il nostro libro - parte II

CAPITOLO 38
ESSERE ALPINO


L’eporediese Mario Lorenzi arrivò ad Aosta venticinquenne.
Era già sposato e gli mancava perciò la spensieratezza dei vent'anni.
Veniva da un pesantissimo corso di laurea al Politecnico di Torino e la prima cosa che apprezzò alla scuola era stata l'attività fisica, alla quale aveva dovuto rinunciare per tanto tempo.
Gli piaceva usare il corpo fino allo sfinimento e lì aveva trovato pane per i suoi denti. 
Amava le montagne, la vita all'aperto, alzarsi presto al mattino.
E questo nonostante il comandante Folegnani strapazzasse di continuo i suoi allievi e li portasse volutamente al limite della sopportazione, evidentemente per verificarne la loro reazione.
Un giorno il signor tenente radunò l’intera compagnia.
A plotoni schierati, cominciò ad urlare ripetutamente: “Va tutto bene? Non c’è nessuno che abbia qualcosa da dire?”, sapendo perfettamente che ‘così non poteva andare assolutamente bene’.
All’ennesimo urlaccio Mario Lorenzi, tremante come una foglia, chiese la parola e facendo appello a tutto il suo coraggio espresse il suo pensiero: “Lei ci tratta troppo malamente!”.
Non volava una mosca e tutti i ragazzi aspettavano la reazione del comandante.
Ma Folegnani, senza batter ciglio, prese atto di quella opinione e non fece alcun commento. Subito dopo ripresero le consuete attività addestrative come se nulla fosse successo.
Soltanto a fine corso, ad esami già brillantemente superati, Mario venne convocato dal suo comandante.
L’argomento di quell’incontro non riguardava specificatamente quel ‘pericoloso’ scambiò di battute, ma Mario, nell’occasione, ebbe la netta sensazione che quella coraggiosa uscita verbale avesse contribuito non poco all’alta valutazione finale da lui ottenuta in attitudine militare.

Essere alpino però, al momento, non gli dava ancora una sensazione particolare: in verità aveva cercato di esserlo soprattutto per poter restare vicino alla sua città ed in modo particolare a sua moglie.

Fu nel periodo successivo, al battaglione da sottotenente, che il suo atteggiamento cambiò.
Insieme all’amico Giuliano Levrero, ebbe la fortuna di appartenere alla compagnia del capitano Albarosa e del maresciallo Zampa, due persone meravigliose morte in quel maledetto incidente di elicottero.
Con loro Mario capì che essere alpino significava soprattutto essere una persona disposta ad impegnarsi per soccorrere chi è in difficoltà, relegando la componente militare ad un aspetto secondario.

  


CAPITOLO 39
PILLOLE DI SMALP


CHI SA DIPINGERE?
“Chi sa dipingere?” tuonò il sottotenente davanti alla 1^ compagnia schierata nel piazzale, in attesa di essere smistati nelle varie mansioni di pulizia, in preparazione di una visita importante.
Una dozzina di allievi, dopo una rapida indagine mentale fra passato artistico e valutazione di possibilità di imboscarsi … trac … fece un passo avanti. Allora l’ufficiale, sempre con tono imperante: “Voi, 1, 2, 3, 4, 5 e 6, prendete le scope e cominciate a spazzare il cortile, iniziando dalla Palazzina degli Ufficiali”.
Ghignate solenni e battutacce da parte dei compagni salutarono i neo pittori realisti della Scuola di Aosta!

TRE ORE DI ATTESA
Ore 8.30. L’allievo AUC Felice Piasini venne prelevato da una AR alla ‘Cesare Battisti’ e portato al Castello di Beauregard (nido delle aquile, linguaggio criptato), sede del Comando della Scuola Militare Alpina. Lì risiedeva il misterioso, ermetico e leggendario Gen. Bruno Gallarotti.
Secondo le malelingue dei compagni di camerata, si trattava di una missione con scopo ‘raccomandazione’, in previsione delle prossime assegnazioni ai battaglioni al termine del corso.
No, era una missione ‘umanitaria’: Felice doveva portare i saluti dell’alpino Angelo Tognini (classe 1917, di Castione Andevenno), al comandante Gallarotti, suo capitano durante la Campagna di Russia.
Lunga anticamera fino alle 11.30 fra un andirivieni di ufficiali, con relativo scatto sull’attenti dell’allievo ad ogni passaggio.
Finalmente si aprì la porta. Felice, trepidante, aveva preparato e ripetuto alla noia la frase di circostanza per non fare brutta figura.
Ma non apparve il Generale, bensì un viscido attendente che frettolosamente chiese il motivo della richiesta di colloquio. Il Generale era occupato e non poteva ricevere; dei ‘saluti’ gli sarebbe stato riferito.
Tre ore di attesa per essere liquidato freddamente da un… attendente, col dubbio che i ‘saluti’ non siano mai stati recapitati all’interessato!

IL SERGENTE GARD
Caserma Ramirez, stava per iniziare una delle tante lezioni in aula.
Gli allievi chiacchieravano tra di loro in attesa che arrivasse l’insegnante.
Come sempre, c’era un graduato davanti alla porta, per l’occasione era il sergente Gard, pronto a far scattare sull’attenti i ragazzi non appena si fosse affacciato l’istruttore.
Ecco, l’ufficiale stava per entrare.
Il sergente Gard, all’apice della concentrazione, declamò: “Aaaaaa-ttenti”.
Poi, senza il minimo calo di tensione, continuò: “Seeeee-duti”.
Forse sarebbe stato opportuno un più militaresco ‘Riiiiii-poso!’

VODKA A LA THUILE
La notte era profonda e spettrale, nel nero assoluto del cielo brillavano tonnellate di stelle.
La luna, che illuminava pallidamente il silenzio abissale della conca innevata de La Thuile, il cui aspetto appariva sinistro perfino alla luce del giorno, esaltava quello scenario insieme tetro e affascinante.
Di fianco alla caserma Monte Bianco una brutta spigolosa costruzione sembrava un’astronave aliena appena giunta dalla cintura di Orione.
Era invece ‘fortunatamente’ solo un fabbricato, adibito a residence, in stile moderno nettamente contrastante con il contesto architettonico dell’antico borgo; per sovrappiù era adornato da lampade e faretti che irradiavano una inquietante luce bluastra la quale contribuiva a rendere l’atmosfera di quella notte di dicembre 1971 maledettamente più siderale.
Erano circa le due; l’allievo ufficiale Franco Ferrario stava diligentemente svolgendo il suo turno di sentinella percorrendo il cortile della caserma tra alte mura di neve e superfici ghiacciate.
Ad un certo punto vide comparire, uscito da una palazzina, uno degli alpini esploratori di stanza alla Monte Bianco, che attraversò lo spiazzo per raggiungere l’edificio del corpo di guardia.
Notò Franco e gli porse una bottiglia: “Tié’! Bevi!”
“Cos’è?”
“Bevi!”
Quasi costretto, pur sospettoso, bevve alcuni sorsi.
“Grazie,” restituendo la bottiglia, “ma è acqua?”
“Veramente è vodka, è il freddo bestiale che la fa sembrare acqua”.
Come era apparso, così scomparve.
Franco, astemio (o da considerarsi ormai ex?), rimase ad interrogarsi sulle strane proprietà alchemiche e termodinamiche testé direttamente sperimentate.
Nel frattempo aveva infatti con stupore realizzato di non avere più freddo. L’autonomia termica coprì abbondantemente il periodo del turno di guardia.

