccolo poligono di tiro a Pollein, mentre l'altro consisteva nella progettazione del Sacrario per i Caduti della Valle. Quest'opera era stata concordata, se ben ricordo, con la Regione e doveva essere eseguita in un campo dedicato appositamente del Cimitero di Aosta.
Ci assegnarono le nostre postazioni di lavoro in una camera già destinata ad ufficio tecnico.
Ci furono dati alcuni vecchi disegni ed alcune specifiche riguardanti il poligono, mentre dovemmo visitare il Cimitero per eseguire rilevazioni anche fotografiche dell'ampio campo assegnato; quest'ultimo era a contatto con il retro di una costruzione di loculi civili che subito trovammo come ottimo sfondo per il progetto.
Ogni mattina eravamo prelevati e la sera riconsegnati in caserma da una campagnola a nostra disposizione: facevamo orario d'ufficio .... che bello!!!
Iniziammo di buona lena ed in perfetto accordo dedicandoci in primo luogo al progetto più semplice: le modifiche al poligono che ci occuparono pochi giorni e che presentammo dopo pochi giorni.
Il secondo progetto, molto impegnativo per la specificità e peculiarità del soggetto, ci entusiasmò molto. Approfondimmo le problematiche e scegliemmo di dare all'opera un carattere di drammaticità tale da far soffermare e far riflettere il visitatore, escludendo a priori i classici orpelli simbolici e 'classici' che si vedono dappertutto (tipo l'aquila, la bomba, il cannone, ecc.).
Il progetto prevedeva due parti distinte: la parte 'ad ipogeo', che avrebbe ospitato i loculi per i Caduti cui si accedeva tramite due rampe di scale contrapposte poste a ridosso della parete dei loculi, mentre la parte esterna alla vista diretta era formata da spessa piastra in cemento armato sollevata dal terreno in modo da dare luce su tre lati alla porzione sotterranea.
Questa piastra, di dimensioni uguali a tutto il campo, ospitava la parte simbolica che era prevista in putrelle di varie misure, saldate ed incrociate a formare diverse croci; alcune erano contorte ed inserite oculatamente nel contesto secondo proporzioni precise. L'unico simbolo 'classico' era il filo spinato posto oculatamente in alcune zone. La parete di fondo era prevista ricoperta da edera e vite canadese.
Il progetto, che ci soddisfaceva molto e di cui eravamo fieri, fu terminato in tempo prestabilito e dato al buon Cappellano perché lo consegnasse al Comando, come da accordi.
Dopo pochi giorni terminammo il corso ed ognuno fu assegnato ai reparti: non se ne sapeva ancora nulla circa l'andamento e l'esito del nostro progetto.
Gianni Buffa fu destinato a Cuneo mentre io tornai ad Aosta assegnato alla 42^ Compagnia del Battaglione Aosta (Caserma Testafuochi).
Ero curioso di sapere cosa ne fosse del progetto in mano al Generale Gallarotti.
Giunto in caserma fui convocato con gli altri cinque colleghi di corso(*) dal Comandante, il benvoluto ed apprezzato Colonnello Cesare Di Dato, per le presentazioni e le disposizioni di rito. Appena terminato il suo discorso e date ad ognuno le consegne, ingenuamente e fuori luogo gli dissi: “Signor Colonnello io devo andare dal Generale Gallarotti che mi aspetta per un progetto ….”. Al che Di Dato mi fece un benevolo e bel 'cazziatone' dicendomi che prima dovevo rispettare le sue consegne e le disposizioni di Compagnia, poi avrei potuto fare ciò che volevo … aveva perfettamente ragione.
Appena potei contattai il Cappellano: mi disse che avrebbe preso contatti con il Comando al Castello.
Non potevo avvisare Buffa perché non sapevo dove fosse 'andato a finire' benché di stanza a Cuneo (il cellulare non si sapeva ancora cosa fosse, se non quello della Polizia).
Poi fui avvisato di presentarmi il tale giorno alla tale ora dal Generale, cosa che feci con curiosità ed una certa apprensione.
Giunto al Castello Cantore, dopo formale presentazione sull'attenti, mi fece accedere alla sua scrivania: aveva già il progetto sul tavolo. Mi chiese spiegazioni e chiarimenti sulle motivazioni progettuali; cosa che feci con fervore e decisione chiarendo e difendendo i principi da cui eravamo partiti e la scelta circa le soluzioni concordate e definite tra me e Buffa.
Il Superiore rimase molto dubbioso e meravigliato circa la necessità di usare materiali quali putrelle non trattate, quindi lasciate arrugginire, e l'assenza di simboli classici (già elencati in precedenza). Mi disse quindi di rimettere mano al progetto secondo le sue disposizioni.
Da allora non se ne fece più nulla e svolsi il mio servizio in Compagnia senza più pensarci.
Non ricordo se in seguito riuscii a mettere al corrente Buffa.
Conservo ancora la copia del progetto che, rivisto dopo tanto tempo, mi pare sempre molto valido.
Non sono mai più andato al Cimitero e non ho mai chiesto notizie a Giorgio Marguerettaz. 