DA NOI CHIAMANO COSI’ SOLO LE PECORE …
Mancava poco a mezzogiorno e una autovettura di ricognizione stava rientrando da un sopralluogo alle opere di fortificazione e sbarramento oramai dismesse, sopra Malles.
A bordo si trovano il sottotenente Felice Piasini, comandante della 250^ di stanza a Glorenza, l’autista e 4 naioni.
Entrando nell’abitato incrociarono la barista più famosa del posto e, tanto per cambiare, richiamarono la sua attenzione con fischi ed epiteti che non brillavano certo per eleganza.
L’ufficiale richiamò all’ordine i suoi ragazzi, ma ormai la frittata era fatta.
Si pensò per un po’ di cambiare bar, per far decantare l’accaduto.
Ma poi si ritornò allo ‘stammtisch’ (tavolo fisso) del solito bar.
La barista si presentò al tavolo con blocchetto e lapis per le ordinazioni, ma questa volta non era sorridente e solare come al solito, anzi. Rivolgendosi all’ufficiale, visibilmente stizzita e acida, disse: “Ich heiße Magda! Bei uns nur die Schafen rufen wir so!“ (traduzione: da noi chiamiamo così solo le pecore).

UN BOCCONIANO ATIPICO
Renato Barberis arrivò ad Aosta da Quattordio, il paese dove viveva con i genitori in un bel   cascinale di campagna lungo la statale Asti - Alessandria.
Aveva un grande rispetto per la natura, amava la vita all'aria aperta e nell'orto di casa coltivava ogni tipo di verdura.
In autunno si alzava all'alba per andare a cercare i funghi nei boschi del Sassello, sui monti che marcano il confine tra il Piemonte e la Liguria.
Era un AUC intelligente e riservato, sempre pronto ad aiutare i compagni. La zappa e la vanga avevano irrobustito il suo corpo, saliva sui pendii senza affanno portando in spalla lo zaino e il Garand.
Terminato il Corso ad Aosta andò a prestar servizio nella brigata Julia, a Tarvisio, un paese così lontano da Quattordio da far pensare che il nostro ufficiale non avesse santi in paradiso.
Laureato alla Bocconi con compagni di corso come Philippe Daverio e Marco Tronchetti Provera, era così diverso dallo stereotipo di quei giovani rampanti, da rinunciare ad una promettente carriera nella City londinese per un impiego in banca vicino al suo paese.

IL GAGLIARDETTO
Il gagliardetto del 64° AUC sventola per merito degli ufficiali alpini che, partiti da Aosta nel lontano 1972, rispondono “presente!” alle adunate, ai raduni e alle commemorazioni.
Franco Zanin, Evelino Mattelig, Giuliano Secchi e Angelo Soave sono gli alfieri di questo gruppo virtuoso.
Franco è la memoria storica del 64° e ricorda nome, cognome e numero di camerata di tutti i suoi compagni di Corso.
Evelino ha cercato e ritrovato quei ragazzi che, diventati adulti, si erano persi di vista.
Giuliano notifica gli eventi e aggiorna la lista dei presenti e degli assenti.
Ogni anno Angelo invita i compagni di Corso a Bruno, sulla collina della chiesetta della Misericordia (sec. XVI) dedicata alla  Protezione Civile.
Il gagliardetto del 64° AUC sventola per merito degli alpini che rispondono “presente!” e rende omaggio ai compagni di Corso che sono “andati avanti”.








PARTE SECONDA:
AI BATTAGLIONI


CAPITOLO 40
IL BACIO ALLA MULA


Giuliano Levrero salutò la scuola militare alpina con tre palline bianche in saccoccia e la stelletta di sottotenente su entrambe le spalline della divisa.
Come tutti i neo tenentini fu inviato in ‘ordinaria’ per le feste di Natale, una lunga ordinaria, che avrebbe permesso ai ‘vecchi’ del 63° corso, in quel momento ai reparti con il grado di sergente AUC, di acquisire l'agognata stelletta e l'incarico di Ufficiale prima di loro.
Come la quasi totalità dei compagni, trascorse la sospirata e lunga licenza dividendosi tra la famiglia e la fidanzata.
Poi, in una fredda mattina di gennaio arrivò a casa un carabiniere. Aveva in mano un dispaccio. Giuliano comprese subito di cosa si trattasse e lo aprì rapidamente: “Taurinense, 4^ Reggimento, Torino”: la destinazione che aveva richiesto!
Si recò immediatamente in caserma dove fu accolto dal Maresciallo Comandante che, sorridendo compiaciuto, gli porse una notifica del Comando di Reggimento della Caserma Monte Bianco di Torino. Giuliano la aperse con curiosità e soddisfazione: gli si comunicava quando avrebbe dovuto recarsi presso l'Ufficio del Comandante Colonnello Forneris per il Giuramento quale Ufficiale e per la destinazione al Reparto. Congedandolo, il Maresciallo gli strinse la mano e gli disse: “Auguri, Signor Tenente!” … Era stato chiamato per la prima volta “Tenente”… Giuliano si sentiva importante.
Nel giorno stabilito, era di pomeriggio, si presentò al Comando della ‘Monte Bianco’ a Torino. Nel corridoio al primo piano incontrò i colleghi Sten che a loro volta erano stati assegnati al 4° Reggimento. Si salutarono con affetto e con una certa eccitazione: ognuno di loro sperava di essere assegnato al Reparto desiderato.
Giuliano confidava vivamente di poter tornare ad Aosta, al Battaglione, nella Caserma Testafochi.
Il gruppetto di giovani sottotenenti fu finalmente ricevuto nell'ufficio del Comandante. Si schierarono sull'attenti, perfettamente inquadrati, impeccabili nella fiammante ‘diagonale’: cappello, sciarpa, camicia e cravatta erano in perfetto ordine e senza pieghe, le scarpe luccicavano.
Dopo la presentazione individuale ed il discorso del Colonnello, ad uno ad uno giurarono secondo il rituale, poi ritornarono ai loro posti.
Il Colonnello comunicò ad ognuno la propria destinazione con l'ordine di presentarsi immediatamente al reparto; avvisò anche che, se nell'ambito della stessa specializzazione qualcuno avesse voluto cambiare la località designata con qualcun altro disponibile, non ci sarebbero stati problemi di sorta.
Seguì il saluto alla bandiera, quindi i ragazzi uscirono in corridoio.
Si formarono all’istante piccoli gruppi per commentare le assegnazioni mentre altri compagni passeggiavano assorti nei loro pensieri.
Giuliano era stato destinato al Battaglione Susa di stanza nella Caserma Berardi di Pinerolo: non era tanto soddisfatto.  Anche Ernesto Brociero non sembrava particolarmente contento di finire invece alla Testafochi di Aosta. Ci volle solo un attimo per intendersi: entrambi erano ben felici di quel possibile scambio. Tornarono dal Colonnello Forneris che provvide alla modifica.
Per Giuliano era la soluzione perfetta: abitava a Torino con i genitori e per raggiungere Aosta al volante della sua bella GT 1300 junior sarebbe stata sufficiente poco più di un’ora di viaggio.

Erano 7 i giovani tenentini del 64 corso AUC che furono destinati alla caserma Testafochi di Aosta: Michele Casini, Giuliano Levrero, Mario Lorenzi, Alfredo Marchelli, Roberto Salati, Roberto Tesio, Giuseppe Tropenscovino.
Arrivati a destino, si presentarono al Corpo di Guardia. L'Ufficiale di Picchetto li aspettava; li accolse con uno strano ghigno satanico e subito li accompagnò con sospetto fare affabile al circolo Ufficiali. All’ingresso, c’era un lungo corridoio che divideva il circolo in due zone: alla sinistra si trovava il bar e quindi la cucina con in fondo i servizi igienici, alla destra c’era l'ampia zona lettura cui seguiva la grande sala mensa.
Ad attendere i nuovi arrivati, non mancava nessuno: i ‘vecchi’ del 62° ed i ‘fratelli maggiori’ del 63° erano tutti lì, nella trepida attesa di conoscere i nuovi polli da spennare.
Furono ‘ricevuti’ al bar e gentilmente obbligati a presentarsi singolarmente. Avvezzi alla presentazione ripetuta a gran voce una infinità di volte alla SMALP, un po’ per l’emozione e un po’ per l’imbarazzo, a qualcuno scappò un “Allievo …” troppo in ritardo sostituito dalla nuova qualifica.
Arrivò la prima punizione: un’abbondante bevuta da offrire a tutti i presenti.
Poi, ad ogni ‘stupidaggine’ involontariamente sparata dai sette neofiti, seguivano, a titolo di riparazione, altre bicchierate e ripetuti piegamenti sulle braccia. Il tutto eseguito senza potersi togliere cappello e ‘castorino’ (il pesante cappotto militare).
“Adesso, appena sentirete squillare il telefono in fondo al corridoio – era un ‘vecchio’ che stava parlando - ad uno ad uno schizzerete sino a laggiù con il passo del leopardo, 'castorino' e cappello sempre indosso, alzerete la cornetta e vi presenterete a voce alta e chiara perché, così distanti, si sente poco! Evitate di eseguire male l'ordine, altrimenti dovrete ripetere il tutto!”
I ‘veci’, maledetti loro, erano in combutta con gli alpini del centralino. Il telefono cominciò a squillare ininterrottamente. Nell’arco di pochi minuti, l’oblungo corridoio del circolo ufficiali era stato tirato a lucido come non avveniva da tempo.
Giuliano e compagni erano stravolti, accaldati ed un filo ‘bevuti’.
Il clima era comunque goliardico ed allegro.
Si passò poi alla descrizione della vita di caserma. A parlare erano gli ufficiali anziani, quelli del 62^, mentre i ‘fratelli maggiori’ del 63^ annuivano di continuo e con grande deferenza.
Il quadro descritto era allucinante: comandanti terribili, punizioni assurde, fatiche immani, servizi interminabili, rischi continui …
Il tutto condito con ripetute domande ai nuovi arrivati con l’unico obiettivo di coglierli in fallo. Naturalmente, ogni minimo tentennamento dei ragazzi era occasione di una nuova sanzione.
Le ultime penitenze, con grande sollievo fisico dei ragazzi che grondavano sudore da ogni dove, avvennero all’aria aperta.
In un primo tempo dovettero saltare dalla finestra del bar che dava sul piazzale, correre sotto l’alzabandiera ed ‘aquilare’.

Fu il castigo conclusivo a risultare senza alcun dubbio il più impegnativo.
Dovettero, uno ad uno, sottoporsi al tradizionale bacio alla mula!
Tale goliardica usanza, già di per sé abbastanza originale, era molto diffusa nei reparti alpini.
La difficoltà era duplice.
Da una parte non tutti i muli erano sempre ben disposti a queste amorevoli effusioni ed il pericolo di una bella scalciata era sempre dietro l’angolo. “Ma - pensavano i ragazzi – se il bacio va dato sul muso, non avrebbero dovuto esserci grossi problemi a scansare l’eventuale pedata del quadrupede”. 
Il secondo problema, e qui le cose si complicavano alquanto, riguardava invece l’esatta localizzazione del punto in cui doveva avvenire il contatto tra il mulo e l’alpino. Contrariamente infatti a quanto pensarono in un primo tempo i giovani tenentini, non si trattava di un languido bacio bocca a bocca, bensì di un increscioso sbaciucchio tra le labbra dell’alpino e … l’inquietante pertugio situato nel fondo schiena dell’animale.
Decenza esige che non si entri nei particolari di questa incresciosa vicenda.
Bontà volle che, per buona fortuna, i ’veci’ si mostrarono particolarmente comprensivi nelle operazioni di controllo.
E leggenda racconta che uno dei giovani tenentini, a missione compiuta, ebbe a sussurrare: “Meno male che era una mula. Fosse stato un mulo, non lo avrei mai fatto!”.



  
CAPITOLO 41
LA CUNEO BENE, UNA GIULIETTA SPRINT E 20.000 LIRE


Anche Sandro Bazurro, come tutti i suoi compagni, visse con ansia il momento che da semplice allievo lo avrebbe introdotto nella realtà di comandante di plotone fucilieri, incarico per il quale era stato preparato nei lunghi mesi trascorsi alla Scuola. 
Ripassò più volte la ‘libretta’ del perfetto ufficiale, circa il comportamento che dovevano tenere i giovani subalterni all'ingresso dei nuovi reparti.
Inviò quindi un telegramma di saluto alla bandiera di guerra del Reggimento ed al suo Comandante, Reggimento che portava il numero due, il mitico ‘doi’, unico reparto ancora esistente della gloriosa Divisione Cuneense, Divisione martire in terra di Russia che con il suo eroico sacrificio meritò la medaglia d'oro al valore militare. Il 2° RGT alpini era a quel tempo C.A.R. e formava reclute per le brigate Cadore, Orobica, Taurinense e Tridentina.
Trasmise inoltre un deferente telegramma alla Calotta degli ufficiali subalterni, al Circolo della sede del Reggimento, anche nella speranza di rabbonirne le immancabili manifestazioni goliardiche.
Si allenò ripetutamente al rito di battuta dei tacchi da effettuarsi oltre che alla presenza di un superiore anche all'ingresso della sala convegno del Circolo ufficiali ed anzi all'uopo acquistò un paio di scarpe munite di tacco leggermente fuori misura, in altezza, che avevano un ‘toc!’ forte e secco: favoloso.
Tutte queste precauzioni ovviamente poco valsero, se non a limitare gli scherzi ed il pagamento di laute libagioni agli anziani della Calotta.
All'arrivo, alla caserma Cesare Battisti di Cuneo, sede del Comando del ‘Doi’ ed espletate le formalità di rito, compreso il giuramento da ufficiale al cospetto della bandiera di Guerra e del Colonnello Comandante, venne assegnato alla CAM Tridentina, di stanza nella caserma medesima.
Ma la cosa singolare che più lo colpì fu il successivo colloquio con il Comandante di Battaglione: sinceramente difficile per lui giudicarlo come figura di comandante di reparto, indubbiamente era un grande organizzatore di eventi.
Orbene, dopo il discorso di benvenuto a tutti gli ufficiali del Battaglione, congedati gli altri colleghi, il comandante trattenne Sandro al suo cospetto e subito lo raggelò con la seguente frase: “Sono venuto a conoscenza che Lei è genovese, brutta gente i genovesi, avari, gretti, contrabbandieri ..., ma fidàti … Per questo motivo, Lei avrà dei permessi saltuari, - ... lunga pausa ... -, permessi nei quali Lei si recherà nella sua città, potrà incontrare i suoi o la morosa a suo piacimento, ma ... viaggerà accompagnato da quella valigia,” ed indicò un valigione di cartone che stava in un angolo dell'ufficio. “Bene, all'andata sarà un semplice contenitore vuoto, ma al ritorno sarà ricolmo di ogni ben di Dio, tutte cose che serviranno a rallegrare le nostre festicciole di battaglione. Lei si incontrerà con una persona che provvederà a rifornirla dell'occorrente, nulla di strano badi bene, sigarette, radioline, gadget e ninnoli vari che renderanno più piacevoli i giochi di società nelle nostre feste. Ovviamente, questo è un incarico di estrema fiducia, che esula dalle sue specifiche competenze, che non Le porterà nessuna agevolazione, o premio, e che pertanto Lei può anche rifiutare … se lo ritiene lesivo della sua dignità di ufficiale.”
Sandro Bazurro avrebbe volentieri risposto picche, ma considerata rapidamente la possibilità di rivedere saltuariamente la sua famiglia, la fidanzata, staccare qualche giorno, il tutto assolutamente giustificato, anzi con la benedizione del superiore, lo spinse ad accettare.
Fu così che nei periodi di ‘intercar’, ovvero quando ultimato il ciclo di addestramento, accompagnate le reclute al reggimento, si era in attesa dei nuovi arrivi, il giovane tenente partiva per Genova con un bel permesso e la sua valigia vuota, si recava in Darsena, in porto franco, ed alcuni giorni dopo ritornava in caserma con il prezioso carico.
Va detto che col tempo Sandro acquisì molta esperienza, tanto che a seconda del gradimento degli ospiti delle loro feste, soprattutto delle signore, ovviamente della ‘Cuneo bene’, gli venne demandata persino la scelta dell'oggettistica da produrre e da consegnare al suo valente superiore.
Una sera dovette partire da Genova senza auto, in quanto la sua fida ‘seicento’ aveva avuto improvviso bisogno di manutenzione e non ne volle sapere di partire con lui; pazienza, il treno avrebbe sopperito, l'ultimo treno della giornata per Cuneo ovviamente, che gli consentiva di rientrare in caserma per un'ora … comunque indecente.
Arrivò alla stazione di Cuneo che nevicava abbondantemente e faceva un freddo cane. Uscito, si guardò attorno, non c'era anima viva, né un taxi, nulla, … solo un'auto rossa stazionava lì davanti.
Pazienza, alzò il bavero del cappotto, calcò bene il cappello in capo, sollevò la sua valigiona di cartone ed il suo prezioso carico, e si avviò verso la caserma.
Passando vicino all'auto rossa sentì chiamare: “Ehi! Tenente!” Era una voce di donna. Ma come avrà fatto a distinguere i gradi con quel tempo ... mah! Sarà l'esperienza, pensò maliziosamente. “Buonasera!” rispose alla gentile signora bionda che si allungava verso il finestrino, ed aveva aperto la portiera. “Ti posso dare un passaggio se vuoi, vado verso la caserma, ormai con questa serata ... stai tranquillo, non voglio nulla”.
Sandro rimase perplesso un attimo, guardò meglio, era una gentile signora già di una certa età, che cortesemente lo invitava nell'alcova o che forse impietosita si offriva di accompagnare a casa un soldatino infreddolito?
Accettò di buon grado, era comunque addestrato ad affrontare qualsiasi situazione.
Fu gentilissima, molto cara, direi quasi materna. Lo portò davanti al portone della caserma, lo salutò ed improvvisamente gli sfiorò la guancia con un leggero bacio mentre una lacrima furtiva le rigava il volto. Confessò, quasi per giustificarsi, che le ricordava suo figlio, morto da piccolo di un male incurabile: avrebbe avuto la sua stessa età.
Sceso dall'auto, una ‘giulietta sprint’ rossa fiammante, Sandro guardò all'intorno, scrutando tra i fiocchi di neve per accertarsi se qualcuno lo avesse visto ... nessuno ... e veramente un po' gli dispiacque.
Si avviò poi verso il portone, senza voltarsi, mentre il vento gelido gli sferzava il viso e gli occhi si riempivano di lacrime.