(*) Mario Lorenzi, Roberto Salati, Michele Casini, Giuseppe Tropenscovino, Alfredo Marchelli 



27.
PULIZIE
(Giuliano Levrero)

I servizi di caserma erano sempre odiati per il pericolo latente di punizioni, anche non meritate.
Alcune volte mi trovai di servizio alle pulizie della nostra palazzina Charlie con Mario Lorenzi, mio collega di camera, la numero 5. Da Sten condivisi con lui anche la camera e le incombenze nella 42^ Compagnia del Battaglione Aosta alla Testafuochi.
Quel compito per noi due era molto 'gravoso ed impegnativo' per il terrore di essere puniti: cosa che era successa sovente ai colleghi che avevano operato in precedenza.
Eravamo ossessionati dalla pulizia del pavimento dei corridoi, per cui appena avevamo il sentore di un movimento ci allarmavamo: ci armavamo di secchiello, spazzola e straccio ed accorrevamo a controllare chi fosse entrato in corridoio a “zampettare” sul lavoro appena eseguito ... con ansia!
Quando potevamo, cioè quando ci 'rovinavano' il lavoro i nostri colleghi Allievi o i nostri “figli”, ci incazzavamo con loro come iene.
Il contrario, ma molto apparente e quasi alla Fantozzi, succedeva se passava qualche Superiore cui ovviamente dovevamo porgere il saluto sull'attenti, fermi e rigidi come … scope: li seguivamo quasi come cagnolini per togliere qualsiasi traccia dei loro scarponi.
Ci veniva quasi la paranoia; specialmente a Lorenzi perché una punizione avrebbe comportato la 'non fuga' ad Ivrea ove abitava ed abita ed in cui aveva la morosa.

Finito il turno di servizio eravamo in condizione peggiore degli stracci che usavamo.





28.
AL POLIGONO DEL BUTHIER
(Paolo Moneta)
  
Il poligono Buthier, così chiamato per l’omonimo fiume che scorreva lungo la Valpelline, era la zona designata per le esercitazioni di sparo e di lancio.
Ai ragazzi recarsi al poligono, nel complesso, piaceva molto.
Del resto era più che comprensibile.
Non era infatti cosa da poco potersi esercitare a scaricare colpi a raffica con la mitragliatrice, lanciare bombe a mano e sparare cannonate dai mortai, per di più gratuitamente.
Non appena arrivarono al poligono del Buthier, si provvide in primo luogo a scegliere gli allievi che avrebbero dovuto raggiungere le tre postazioni di vedetta, per evitare che escursionisti occasionali entrassero a loro insaputa nella zona interessata dalle esercitazioni.
Paolo Moneta si offrì volontario e raggiunse la prima collocazione, qualche centinaio di metri alla sinistra delle piazzole di sparo, in alto a mezza costa sotto un gruppo di case.  Aveva in testa un obiettivo ben preciso: approfittare della tranquillità della missione, che consisteva praticamente nel restare per diverse ore seduto ai lati di un sentiero dove non sarebbe passato nessuno, per ripassare le ultime pagine del libro di Storia Contemporanea. Aveva infatti già chiesto ed ottenuto una licenza di 36 ore per recarsi, il martedì successivo, all’università di Pavia per sostenere il relativo esame.
Un compagno andò ad occupare la seconda postazione: una zona defilata e protetta da una rupe dietro il terrapieno degli zappatori.
Buon ultimo, l’allievo XY si posizionò poco prima dell’ingresso del Poligono, sulla destra ed in posizione elevata, poco distante da una costruzione adibita a luogo di ristoro per i militari.
Ogni osservatore ricevette in dotazione una radio ricetrasmittente CPRC26 e, con grande fantasia, alla radio capo-famiglia venne assegnato il nome di Falco, mentre quelle consegnate alle vedette divennero all’istante Falco 1, Falco 2 e Falco 3.
Ad intervalli precisi, i Falchi figli avrebbero dovuto chiamare il Falco mamma per confermare che nelle singole postazioni tutto procedeva per il meglio.
Finalmente cominciò l’addestramento.
Tema del giorno: descrizione della bomba a mano e prova pratica di lancio.
Prese la parola il sottotenente di complemento incaricato.
Cominciò ad illustrare le peculiarità della bomba a mano difensiva S.R.C.M., descrivendone le parti fondamentali e facendo sfoggio di una lunga serie di terminologie quasi totalmente sconosciute ai novelli AUC e che probabilmente qualche mese prima anche per lui erano del tutte ignote.
Sbirciando sulla apposita ‘Sinossi’ al fine di evitare imprecisioni o dimenticanze, parlò di innesco, di percussore, di perno di sicurezza, di leva di sicurezza, di carica di innesco, di detonatore, di carica di scoppio, di corpo.
I ragazzi ascoltavano impazienti. Pur riconoscendo l’importanza delle nozioni che venivano loro impartite, altro non aspettavano che potersi cimentare, quali novelli Rambo, in millimetrici lanci del piccolo ordigno bellico verso immaginari obiettivi nemici.
Terminata l’illustrazione dei componenti della granata, il sottotenente passò alla spiegazione della tecnica del lancio.
“Le dita devono avvolgere la bomba completamente, con il palmo della mano che deve stare sopra la leva di sicurezza”. “Per un lancio efficace è necessario compiere una serie di operazioni preliminari, quali: togliere il perno di sicurezza, premere la leva di sicurezza con il palmo della mano fino al momento del lancio”.
Gli allievi, ora sempre più coinvolti, mimavano a gesti i movimenti che di lì a poco avrebbero dovuto compiere nella realtà.  
“Quando la bomba sarà effettivamente lanciata – continuò l’ufficiale – essa deve rotolare gentilmente sulle dita, in maniera tale da acquisire un movimento rotatorio che ne aumenterà precisione e distanza”. “E una volta lanciata – chiosò il sottotenente – la bomba perderà la leva di sicurezza ed in questo modo il percussore potrà colpire liberamente l’innesco, attivando così la spoletta, e … boom … la bomba esploderà”.

Dopo tanto tempo, è ovvio che sarebbe impossibile ricordare le esatte parole usate dal graduato addetto alla spiegazione. Ma poiché il virgolettato di cui sopra è stato testualmente ricopiato dalle specifiche rilasciate in merito dall’esercito italiano, e poiché il suddetto graduato faceva attento uso della relativa sinossi, è più che presumibile che le due versioni coincidessero perfettamente!