***

Ma al di là di questi fatti dal sapore più goliardico che militare, la sua permanenza al Corpo Addestramento Reclute del secondo Reggimento Alpini di Cuneo fu l'esperienza unica di un periodo della vita pervaso da avvenimenti irripetibili, di crescita morale e spirituale, che ne segneranno profondamente il futuro.
I sottotenenti come Sandro, istruttori di reclute, avevano il compito di formare uomini prima ancora che soldati. Si trattava di una pluralità di soggetti che per gran parte tollerava soltanto l'imposizione della divisa, dell'ordine, della disciplina, del fatto che la libertà del singolo finiva dove cominciava quella del vicino di branda, del rispetto di orari e di una vita scandita da ritmi preordinati. Una vita insomma che cozzava con gli ideali del sessantotto e con l'aria che si respirava fuori dalle mura della caserma.
Arrivavano persone in gran parte diverse per estrazione sociale, cultura, tradizioni e dovevano vivere fianco a fianco, integrarsi l'un l'altro fino a creare un tutt'uno, quel tutt'uno che da sempre ha visto il corpo degli alpini in prima linea, lo Spirito di Corpo.
Ognuno si portava dietro i suoi problemi. C’era stato il caso di un ragazzo che aveva portato con sè persino la famiglia, moglie e bimbo piccolo, in quanto non sapeva cos'altro fare per mantenerli. Arrivavano giovani che non capivano o meglio fingevano di non capire la nostra lingua, per lo più contadini altoatesini, persone che giungevano accompagnate dai carabinieri, condannati per reati minori, che venivano affidati temporaneamente all'esercito per ottemperare al loro dovere di cittadini e così via. Spesso ci si doveva improvvisare psicologi ed il grado dava quella autorità paterna, non paternalistica, di riferimento, che il più delle volte era riconosciuta dai soggetti stessi, che vedevano nei superiori chi poteva risolvere i loro problemi, aiutarli a vincere le loro paure. A volte purtroppo tutti gli sforzi si rivelavano vani, qualche giovane non reggeva a questo modo di vita ed i pregressi problemi si acuivano fino a portarlo in qualche caso, per fortuna raro, al suicidio, come avvenne per un caro amico che pur assegnato a compiti di fureria ed esentato dagli addestramenti, nonostante gli sforzi congiunti con la famiglia, giunse alla decisione estrema di mettere fine alla sua esistenza terrena.
Un episodio in particolare tra i tanti, colpì profondamente Sandro.
Un giorno arrivò un ragazzo, accompagnato dai carabinieri, per assolvere il dovere militare. Taciturno, schivo, senza amici, sembrava proprio non volersi integrare con gli altri. Eseguiva però gli ordini ed i compiti a lui assegnati sì in modo autonomo, ma stranamente con impegno, a voler forse dimostrare che non era inferiore a nessuno. E l’atteggiamento di iniziale diffidenza verso il suo sottotenente Bazurro si trasformò a poco a poco in una particolare dedizione nei suoi confronti e di ciò che ivi rappresentava. Il cambiamento divenne presto evidente. L'attaccamento alla divisa ed al Corpo furono segnati da un susseguirsi di eventi: gli addestramenti e le marce, condotti con entusiasmo e disciplina, il voler partecipare alla Cerimonia del Giuramento nonostante la febbre altissima, con conseguente diagnosi di una bella broncopolmonite. Una volta guarito, Sandro si prodigò per fargli avere una licenza premio, ma il ragazzo, alla notizia, sembrò tentennare. Stupito gli chiese i motivi di tale atteggiamento e la risposta fu che non aveva i soldi per portare un regalino alla mamma per il suo compleanno. Bazurro gli offrì all’istante ventimila lire in prestito, quasi certo che non le avrebbe più riviste, considerata la sua condizione economica non certo florida.
Ancora una volta aveva avuto torto; al termine della licenza si presentò a rapporto, ancora prima di recarsi in camerata e gli restituì i soldi con un bel sorriso ed una calorosa stretta di mano accompagnata da un ‘grazie’ appena sussurrato.
Sandro non poteva sapere cosa il giovane soldato avrebbe combinato una volta ultimato il servizio militare, ne ebbe mai più sue notizie, ma era fermamente convinto che sarebbe stato un cittadino onesto e da portare ad esempio.




CAPITOLO 42
LA MALEDIZIONE DELLA POLVERIERA


Nella lotteria delle assegnazioni, la sorte si era rivelata sufficientemente benigna per Roberto Braggion.
Venne infatti destinato all’8^ reggimento, battaglione alpini Cividale, alla 76^ compagnia, a Chiusaforte.
Il paesino, allora di poco più di mille anime e in continuo spopolamento, era situato in una posizione geografica militarmente interessante, nei pressi di una strettoia della valle del Fella.
Fu questo il motivo per cui, ai tempi della seconda guerra mondiale, si ritenne strategicamente utile porvi di stanza un’intera compagnia.
Ma, ciò che probabilmente più importava a Roberto, era la distanza che divideva la sua Preganziol da Chiusaforte: circa 150 chilometri che poteva percorrere tranquillamente in due ore di macchina.
Nel complesso, restando nel gergo bellico, era ad un tiro di schioppo dagli affetti più cari: famigliari, amici e morosa.

Come per tutti gli altri suoi colleghi in servizio presso quel piccolo comune friulano, anche per Roberto giunse il momento dell’ingrato compito, della durata di una settimana, di essere demandato quale Ufficiale Responsabile della Sicurezza della Polveriera, che era situata a pochi chilometri di distanza da Tolmezzo.
Il luogo era quanto di più tetro si potesse immaginare, talmente desolato che persino la memoria del ragazzo aveva deciso di cancellarne il nome della località in cui si trovava.
Quella lugubre polveriera era situata a ridosso di una rupe, circondata su tre lati da un fitto bosco e cinta da un reticolato che la rendeva simile ad un campo di concentramento.
Solo da un lato, in corrispondenza dell'entrata, confinava con la strada statale che portava a Tolmezzo. L’unica parvenza di vita, al di là della strada, era rappresentata da un enorme bidone delle immondizie, lì collocato a disposizione della polveriera.
La montagna tutt’intorno era percorsa da cunicoli, grotte, camminamenti sotterranei, stanze enormi un tempo adibite a dormitori, santabarbara, depositi ed altro.
Insieme al sottotenente Braggion, in servizio per quell’intera e funerea settimana, c'erano una dozzina di Alpini, addetti di volta in volta ai turni di guardia ed ai servizi.
Il tempo passava molto molto lentamente in un alternarsi di luce e di buio sempre uguali.
Le ispezioni ed i controlli di rito si susseguivano con una regolarità ferrea e con notevole attenzione e diligenza: presente era ancora l'eco degli attentati in Tirolo.
Roberto Braggion si sentiva un po' come il sottotenente Giovanni Drogo della Fortezza Bastiani ne “Il Deserto dei Tartari” e, comunque e in qualche modo, investito di quella parte lo era.
Tutti i suoi sforzi e la sua concentrazione erano diretti al buon funzionamento del gruppo ed a garantire la necessaria sicurezza.
Roberto usciva puntualmente per le ispezioni giorno e notte, con ogni tempo che, purtroppo, in quel breve periodo, fu freddo e piovoso come non mai di primavera.
La ferrea disciplina (alla Sottotenente Drogo) che imponeva a se stesso ed ai suoi sottoposti non impedì loro, comunque, qualche piccolo momento ricreativo durante i turni di riposo.
Memorabili, in proposito, furono alcune sedute spiritiche con relative comunicazioni con l'aldilà e persino una colossale mangiata di lumache, raccolte durante una delle poche schiarite, preparate secondo i dettami dalla cucina abruzzese: sugo di pomodoro, origano e altre spezie misteriosamente apparse.
Ma, a parte quelle poche parentesi medianiche e culinarie, quei sette giorni si rivelarono abbastanza duri per tutto il gruppo.
Soprattutto, furono pieni di costante apprensione perché l'imprevisto era sempre in agguato e tanti, in proposito, erano gli aneddoti relativi ad improvvise disgrazie che, a quanto si diceva, colpivano con regolarità e gravità il comandante di turno della Polveriera.
Fu pertanto con sommo piacere che il sottotenente Braggion vide arrivare anche l'ultimo giorno del proprio turno di servizio senza che alcun intoppo avesse in qualche modo intralciato quella inquietante settimana.
Finalmente Roberto risalì sulla Campagnola per fare ritorno nell'amata e tranquilla caserma a Chiusaforte e per sorseggiarsi dopo tanto tempo un buon caffè al Circolo Ufficiali.

 
Il sottotenente Roberto Braggion

Ma trascorsero solo ventiquattro ore dal suo rientro alla caserma di Chiusaforte che la puntualissima maledizione della Polveriera si abbatté senza pietà anche sul giovane sottotenente.
Arrivò, la tempestiva condanna, sotto la forma di pesante punizione: tre giorni di arresto di rigore furono l’inevitabile obolo che Roberto dovette pagare.
Originale, quanto meno, fu la motivazione che accompagnava l’inesorabile verdetto, stilata dal personale pugno del Generale allora in capo alla Brigata Tolmezzo:
“…...quale responsabile, essendo al comando, di aver permesso ad un Alpino, alle ore 7,15 di mattina, di andare a depositare le immondizie dentro al bidone, situato oltre la strada fuori dal cancello, SENZA IL CAPPELLO”.
Accadde infatti che il Generale Comandante passasse davanti alla polveriera proprio in quell’istante e, forse per il timore di contraddire la malevola forza della leggenda, decise di punire oltremisura il malcapitato sottotenente garante del servizio.
E, se la severità del Generale parve ai più a dir poco traboccante, di grande dignità e senso del dovere fu invece la reazione di Roberto. Egli riconobbe il proprio errore: la divisa dell’alpino non era regolare e lui non aveva vigilato a sufficienza affinché ciò non accadesse.
Mitico Roberto, uomo ed alpino capace di prendersi le proprie responsabilità e di riconoscere i propri errori, anche se apparentemente insignificanti.




CAPITOLO 43
IL MULO IMPERO


L’incubo della polveriera non si abbatté soltanto su Roberto.
Anche lo spirito libero di Vinicio Callegari, finito al 6^ Reggimento Alpini e sistemato alla Compagnia Comando e Servizi di Bressanone, dovette rassegnarsi alla clausura della Santa Barbara al forte di Fortezza, nella storica Val d’Isarco all’incrocio con la Val Pusteria.
E se per Roberto l’inquietante soggiorno durò solo una settimana, Vinicio vi restò, in quel forte austro-ungarico, per una ventina di giorni.
In realtà si trattava di tre settimane di giusto castigo, che sostituivano i venti giorni di arresti di rigore che il ragazzo si era più che meritatamente conquistato essendo stato ‘semplicemente’ la causa di un ritardato giuramento!
Per tutto il periodo Vinicio non poté uscire dal fortilizio e dormì completamente vestito, scarponi inclusi.
Come esordio del suo servizio da ufficiale non era niente male!
Rientrò in Caserma più spaesato che mai.
Qui si ritrovò con il collega esploratore Alois Pfeifer ad essere d’improvviso l’ufficiale più anziano. Il Comandante infatti si era assentato per frequentare alcuni corsi e, inaspettatamente, non si rivide mai più.
E poiché il caro collega Alois, come del resto tutti gli esploratori, era sempre in giro a divertirsi con gli sci, finì che il ribelle Vinicio divenne a tutti gli effetti, sotto gli occhi vigili e anche paterni dell’Aiutante Maggiore, comandante ad interim della Compagnia.
Così in pochi giorni, il neo-ufficiale in punizione si ritrovò ad essere Comandante di un bel drappello di 150 alpini.
Obbligato dagli eventi, fece presto ad imparare.
Arrivò il periodo del campo estivo e contro il malcelato desiderio del suo superiore di restare in caserma, Vinicio decise di partecipare al campo.
E poiché come per tutte le Compagnie Comandi e Servizi anche a Bressanone i vecchi, cari ed insostituibili muli facevano parte integrante del Battaglione, successe che il sottotenente Callegari finì con lo scorrazzare tra le sue montagne, tra Trentino Veneto ed Alto Adige, portandosi a spasso, oltre ai suoi alpini, quelle simpatiche e testarde bestiacce, capaci come nessun altro di trasportare nei tortuosi sentieri montani i gravosi mortai da 120.
Iniziò il campo e animali e uomini cominciarono il loro cammino tra le montagne. In quella meteorologicamente incostante primavera, caldo afoso e violenti temporali si alternavano con incessante continuità.
Dopo una lunga cavalcata, era solo il secondo giorno di marcia, l’intera comitiva raggiunse l’Alpe di Pampeago, sopra Cavalese.
Durante la notte una fitta nevicata imbiancò tutta la montagna con oltre 20 cm di neve.
Colse tutti di sorpresa.
Le tendine non preparate a dovere si afflosciarono fra le sonore bestemmie degli alpini ed il freddo pungente mise a dura prova i ragazzi che indossavano già le uniformi estive.
Da Bressanone arrivò l’ordine di attendere in zona a causa del pericolo di valanghe e di predisporre una sorta di campeggio all’interno della struttura di un fabbricato in costruzione.
Vinicio pensò che tale riparo riguardasse tutti, soldati ed animali.
No, per i muli no. La disposizione era tassativa. Gli ibridi equini avrebbero dovuto restare all’addiaccio.
La notte seguente la temperatura scese sotto lo zero con forti folate di vento gelido.
I turni di guardia divennero più ravvicinati ed il fuoco fu mantenuto sempre acceso.
Il giorno seguente il sergente salmerista comunicò che 4 muli si erano ammalati.
Era un grave problema perché, a causa del gelo pungente, l’iniziale forma di raffreddamento avrebbe potuto trasformarsi in polmonite. Bisognava assolutamente sostituire i quadrupedi malati.
Fu avvertito Il Comando che inviò di tutta fretta il ‘carro attrezzi’ con tre muli di ‘ricambio’, riportandone altrettanti in caserma.
Il quarto si chiamava Impero.
Sempre il primo, il più forte, il leader.
Il suo alpino conducente, quasi piangendo, insistette perché il suo mulo non fosse portato via.
Con le lacrime agli occhi, promise che lo avrebbe curato lui e che lo avrebbe fatto guarire.
Il comandante Vinicio, pur con qualche logica perplessità, acconsentì.
Ma diede anche un termine perentorio di due giorni, oltre i quali, se non si fosse completamente ristabilito, anche Impero sarebbe stato rispedito in caserma.
Per due notti e per due giorni quell’Alpino (l’A maiuscola non è casuale) rimase seduto con una coperta sulle spalle in mezzo alla neve ed al freddo a far compagnia al suo mulo.
Lo accarezzava sul muso e parlava dolcemente a quell’animale dallo sguardo lagrimoso e che respirava a fatica per causa delle froge piene di muco.
Ma il giorno seguente Impero cominciò già a dare segni di insofferenza.
Ormai, dal suo cocciuto punto di vista, era stato tenuto troppo a lungo legato al filare.
Fu sufficiente un’occhiata d’intesa tra Vinicio ed il conducente perché Impero fosse finalmente liberato e potesse lanciarsi in due poderose sgroppate liberatorie per una corsa in discesa nel prato innevato.
All’una di quella notte la compagnia del sottotenente Callegari partì per la tappa successiva.