Arrivò finalmente il tanto atteso momento della prova pratica.
Forse per non sottoporsi al rischio di un getto mal riuscito, il graduato chiamò al primo cimento l’allievo scelto bibaffo Adriano Del Giorgio.
Il chiavennasco Adriano, agli occhi dei compagni e probabilmente anche a quelli dei superiori, incarnava a tutti gli effetti l’essenza del vero uomo di montagna. Riservato, duro, concreto, instancabile. Molti l’avevano pronosticato come capo-corso, anche se poi, sul filo di lana, gli venne preferito Bartolomeo Bertarione.
In assoluta tranquillità, Adriano, ricevuto l’ordigno tra le mani, lo soppesò come un caro vecchio compagno di giochi. Fissò per un momento l’obiettivo stabilito, eseguì in perfetta successione le indicazioni appena ricevute e lanciò il suo missile. 
Con una parabola perfetta, come telecomandata, la piccola bomba esplose esattamente dove avrebbe dovuto.
Un ‘Oh’ di ammirazione accompagnò la spettacolare esibizione di Del Giorgio.
Subito dopo però, tra gli allievi, si sollevarono perplessi brusii: “Era stato davvero bravo Adriano oppure lanciare quel piccolo ananas non era poi una impresa così ardua?”.
Sarebbe stato sufficiente aspettare qualche attimo per averne l’immediata risposta.
In effetti i tiri successivi, anche se con esiti altalenanti e mai toccando la quasi perfezione raggiunta dal magico colpo del campione valtellinese, furono nel complesso più che decenti.
O almeno, lo furono fino a quando non venne il turno del piemontese XW.
XW era un ragazzo pacato, educato, mite, tranquillo. Se gli avessero chiesto cosa avrebbe voluto fare da grande, quasi certamente avrebbe risposto: “Il pacifista!”. Nessuno sapeva quale infido destino l’avesse condotto alla SMALP, ma tutti avevano perfettamente capito che il docile XW, con mitragliatrici, fucili, bombe a mano e quant’altro di violento si potesse elencare, c’entrava come il cavolo a merenda.
Il ‘brav bocia’ si incamminò verso la piazzuola di lancio con lo stesso spirito con il quale un condannato a morte si avvicina alla sedia elettrica.
Prese tra le mani quello strano congegno, lo rimirò con malcelato disgusto, quindi si preparò a compiere, seppure controvoglia, il proprio dovere di soldato.

Nel frattempo, nelle loro postazioni di vedetta, Falco 1 e Falco 3, al secolo Moneta e XY, adempivano con approssimativa diligenza al loro ruolo di vigilanza.
Moneta era totalmente assorbito dalla lettura del suo bigino Bignami, nel titanico tentativo di ripassare, in poche ore, più o meno cento anni di italica storia, dal congresso di Vienna fino alla prima guerra mondiale.
XY invece aveva deciso di prendersela più comoda e, individuato un invitante angolino ben ombreggiato tra due massi, vi si era supinamente disteso per abbandonarsi ad una rilassante pennichella.

Il lancio dell’allievo piemontese non risultò particolarmente efficace.
Difficile valutare se fu colpa dell’incontrollata tensione oppure se fu una precisa volontà del ragazzo: fatto sta che l’ordigno, con il perno di sicurezza già sganciato, rotolò delicatamente solo per qualche metro oltre i piedi del suo lanciatore.
Per sua buona fortuna, il raggio di azione delle bombe a mano difensive era alquanto limitato ed il rapidissimo e violentissimo “A terraaa!” che urlò a piena gola l’ufficiale di controllo evitarono che il lancio malriuscito del ragazzo potesse causare gravi conseguenze.
Dopo questa malaugurata dimostrazione, squadra dopo squadra, tutti i ragazzi sfilarono a loro volta sulla piazzuola di lancio per sostenere il loro eccitante esame.
Da qui alla fine dell’esibizione, non accaddero più episodi degni di menzione particolare.
Quello di Del Giorgio rimase il lancio del record e nessuno riuscì a far peggio dell’emozionatissimo XW.

Problemi più seri si verificarono invece alla postazione di vedetta di Falco 3.
La sua iniziale pennichella si era pian piano trasformata prima in riposino prolungato e quindi in solenne dormita. E il suo giaciglio naturale, originariamente all’ombra e ben riparato, si era trovato esposto a metà mattinata ad un gradevole tepore e poi, verso mezzogiorno, orientato praticamente a picco del sole. 
E chi, meglio di una viperella locale, poteva meglio apprezzare quei due massi ben esposti, il sole pieno dell’estate e … un inerme corpo umano cui dare un cortese segnale della sua presenza?
Poco dopo il mezzodì, Falco 3, soddisfatto del suo lungo riposo ed in attesa di consumare il pranzo, cominciava a riprendere conoscenza.
Mentre si stiracchiava, percepì qualcosa che si muoveva sulla sua tuta mimetica all’altezza della pancia.
Si sollevò sulle braccia e vide, ohimè, quel piccolo serpentello che riposava tranquillamente sdraiato sopra di lui.
Difficile valutare chi dei due si spaventò di più.
XY emise un urlo che nulla aveva da invidiare con il precedente ‘A terraaaa’ abbaiato qualche tempo prima al poligono dal sottotenente, mentre lo spaurito ofide, preso a sua volta in contropiede dal movimento inatteso del giovane milite, ne approfittò per scivolare rapidamente verso lidi più sicuri.
Falco 3, ancora sotto choc, per un attimo pensò di accendere la radio ricetrasmittente CPRC26 e di collegarsi con mamma Falco. Poi, saggiamente, si rese conto che se avesse descritto per filo e per segno l’accaduto, avrebbe dovuto inserire nel racconto anche quel suo breve pisolino e questo fatto non avrebbe potuto salvarlo da una punizione esemplare.
Decise che avrebbe spento la radio prima ancora di accenderla.