Vinicio era in testa al plotone e, immediatamente dietro, zampettava Impero che continuava a dare colpetti col muso sulla schiena dell’ufficiale. “Vai troppo piano - sembrava volesse incitarlo - meglio se allunghi il passo!” 





CAPITOLO 44
IL CAR DI BRA, BIBINI E GALLINACCI


Il 64° Corso AUC era finito.
Prima di lasciare Aosta, Luciano Ivaldi venne chiamato in fureria da un graduato che lo invitò a scegliere la destinazione da Sottotenente.
Pensò quale ministro o cardinale lo stesse raccomandando.
Un dattilografo lo tolse d'impaccio rivelandogli che il diritto di scelta spettava agli AUC classificatisi nel primo decimo del Corso.
Quale rilevante performance gli aveva permesso di conseguire questo significativo risultato?
Luciano non lo seppe mai!
Forse era stato tra i più veloci al percorso di guerra.
Tra le varie destinazioni scelse il secondo Reggimento Alpini, la Taurinense: non intendeva perpetuarne la gloria e i fasti ma, semplicemente, non voleva allontanarsi troppo da casa.
Augurò buona fortuna al suo compaesano Angelo Soave, che andava a difendere i confini del Nord-Est, e si ritrovò a Bra, cittadina nota per i suoi vini e i suoi formaggi.

In quei luoghi, precisamente a Pollenzo, Carlin Petrini ha fondato “Slow Food” ed oggi vi si trova l'Università del Gusto, da dove escono i giovani chef che portano la cucina italiana nel mondo.

La caserma di Bra era un C.A.R. (Centro Addestramento Reclute).
Lì, ritrovò Enrico Casalegno, Sandro Cerrato ed Adriano Peracchia. Capitan Burdese era il Comandante della Compagnia e ad ognuno dei quattro novelli Sten fu assegnato il comando di un Plotone. Erano i ragazzi di leva che arrivavano ogni due mesi e, dopo quaranta giorni di addestramento, raggiungevano i Reggimenti operativi.
Il primo compito di Luciano consisteva nel selezionare i futuri alpini. In pochi minuti doveva individuarne le attitudini psico-fisiche. Il campionario che gli sfilava davanti era variegato. Testimoni di Geova che rifiutavano la naia, contestatori del 68' che avevano in odio il sistema, ladri e spacciatori con la fedina sporca ... e per fortuna molti ragazzi giudiziosi.
Fatta la selezione, i giovani affrontavano la triplice alleanza: doccia, parrucchiere, vestizione. Il parrucchiere era un boia senza pietà ... finiti i tempi dei Beatles e Rolling Stones!
Il giorno seguente iniziavano le lezioni.
Orari delle attività, regolamento, gradi, saluto, presidio, punizioni ...
Il Corso appena terminato alla SMALP? Se ne faccia due volte la radice quadrata, si aggiunga una massa di allievi svogliati, li si paghi 500 lire al giorno. Il risultato sarà sempre troppo.

 
Luciano Ivaldi ed Angelo Soave

Era molto meglio l'addestramento, sul grande piazzale della caserma.
 Avanti-march! Dietro-front! Segnare-il-passo ... 
“Fa meno baccano un esercito che cammina di un esercito che segna il passo”, disse un generale infastidito.
Sottufficiali tronfi impartivano ordini urlando. Il loro obiettivo recondito era di trasformare giovani imbranati in arditi guerrieri.
Di fatto, alla fine del CAR, bastava che i nostri eroi sapessero imbracciare il fucile e lanciare la bomba a mano un poco distante dai piedi.
Prima che partissero, con malcelato sorriso, Luciano diceva loro: “La pacchia è finita. Sulle montagne troverete i miei compagni di Corso. Sono molto esigenti, vi faranno trovare lungo!”.  Ma era certo che non sarebbe andata così.

Poi, nell'estate del 1972, con grande sorpresa, arrivarono tra le nuove reclute alcuni giocatori di calcio. A quel tempo non era ancora attivo il Centro Sportivo di Formia, pertanto anche gli sportivi più famosi cadevano nella tagliola del C.A.R..
Tra quei coscritti c’era anche Claudio Onofri, che allora calcava i campi della serie C e che successivamente sarebbe diventato una delle bandiere del Genoa.
Luciano Ivaldi, conoscendo la sfrenata simpatia dell’amico e compagno di corso Alberto Orecchia per i colori rossoblù, provvide subito ad avvisare il compagno del nuovo arrivo in caserma.

All’uopo, è doverosa una breve parentesi e pubblicare per intero due mail che Alberto Orecchia trasmise all’istante, non appena lesse sul nostro blog le due righe appena scritte:
Mail n.ro 1: “Caro Paolo, stamattina sono balzato sulla sedia quando aprendo il nostro blog e scorrendo il contributo di Luciano Ivaldi mi sono scoperto inaspettatamente tifoso a mia insaputa dei ‘Bibini’ o ‘Gallinacci’ che dir si voglia, gli odiati - calcisticamente - tifosi dell'altra sponda calcistica di Genova. Ti prego di rettificare URGENTEMENTE quella indicazione malamente stravolta della mia amata fede calcistica. Io sono e sarò sempre fieramente BLUCERCHIATO, cioè Sampdoriano! Sono quelli i soli colori che amo e difendo sportivamente! Luciano ha frainteso il fatto che io conosca televisivamente un ex capitano di quell'altra squadra cittadina, Onofri; ma mai mi sono dichiarato suo tifoso. Elimina dunque quell'eresia! Grazie”.
Mail n.ro 2: “Una precisazione: noi Sampdoriani siamo identificati simbolicamente dal Marinaio o Baciccia, cioè dal marinaio ligure che figura nello stemma societario con berretto e pipa in bocca. Gli ‘altri’, invece, dal grifone, figura del simbolo del Comune di Genova. Entrambi gli schieramenti usano sfottersi ironicamente con nomignoli. Noi Sampdoriani, in virtù della nostra maglia blu con righe orizzontali rosse e nere bordate di bianco, siamo i Blucerchiati e veniamo derisi anche come ‘i ciclisti’ alludendo alla nostra maglia che evoca quella dei campioni mondiali dello sport a due ruote con l'arcobaleno cerchiato sul tronco. Quei bicolori verticali dirimpettai di gradinata, così rappresentati nella loro effige, sono invece appellati volgarmente ‘bibini’, termine genovese per indicare ironicamente i tacchini, o ‘gallinacci’, rimandando a quegli animali il loro simbolo stilizzato. Ad ognuno dunque il suo Credo e la sua Passione sportiva. Amici si, sempre, ma fieri e distinti rivali nel tifo calcistico”.