Si era ormai arrivati a pomeriggio inoltrato.
Tutti i ragazzi avevano portato a termine la loro esercitazione ed anche le tre vedette si erano ricongiunte con il resto della truppa per incamminarsi verso casa.

Nell’oretta di viaggio che li separava dalla caserma, camminando in silenzio, tre giovani alpini rimuginavano tra sé e sé su quanto loro accaduto in quella calda giornata al poligono del Buthier.
Adriano Del Giorgio, fiero in prima fila davanti alla sua squadra, pensava semplicemente di non aver fatto altro che il proprio dovere e quasi non si capacitava dell’entusiasmo suscitato dal semplice lancio di una banale bomba a mano.
Paolo Moneta si scervellava intorno alle gesta di tal Ciceruacchio, semi sconosciuto patriota italiano che combatté per la seconda repubblica romana nel 1949: era visibilmente preoccupato perché gli mancavano ancora una settantina di anni per arrivare fino al 1918 e completare il ripasso dell’intero bigino.

Da ultimo Falco 3, ancora pallido in volto per lo scampato pericolo di un morso letale, pregava ardentemente affinché la sorte, in un prossimo futuro, non gli riservasse nuovamente l’improbo ruolo di vedetta. Si era comunque ripromesso, nel caso ciò fosse avvenuto, che avrebbe mandato al diavolo il solo pensiero di fare una benché minima pennichella e che sarebbe rimasto invece in piedi, a scanso di equivoci, per tutto l’intero periodo di guardia.



29.
LIQUAMI
(Giuliano Levrero)

Se ben ricordo era una sera all'inizio dell'autunno.
Eravamo di servizio in mensa per le normali operazioni di pulizia: lavaggio vassoi da inserire nella macchina lavastoviglie (ricordandola mi sento ancora oggi nel naso quell'odore nauseabondo misto al detersivo che vagava in quel luogo), scopare e lavare i pavimenti, raccogliere e inserire in appositi bidoni la risultanza degli avanzi di cena.
Si faceva già allora la scelta differenziata!! in quanto gli avanzi, e solo quelli, erano versati in appositi bidoni che la mattina seguente sarebbero stati riversati in contenitori di un privato che li ritirava per i suoi maiali. Altre incombenze non ricordo, tranne che si faceva anche servizio di guardia alla mensa la notte.
Detti bidoni, pieni a volte di liquame gelatinoso che dal colore poteva ricordare anche la conseguenza di una bella sbronza, a lavoro terminato dovevano essere trasportati ben pieni in un apposito locale non molto distante dalle cucine e sempre aperto forse per tenere 'arieggiato'.
Fortunatamente detti bidoni odorosi possedevano due maniglie ai lati per cui in tre di noi riuscivano a trasferirne due anche se con una certa fatica; in questo modo comunque si riusciva a terminare l'ingrato compito più in fretta.
Quella sera Aldo Gianoli faceva parte del mio gruppo di 'aiuto cucinieri'.
Andò tutto liscio sino al riempimento dei bidoni; andò meno bene quando si trattò di trasportarli nel locale … ma finché erano pieni di roba solida....! … comunque Aldo si sforzò di 'eseguire le consegne'. Mi ero accorto che aveva già qualche avvisaglia di nausea che preludeva ad altro. 
Poi venne il momento dei liquami.....  A quel punto la nausea si tramutò in conati.
Mi offrii di sostituirlo, ma lui subito assolutamente non voleva; alla mia insistenza dopo un pò acconsentì e si terminò l'opera con grande fatica sia fisica che digestiva.
Ogni volta che ci vediamo (purtroppo molto di rado), Aldo mi ricorda quel momento … poco simpatico e ci facciamo una risata.
Per i lavori in mensa si usava la tuta mimetica; il giorno successivo chiunque fosse nei nostri paraggi, anche non sapendo dove avessimo prestato servizio il giorno prima, immediatamente capiva: la 'fragranza' perdurava per giorni... specialmente nel nostro armadietto a fianco del letto.     