Erano gli anni in cui andavano al massimo i tornei di calcetto, a cinque o a sette giocatori, in notturna e Luciano non si lasciò sfuggire l'occasione di diventare presidente di una squadra di calcio senza tirar fuori un quattrino.
Claudio Onofri fu nominato capitano e subito ne approfittò per chiedere che i militari-calciatori, nel giorno in cui avrebbero giocato la sera, fossero esentati da marce e servizi. Si arrivò ad una transazione: d'accordo per le marce ma non per i servizi. Dopotutto si trattava di usare le mani, non i piedi!
Luciano chiese quindi a Capitan Burdese il permesso d'iscrivere la squadra ai tornei, anche a quelli fuori presidio. Il comandante acconsentì a condizione che Luciano fosse sempre presente e che in caso di rissa, in campo o fuori campo, i rei fossero puniti con tre giorni di CPR.
Iniziarono i tornei. I giocatori erano così bravi che, sin dalla prima partita, si intesero a meraviglia. Avevano un controllo di palla, una facilità di gioco, di lancio, di finte e contro-finte, di tiro ... da stordire gli avversari.
Gli spettatori aumentavano di partita in partita.
I giornali locali scrivevano di questi successi. Tutte le Pro Loco del circondario chiedevano che la squadra degli alpini del C.A.R. di Bra fosse iscritta ai loro tornei.
Luciano Ivaldi fu selettivo, solo tornei importanti: Alba, Nizza Monferrato, Acqui Terme. I loro tifosi erano gli alpini di leva e dell'ANA, gli amanti del bel calcio, tutti quelli che i giocatori li avevano visti solo in TV, le ragazzine che leggevano Grand Hotel ...
Vinsero in scioltezza il torneo di Alba.
Il primo premio era una FIAT 500.
Il sottotenente Ivaldi andò a ritirare il premio e disse agli organizzatori: “Che faccio adesso, taglio a fette la 500 e la distribuisco ai giocatori?”
Il concessionario FIAT lo tolse d'impaccio: “La 500 costa 500 mila lire. La tengo io e vi do i soldi.”
Affare fatto! L'indomani andò ad incassare. Il rivenditore contò i soldi sull'unghia, in quegli anni non si parlava di tracciabilità del contante!
Per festeggiare la vittoria venne prenotato un pranzo in uno dei ristoranti più in voga della Langhe, a Santa Vittoria d'Alba. Erano più di cento, tutti alpini.
Venne loro riservato il salone dei matrimoni. Le portate erano quelle classiche della cucina regionale. Affrontarono gli antipasti con un Gavi d'annata, poi attaccarono i primi con un generoso Barbera e finirono i secondi con un corposo Barbaresco. Il Barolo no, è un vino per ricchi, non per gente di montagna.
Il dolce (allora non si chiamava ancora dessert) era una torta su quattro piani, con sopra un pallone di crema e cioccolato. Fantasia del cuoco, stufo di infilare sposini di plastica sulle torte di nozze. Brindarono con un Moscato d'Asti e finirono di stordirsi a grappini e caffè. Il pranzo, iniziato alle 13, finì alle 18.
Luciano andò a pagare il conto: 650 mila lire.
La FIAT 500 non bastò.
Staccò un assegno a saldo, un mese di stipendio.




 CAPITOLO 45
LA 115° COMPAGNIA MORTAI E IL TENENTE IPPOLITO


La 115a Compagnia ‘specialisti al tiro mortai pesanti da 120’ apparteneva al battaglione Cividale dell’8° reggimento della Brigata Alpina Julia ed era di stanza nella caserma Zucchi di Chiusaforte in provincia di Udine, sulla strada Pontebbana, poco distante da Tarvisio e dal confine con l’Austria e l’allora Jugoslavia.
Ivi giunse nel lontano gennaio 1972, proveniente dal 64° corso allievi ufficiali della Scuola Militare Alpina (la Smalp) di Aosta, il sottotenente Franco Ferrario in servizio di prima nomina.

La 115a Compagnia era comandata dal tenente Giovanni Ippolito; il suo vicecomandante era il tenente X.Y., che brillava per la sua assenza in quanto distaccato a Udine con l’incarico di comandante della banda musicale di Brigata.
Il sottotenente di complemento ‘anziano’ Ventura si stava congedando proprio in quei giorni e così avvenne che, non ancora arrivato, Franco Ferrario era già diventato vicecomandante di Compagnia!  E che Compagnia!                                        
In forza alla 115a c’era il reparto salmeria con ben 36 muli e circa 150 tra graduati ed alpini e i 3 sottufficiali, i sergenti Vincenzo Di Domenico, Giorgio Pezzali, Mario Castella (quest’ultimo militare di carriera), oltre all’aggregato sergente Di Biasi con il suo pastore tedesco addestrato per il soccorso antivalanga.
Il giovane sottotenente era chiamato quindi ad assolvere un compito carico di responsabilità che avrebbe potuto facilmente impressionare un novello ufficiale appena uscito dalla scuola militare e ancora privo di esperienze di comando. Grazie però alla acuta sensibilità ed all’appoggio del suo superiore Ippolito (che già dopo pochi giorni gli sembrava di conoscere da anni) il passaggio non fu affatto traumatico, anzi, lui riuscì incredibilmente a far risultare tutto molto semplice e naturale.

Il tenente Ippolito, ricco di competenze militari e di grandi doti umane, grazie alle quali si meritava il rispetto, la leale obbedienza ed anche l’affetto dei sottoposti, non era al contempo propriamente un campione di formalismo militare – a cui non teneva tanto – dato che prediligeva all’etichetta una interpretazione elastica, intelligentemente elastica, di regole e burocratismi.
Sostituendo volentieri il protocollo gerarchico con rapporti diretti e spesso amichevoli, mostrava sempre grande comprensione e sincera attenzione verso i vari problemi personali dei suoi soldati.
Non disdegnava tra l’altro di partecipare ad infuocati incontri di calcio che organizzavano i suoi alpini nell’attrezzato campo antistante la caserma ed a serotine affumicate partite a carte nel locale fureria dove la visibilità, man mano che si evolveva il gioco, tendeva rapidamente a zero.
Purtroppo forse anche a causa della sua personalità poco convenzionale, i suoi meriti non venivano sempre pienamente riconosciuti dalle ‘alte sfere’ che un po’ lo sottostimavano – o c’era dell’inconscia invidia? – e con lui, conseguentemente, la sua Compagnia, ritenuta a volte un poco ordinato insieme di alpini. Nonostante avesse l’anzianità di servizio adeguata, infatti, non era stato ancora promosso a capitano.

Il primo pesante impegno che si prospettò di lì a … subito, fu il campo invernale.
Freddo, marce, percorsi scavati nella neve per il passaggio dei muli, pernottamenti in quota in fienili o ‘trune’, pericoli e boati di non lontane slavine… nulla venne risparmiato, eppure tutto filò liscio.

Si era ormai arrivati a fine marzo, quando una sera Ippolito chiamò Franco nella sua stanza del circolo ufficiali e contorcendosi per i dolori provocati quasi certamente da pesanti coliche, gli preannunciò che avrebbe dovuto essere ricoverato, e con un filo di voce gli disse:
Tre parole tre: “Adesso pensaci tu”, costituirono il passaggio di consegne.
Il mattino seguente il comandante del battaglione, il colonnello Milanese, convocò a sua volta il giovane ufficiale:
“Signor sottotenente Ferrario, il suo comandante sarà assente per malattia e ne avrà per molto tempo. Il comando della Compagnia ora spetta a lei”. (!) Poi, quasi en passant, aggiunse: “Tra due giorni dovrete partire per la scuola tiri e le relative esercitazioni, poi per il pre-campo e il campo estivo. Starete fuori per quasi 3 mesi.  Predisponga e organizzi il tutto per tempo. Auguri.”