30.
RICORDI DI REGGIMENTO
(Sandro Bazurro)

Al termine del Corso alla scuola Militare Alpina fummo inviati in “ordinaria” per le feste di Natale, una lunga ordinaria, che avrebbe permesso ai nostri “vecchi” del 63° corso, in quel momento ai reparti con il grado di sergente AUC, di acquisire l'agognata stelletta e l'incarico da Ufficiale prima di noi.
Ricordo che vissi con ansia il momento che da semplice allievo mi avrebbe introdotto nella realtà di comandante di plotone fucilieri, incarico per il quale ero stato preparato nei lunghi mesi trascorsi alla Scuola. 
Ricordo che ripassai più volte la “libretta” del perfetto ufficiale, circa il comportamento che dovevano tenere i giovani subalterni all'ingresso dei nuovi reparti.
Inviai quindi un telegramma di saluto alla bandiera di guerra del Reggimento ed al suo Comandante, Reggimento che portava il numero due, il mitico “dùi “, unico reparto ancora esistente della gloriosa Divisione Cuneense, Divisione martire in terra di Russia che con il suo eroico sacrificio meritò la medaglia d'oro al valore militare.
Inviai inoltre un deferente telegramma alla Calotta degli ufficiali subalterni, al Circolo della sede del Reggimento, anche nella speranza di rabbonirne le immancabili manifestazioni goliardiche.
Mi allenai ripetutamente al rito di battuta dei tacchi da effettuarsi oltre che alla presenza di un superiore anche all'ingresso della sala convegno del Circolo ufficiali ed anzi all'uopo acquistai un paio di scarpe munite di tacco leggermente fuori misura, in altezza, che avevano un “toc!”forte e secco: favoloso.
Tutte queste precauzioni ovviamente poco valsero, se non a limitare gli scherzi ed il pagamento di laute libagioni agli anziani della Calotta.
Dimenticavo di dire che il 2° RGT alpini era a quel tempo C.A.R. e formava reclute per le brigate Cadore, Orobica, Taurinense e Tridentina .
All'arrivo, alla caserma Cesare Battisti di Cuneo, sede del Comando del “Dui” ed espletate le formalità di rito, compreso il giuramento da ufficiale al cospetto della bandiera di Guerra e del Colonnello Comandante, venni assegnato alla CAM Tridentina, di stanza nella caserma medesima.
Ma la cosa singolare che più mi colpì fu il successivo colloquio con il Comandante di Battaglione: sinceramente non saprei giudicarlo come figura di comandante di reparto, indubbiamente grande organizzatore di eventi.
Orbene, dopo il discorso di benvenuto a tutti gli ufficiali del Battaglione,  congedati gli altri colleghi, mi trattenne al suo cospetto e subito mi raggelò con la seguente frase: “ sono venuto a conoscenza che Lei è genovese, brutta gente i genovesi, avari, gretti, contrabbandieri...., ma fidàti … per questo motivo, Lei avrà dei permessi saltuari , ...lunga pausa...., permessi nei quali Lei si recherà nella sua città, potrà incontrare i suoi o la morosa a suo piacimento, ma...viaggerà  accompagnato da quella valigia,” .. ed indicò un valigione di cartone che stava in un angolo dell'ufficio. “Bene, all'andata sarà un semplice contenitore vuoto, ma al ritorno sarà ricolmo di ogni ben di Dio, tutte cose che serviranno a rallegrare le nostre festicciole di battaglione. Lei si incontrerà con una persona che provvederà a rifornirla dell'occorrente, nulla di strano badi bene, sigarette, radioline, gadget e ninnoli vari che renderanno più piacevoli i giochi di società nelle nostre feste. Ovviamente, questo è un incarico di estrema fiducia, che esula dalle sue specifiche competenze, che non Le porterà nessuna agevolazione, o premio, e che pertanto Lei può anche rifiutare …... se lo ritiene lesivo della sua dignità di ufficiale.”
Non nascondo che avrei volentieri risposto picche, ma considerata rapidamente la possibilità di rivedere saltuariamente la mia famiglia, la fidanzata, staccare qualche giorno, il tutto assolutamente giustificato, anzi con la benedizione del superiore, mi spinse ad accettare.
Fu così che nei periodi di “intercar” ovvero quando ultimato il ciclo di addestramento, accompagnate le reclute al reggimento, eravamo in attesa dei nuovi arrivi, io partivo per Genova con un bel permesso e la mia valigia vuota, mi recavo in Darsena, in porto franco, ed alcuni giorni dopo ritornavo in caserma con il prezioso carico.
Devo dire che col tempo acquisii molta esperienza, tanto che   a seconda del gradimento degli ospiti delle nostre feste, soprattutto delle signore, ovviamente della “Cuneo bene”, mi venne demandata persino la scelta dell'oggettistica da produrre e da consegnare al mio valente superiore.
Ricordo che una sera dovetti partire da Genova senza auto, in quanto la mia fida “seicento” aveva avuto improvviso bisogno di manutenzione e non ne volle sapere di partire con me; pazienza, il treno avrebbe sopperito, l'ultimo treno della giornata per Cuneo ovviamente, che mi consentiva di rientrare in caserma per un'ora … comunque indecente.
Arrivai alla stazione di Cuneo che nevicava abbondantemente e faceva un freddo cane. Uscito, mi guardai attorno, non c'era anima viva, né un taxi, nulla, … solo un'auto rossa stazionava lì davanti.
Pazienza, alzai il bavero del cappotto, calcai bene il cappello in capo, sollevai la mia valigiona di cartone ed il suo prezioso carico, e mi avviai verso la caserma.
Passando vicino all'auto rossa sentii chiamare: “ hei! Tenente!”..una voce di donna.. ma come avrà fatto a distinguere i gradi con quel tempo ... mah! sarà l'esperienza, pensai maliziosamente. “Buonasera!” risposi alla gentile signora bionda che si allungava verso il finestrino, ed aveva aperto la portiera. “Ti posso dare un passaggio se vuoi, vado verso la caserma, ormai con questa serata...stai tranquillo, non voglio nulla”.
Rimasi perplesso un attimo, guardai meglio, era una gentile signora già di una certa età, indubbiamente non più giovane, che gentilmente mi invitava nell'alcova, o piuttosto che impietosita si offriva di accompagnare a casa un soldatino infreddolito?
Accettai di buon grado, ero comunque addestrato ad affrontare qualsiasi situazione.
Fu gentilissima, molto cara, direi quasi materna, mi portò davanti al portone della caserma, mi salutò ed improvvisamente mi sfiorò la guancia con un leggero bacio e mentre una lacrima furtiva le rigava il volto, mi confessò, quasi per giustificarsi, che le ricordavo suo figlio, morto da piccolo di un male incurabile: avrebbe avuto la mia stessa età.
Sceso dall'auto, una “giulietta sprint” rossa fiammante, guardai all'intorno, scrutando tra i fiocchi di neve per accertarmi se qualcuno mi avesse visto ... nessuno ... e veramente un po' mi dispiacque.
Mi avviai poi verso il portone, senza voltarmi, mentre il vento gelido mi sferzava il viso e gli occhi si riempivano di lacrime.
Ma al di là di questi fatti dal sapore più goliardico che militare, la mia permanenza al Corpo Addestramento Reclute del secondo Reggimento Alpini di Cuneo fu l'esperienza unica di un periodo della vita pervaso da avvenimenti irripetibili, di crescita morale e spirituale, che ne segneranno profondamente il futuro.
Noi istruttori di reclute avevamo il compito di formare uomini prima ancora che soldati, una pluralità di soggetti che per gran parte tolleravano soltanto, l'imposizione della divisa , dell'ordine , della disciplina, del fatto che la libertà del singolo finiva dove cominciava quella del vicino di branda, del rispetto di orari e di una vita scandita da ritmi preordinati, una vita insomma che cozzava con gli ideali che il sessantotto e quindi l'aria che si respirava fuori le mura della caserma contestavano con grande forza.
Arrivavano persone in gran parte diverse per estrazione sociale, cultura, tradizioni e dovevano vivere fianco a fianco, integrarsi l'un l'altro fino a creare un tutt'uno, quel tutt'uno   che da sempre ha visto il corpo degli alpini in prima linea, lo Spirito di Corpo.
Ognuno si portava dietro i suoi problemi, avevamo avuto il caso di uno che si era portato dietro persino la famiglia, moglie e bimbo piccolo, in quanto non sapeva cos'altro fare per mantenerli, arrivavano ragazzi che non capivano o meglio fingevano di non capire la nostra lingua, per lo più contadini altoatesini,  persone che giungevano accompagnati dai carabinieri, condannati per reati minori, che  venivano affidati temporaneamente all'esercito per ottemperare al loro dovere di cittadini e così via; spesso si ci doveva improvvisare psicologi ed il grado ci dava quella autorità paterna, non paternalistica, di riferimento, che il più delle volte era riconosciuta dai soggetti stessi, che vedevano in noi chi poteva risolvere i loro problemi, aiutarli a vincere le loro paure ; a volte purtroppo tutti gli sforzi si rivelavano vani , qualche giovane non reggeva a questo modo di vita ed i pregressi problemi si acuivano fino a portarlo in qualche caso , per fortuna raro, al suicidio, come avvenne per un caro amico che pur  assegnato a compiti di fureria ed esentato dagli addestramenti, nonostante gli sforzi congiunti con la famiglia, giunse alla decisione estrema di mettere fine alla sua esistenza terrena.
Un caso in particolare tra i tanti, mi colpì profondamente, e tutt'ora lo ricordo con commozione; si tratta del caso di un ragazzo che giunse, come poc'anzi dicevo, accompagnato dai carabinieri per assolvere il dovere militare. Taciturno, schivo, senza amici, sembrava proprio non volersi integrare con gli altri, eseguiva però gli ordini ed i compiti assegnati sì in modo autonomo, ma stranamente con impegno, a voler forse dimostrare che non era inferiore a nessuno. Il suo atteggiamento di iniziale diffidenza si trasformò a poco a poco in una particolare dedizione nei miei confronti e di ciò che ivi rappresentavo. Il cambiamento divenne presto evidente, l'attaccamento alla divisa ed al Corpo furono segnati da un susseguirsi di eventi, ricordo gli addestramenti, le marce, condotti con entusiasmo e disciplina, il voler partecipare alla Cerimonia del  Giuramento nonostante la febbre altissima, più tardi avrà diagnosticata una bella broncopolmonite; guarito, mi prodigai per fargli avere  una licenza premio e ricordo il suo tentennamento alla notizia, stupito gli chiesi i motivi di tale atteggiamento e la risposta fu che non aveva i soldi per portare un regalino alla mamma per il suo compleanno. Gli offrii ventimila lire in prestito, quasi certo che non le avrei più riviste, considerata la sua condizione economica non certo florida.
Ancora una volta avevo avuto torto; al termine della licenza si presentò a rapporto, ancora prima di recarsi in camerata e mi restituì i soldi con un bel sorriso ed una calorosa stretta di mano accompagnata da un “grazie” appena sussurrato.
Non so cosa avrà combinato ultimato il servizio militare, non ne ho mai più avuto notizie, ma credo fermamente che sarà diventato e tutt'ora sia un cittadino onesto e da portare ad esempio.





31.
ALPINI DI SERIE A
(Luciano Ivaldi)

Nell'estate del 1972, con nostra grande sorpresa, arrivarono al CAR alcuni giocatori di calcio. A quel tempo non era ancora attivo il Centro Sportivo di Formia.
Alberto Orecchia, nostro compagno di Corso e super-tifoso del Genoa, sa che tra quelle reclute c'era Claudio Onofri, allora brillante giocatore e oggi esperto commentatore TV.
Erano gli anni in cui andavano al massimo i tornei di calcetto, a cinque o a sette giocatori, in notturna. Non mi lasciai sfuggire l'occasione di diventare presidente di una squadra di calcio senza tirar fuori un quattrino.
Onofri fu nominato capitano e subito ne approfittò. Chiese che i militari-calciatori, il giorno in cui avrebbero giocato di sera, fossero esentati da marce e servizi. Transammo: d'accordo per le marce ma non per i servizi. Dopotutto si trattava di usare le mani, non i piedi!
Chiesi a Capitan Burdese il permesso d'iscrivere la squadra ai tornei, fuori presidio. Acconsentì a condizione che io fossi sempre presente e che in caso di rissa, in campo o fuori campo, i rei fossero puniti con tre giorni di CPR.
Iniziarono i tornei. I giocatori erano così bravi che, sin dalla prima partita, si intesero a meraviglia. Avevano un controllo di palla, una facilità di gioco, di lancio, di finte e contro-finte, di tiro ... da stordire gli avversari.
Gli spettatori aumentavano di partita in partita. I giornali locali scrivevano dei nostri successi. Tutte le Pro Loco del circondario chiedevano di iscrivere la squadra degli alpini ai loro tornei. Fummo selettivi, solo tornei importanti: Alba, Nizza Monferrato, Acqui Terme. I nostri tifosi erano gli alpini di leva e dell'ANA, gli amanti del bel calcio, tutti quelli che i giocatori li avevano visti solo in TV, le ragazzine che leggevano Grand Hotel ...
Vincemmo il torneo di Alba. Il primo premio era una FIAT 500. Andai a ritirare il premio e dissi agli organizzatori: “Che faccio adesso, taglio a fette la 500 e la distribuisco ai giocatori?”
Il concessionario FIAT mi tolse d'impiccio: “La 500 costa 500 mila lire. La tengo io e vi do i soldi.” Affare fatto! L'indomani andai ad incassare. Mi contò i soldi sull'unghia, in quegli anni non si parlava di tracciabilità del contante!
Per festeggiare la vittoria prenotai un pranzo in uno dei ristoranti più in voga della Langhe, a Santa Vittoria d'Alba. Eravamo più di cento, tutti alpini.
Ci riservarono il salone dei matrimoni. Le portate erano quelle classiche della cucina regionale. Affrontammo gli antipasti con un Gavi d'annata, poi attaccammo i primi con un generoso Barbera e finimmo i secondi con un corposo Barbaresco. Il Barolo no, è un vino per ricchi, non per gente di montagna.
Il dolce (allora non si chiamava dessert) era una torta su quattro piani, con sopra un pallone di crema e cioccolato. Fantasia del cuoco, stufo di infilare sposini di plastica sulle torte di nozze. Brindammo con un Moscato d'Asti e finimmo di stordirci a grappini e caffè. Il pranzo, iniziato alle 13, finì alle 18.
Andai a pagare il conto: 650 mila lire. La FIAT 500 non bastò. Staccai un assegno a saldo, un mese di stipendio!

URGENTE RETTIFICA sul contributo di Ivaldi: IO SONO SAMPDORIANO!!!
Caro Paolo, stamattina sono balzato sulla sedia quando aprendo il nostro blog e scorrendo il contributo di Luciano Ivaldi mi sono scoperto inaspettatamente  tifoso a mia insaputa dei "Bibini" o "Gallinnacci" che dir si voglia, gli odiati - calcisticamente - tifosi dell'altra sponda calcistica di Genova. Ti prego di rettificare URGENTEMENTE quella indicazione malamente stravolta della mia amata fede calcistica. Io sono e sarò sempre fieramente BLUCERCHIATO, cioè Sampdoriano! Sono quelli i soli colori che amo e difendo sportivamente! Luciano ha frainteso il fatto che io conosca televisivamente un ex capitano di quell'altra squadra cittadina, Onofri; ma mai mi sono dichiarato suo tifoso. Elimina dunque quell'eresia! Grazie. Ti abbraccio. Alberto Orecchia


32.
IL GIURAMENTO
(Sandro Bazurro)

Finalmente giunse il 29 luglio dell'a.d. 1971 , mancavano 116 giorni al termine del 64° Corso AUC e ne erano passati ben 55 dall'arrivo alla caserma Cesare Battisti di Aosta.
La prima compagnia AUC prestava il suo Giuramento di Fedeltà alla Patria.
Il Giuramento: così come la Cresima trasforma il credente in soldato di Cristo, così con il Giuramento il cittadino diventa soldato della Patria.
Un grande giorno quindi, per il quale ci eravamo a lungo preparati, nei minimi dettagli, almeno 50 giorni di addestramento formale, sotto il cocente sole di luglio ed agosto, con la camicia di flanella addosso, perché bisognava soffrire, bisognava “trovare lungo”, chissà poi perché; la cosa andò avanti un bel po' di tempo finché un giorno particolarmente afoso, un ufficiale, si “accorse” di ciò e disse al caporal maggiore A.C.S. che conduceva l'addestramento: “ma facciamo indossare una camicia di tela  a questi ragazzi o mi si sciolgono!” Fu così che con un minimo di sale in zucca, tutto filò meglio e la cosa divenne oltre che sopportabile persino divertente, se non fosse stato per quei benedetti scarponi, ormai perfettamente anneriti dalle numerose passate di lucido nero, da marroni che erano alla consegna, ma ancora maledettamente coriacei, nonostante ogni sforzo per ammorbidirli ed adattarli al piede che li calzava.
Sarà stata l'età ma si riusciva a sorridere di tutto, anche nei momenti più bui e tristi, aiutandosi a volte con il lancio di “moccoli” nei confronti dei superiori e verso l'incolpevole Creatore: in quest'ultimo caso la Santa Messa della domenica e la bontà del Divin Padre avrebbero sanato tutto.
Provammo infinite volte anche l'ammassamento, in previsione che qualche alto superiore prediligesse l'effetto di tale forma di schieramento. Indubbiamente tutti noi ricordiamo che l'ammassamento consisteva in questo: i soldati, in questo caso  gli allievi, venivano raggruppati in prossimità della piazza d'armi, ove si svolgeva la cerimonia , poi ad uno  squillo di  tromba, via di corsa, come tori impazziti alla festa di san Firmino a Pamplona, per trovarsi in un batter d'occhio perfettamente allineati e coperti in blocchi compatti, squadrati, piallati.
Ovviamente in questa carica da “mucchio selvaggio” di un mezzo migliaio di scarponi, ne succedevano di tutti i colori: presi dalla foga i più alti che stavano dietro sopravanzavano i più piccoli che li precedevano nello schieramento, i quali erano costretti ad accelerare la corsa anche per evitare di essere travolti.
Forse per questo motivi venne preferito l'arrivo degli allievi sul luogo della cerimonia, già inquadrati in perfetto “ordine chiuso”.
Il giuramento segnava la fine della prima parte del corso e l'inizio delle varie specializzazioni; finalmente le escursioni fuori caserma e le sane sudate in montagna, compresi i giochi di guerra, quell'addestramento insomma che ci avrebbe insegnato le cose che eravamo proprio lì per imparare.
Dicevamo, il fatidico giorno era giunto, tutto pulito ed in ordine perfetto, gli ottoni lucidati, la caserma imbandierata, le divise impeccabili, le armi in dotazione brillanti al sole di agosto, le bandiere non garrivano come sarebbe stato d'uopo, per mancanza di vento, ma non si poteva avere tutto.
Il giuramento davanti ad una folla di parenti, amici, fidanzate, momento di incontro dove tutti erano orgogliosi di qualche cosa: le mamme con le lacrime agli occhi ammiravano il loro bambino fattosi uomo, i papà ed i nonni, molti dei quali ostentavano con onore il vecchio cappello alpino carico di medaglie, che per l'occasione era stato tolto dalla naftalina, impegnato nell'ultima strenua battaglia con le tarme, i fratelli maggiori con i loro cappelli “tirati” ed adorni di nastrini e ricordi di adunate, con penne “stanche” enormi e lunghissime, (chissà quale ignaro volatile le avrà fornite) che costituivano un vero pericolo per l'integrità della vista di chi stava alle loro spalle ogni volta che si voltavano, e poi  le sorelle ancora da sposare, che speravano che qualche bell'allievo posasse gli occhi su di loro ed infine le morose, tutte bellissime, fiere del loro futuro ufficiale, cercavano ansiose con lo sguardo tra la moltitudine che si stava schierando per il solenne momento.
 Gli ufficiali, superiori e subalterni, gli istruttori tutti, ammiravano con apprensione le loro creature, sperando che non commettessero errori e facessero ben figurare la Scuola, la loro compagnia, il loro plotone, facessero meglio anche dei “vecchi “delle altre compagnie: addirittura c'era una sorta di scommesse clandestine tra i comandanti dei vari Reparti, non a soldi ovviamente ma a damigiane di vino.
Noi poi eravamo letteralmente con il cuore in gola, si controllava la divisa, le ghette, gli scarponi, i cinturoni, i cappelli, tutto perfettamente in ordine, si sperava di non svenire, come a volte succedeva, creando un effetto domino tra le fila del blocco compatto, creando vuoti paurosi che avrebbero coperto di ridicolo la cerimonia.
Ordini secchi risuonavano nella piazza d'armi, tutte le compagnie, i plotoni, perfettamente allineati con la formazione denominata in “linea di colonne” e finalmente l'ordine di presentare le armi, quindi la lettura della formula: “Giuro di essere fedele alla Repubblica Italiana ... ed il comandante della Scuola, con la bandiera di guerra alla destra, con voce vibrata domandò “lo giurate voi?”
Se chiudo gli occhi rivedo ancora la scena, “gli allievi alzano la mano destra ed ad una sola alta voce gridano: Lo Giuro!!!”.
Uno scrosciante lungo applauso si confonde con la fanfara che intona l'Inno Nazionale...
Qualche lacrima scende lungo le gote delle mamme e perché no, si insinua tra le rughe dei “veci”, prontamente celate dalla mano, fingendo di calcare  meglio il cappello in capo.

Il monte Emilius ci osserva in tutta la sua maestosità, ancora una volta si è ripetuto il grande evento: ora siamo soldati.

Ad oltre 45 anni dall’evento, tre differenti versioni si scontrano sulla modalità di arrivo degli allievi sul grande piazzale della Cesare Battisti.
Abbiamo l’interpretazione ‘deduttiva’ di Piergiorgio Marguerettaz:
“… sono andato alla ricerca di qualche fotografia del nostro Giuramento, oltre a fare uno sforzo di memoria. Da quello che si può vedere dalle foto stesse siamo arrivati in piazza d'armi partendo da dietro la caserma ACS  marciando inquadrati …”
C’è quindi la testimonianza ‘cronometrica’ di Franco Ferrario:
“… lo schieramento è stato ottenuto sulla corsa (quindi tecnica dell’ammassamento) con l'ottimo tempo di circa 27 secondi complessivi! … le fotografie scattate da mia mamma e dalle mie cugine presenti alla cerimonia lo confermano ove non bastasse la mia testimonianza … sono pronto a sfidare a duello a colpi di mortaio chiunque osasse contraddire quanto sopra …”
Da ultimo, ecco la versione ‘titubante’ di Sandro Bazzurro. Partito da una solida certezza a favore dell’ammassamento “… un mucchio selvaggio di un mezzo migliaio di scarponi! Ne succedevano di tutti i colori: presi dalla foga i più alti che stavano dietro sopravanzavano i più piccoli che li precedevano nello schieramento, i quali erano costretti ad accelerare la corsa anche per evitare di essere travolti …”, modificò questa tesi in un secondo tempo, dopo qualche consultazione, con una piccola aggiunta che di fatto ne sosteneva il contrario: “ … forse per questo motivo venne preferito l'arrivo degli allievi sul luogo della cerimonia, già inquadrati in perfetto ordine chiuso”.

Quest’ultima versione è quella riportata nel testo ufficiale, ma, considerando le osservazioni di cui sopra, sussistono seri dubbi che sia quella corretta. Si lascia pertanto ad ogni lettore la facoltà di orientarsi come meglio riterrà opportuno …!



i contributi successivi si possono leggere al link:
I NOSTRI CONTRIBUTI - PARTE II

Nessun commento:

Posta un commento