Gulp! Il compito era molto complesso e gravoso. Rommel stesso ne sarebbe stato disorientato.

Occorreva infatti organizzare e in brevissimo tempo trasferimenti autotrasportati, abbigliamento completo con il cambio divisa da invernale ad estiva, equipaggiamenti e materiali vari, armamenti, organizzazione delle salmerie, organizzazione delle cucine da campo e dei rifornimenti, stabilire i programmi per il personale che rimaneva in sede ...
Insomma bastava semplicemente definire tutto il necessario escludendo il superfluo.
Sull’esempio del modus operandi del tenente Ippolito, Ferrario riunì a consiglio i suoi validissimi amici sergenti Di Domenico, Castella e Pezzali ed i graduati spiegando loro la complessità della operazione e chiedendone la collaborazione per il miglior successo dell’impresa.

Anche la truppa, messa al corrente durante la susseguente adunata, non si tirò indietro, anzi contribuì attivamente avanzando suggerimenti e proposte per ottimizzare il lavoro.
Tutti assolsero in modo encomiabile il loro compito e puntualmente all’ora prevista la 115a Compagnia equipaggiata di tutto punto partiva sugli autocarri alla volta di Sappada in Cadore sulle Dolomiti bellunesi.

A Sappada si svolse la prima parte dell’addestramento. Ogni mattina sul greto del Piave si tenevano le esercitazioni teoriche, le simulazioni di tiro e le lezioni di topografia.

 
Franco Ferrario (in versione AUC)

(N.B.: Il mortaio spara ‘al coperto’ e non ‘vede’ l’obiettivo, di solito distante qualche chilometro, che deve raggiungere tramite tiro curvo a puntamento indiretto, dopo aver calcolato sulla carta gittate e quote da scavalcare, sulla scorta delle coordinate della propria posizione ricavate mediante metodi di orientamento e di triangolazione geografica, e delle coordinate del bersaglio che vengono tele-comunicate dall’ufficiale osservatore, il quale, posizionato in altra zona, deve poi comandare gli aggiustamenti necessari. Ricevuti i dati, l’ufficiale preposto alle armi deve commutare le misure lineari in misure angolari per impostare l’alzo ed il puntamento, con l’ausilio di rappresentazioni grafiche e tabelle. Poi definire la quantità delle cariche di lancio da utilizzare).  

A Franco, studente in Fisica e futuro docente di Matematica e Fisica, toccava l’onere e l’onore di istruttore della compagnia mortai.
Nel giro di 15 giorni, tra lezioni, marce ed esercitazioni varie, il cosiddetto ‘disordinato e svaccato’ insieme di capi arma, serventi ai pezzi, goniometristi, comandanti di squadra e salmeristi (dovevano addestrarsi a caricare e scaricare velocemente sui muli armi e casse delle munizioni), dopo aver ben assimilato tecniche ed automatismi nei piazzamenti e nei puntamenti, era diventato un gruppo strutturato, omogeneo ed estremamente efficiente.
Intanto Ippolito, finita la convalescenza, era rientrato in servizio ed aveva raggiunto i suoi ragazzi.

Terminato questo periodo, si doveva tornare in Carnia, al poligono di tiro in val di Resia, per la parte conclusiva dell’addestramento che prevedeva esercitazioni a fuoco e prova d’esame finale: la 115a Compagnia era stata comandata a rappresentare il Cividale in un battaglione di formazione costituito dalle varie Compagnie mortai da 120 dell’8° reggimento, che avrebbero dovuto competere e rivaleggiare per il migliore risultato.

L’attendamento fu impiantato a est di Prato di Resia, in prossimità del monte Canin.
Il battaglione era comandato da un Maggiore che faceva parte di quelli che non tenevano in gran conto la 115a e che già in precedenti occasioni aveva velatamente manifestato una non certo benevola attenzione nei confronti di quel reparto.

Dopo due settimane di perfezionamento dei tiri, esercitazioni sia diurne che notturne e continui avvicendamenti dei diversi reparti, venne finalmente il momento della prova finale.
Sopra una altura che fungeva da osservatorio, a circa 1 km in linea d’aria dall’area bersaglio, erano attestati tutti i vari ufficiali del battaglione, sotto la direzione del Maggiore e sotto lo sguardo un po’ trepidante del tenente Ippolito che non poteva mancare all’appuntamento finale senza l’intima speranza di un discreto risultato e di un onorevole piazzamento, speranza corroborata dalla stima verso il giovane sottotenente Ferrario e dalla fiducia nel livello di preparazione raggiunto da tutti i suoi. Alla sua responsabilità sarebbe stato comunque imputato il successo o, al contrario, un risultato negativo.

Adesso toccava a Franco dirigere i tiri della 115ma.
Con sadico intento il Maggiore Comandante ruotò il cavalletto che reggeva il cannocchiale, lo puntò sulla montagna di fronte e ne focalizzò un puntolino.
Poi chiamò a sé Franco e lo invitò a contemplare attraverso il cannocchiale il bersaglio che aveva stabilito per lui e la sua compagine.
Perfidamente aveva individuato il sito più ‘rognoso’ della zona, estremamente difficile da riconoscere sulla carta topografica e da tradurre in longitudine, latitudine, quota ... Si trattava infatti di uno stretto terrazzamento di circa 20 metri per 10 più o meno a metà di una quasi verticale parete di granito, dove crescevano alcuni alberelli e cespugli.
Insomma, solo una piccola insignificante asperità nella vastità della montagna.

Mentre cercava di aggredire l’ardua questione, prendendosi il tempo necessario, colse alle sue spalle la voce beffarda del maggiore che, rivolgendosi ad Ippolito, con sufficienza commentava mormorando, ma non troppo: “Ferrario sta ancora inventandosi le coordinate!”
“Ah sì? Ah sì?” disse tra sé e sé il ragazzo, ferito nel suo militaresco orgoglio: “Mo’ ti faccio vedere io. Io vengo del 64° AUC, sai? Mo’ sono cazzi!!!”

Franco stava prendendosi un po’ di tempo per il fatto che, assistendo nei giorni precedenti alle prove delle altre compagnie, aveva visto ripetuti tiri di aggiustamento con correzioni anche di 800/1000 metri. Troppo!
Non gli sembrava possibile che questi errori fossero dovuti ad imperizia degli operatori, dato che anch’essi erano bene addestrati, e nemmeno parevano tanto imputabili alla oggettiva difficoltà di individuare obiettivi su pareti verticali.
Infatti, a conferma di queste riflessioni, ricontrollando accuratamente le mappe, vi individuò una certa piccola imprecisione, sufficiente però a far sballare di molto le gittate.
Decise perciò di rivedere i dati precedentemente raccolti e di rifare con molta cura “il punto”, come suol dirsi, dell’arma base, cosa fondamentale e da cui dipende praticamente il 100% del successo, operando gli opportuni correttivi topografici.
Per far ciò fu preziosa la collaborazione dello stravagante alpino goniometrista triestino Venutti.
Costui che, quando voleva, era un vero specialista, era anche un personaggio singolare e bizzarro.
Girava sempre smisuratamente sovraccarico di cavalletto, tavole geografiche, strumenti vari e binocolo, borse, fucile a tracolla, borraccia e zaino.
Mancava solo che si portasse a spalla anche il mulo.
Barba incolta e divisa un po’ sbrindellata, si atteggiava simpaticamente a guerrigliero centroamericano appena fuoriuscito dalle fila dei ‘Barbudos’ di Fidel Castro.
Durante le giornate delle prove, terminato il suo compito specifico, si godeva lo spettacolo dei tiri in lontananza piazzandosi nella piana poco fuori dell’abitato circondato dai ragazzini del paese dei quali, utilizzando la propria dotazione viveri, con gallette e cioccolato – tra l’altro ottimo! – e battute varie, si era accaparrato il tifo. Ogni tanto li incitava a gridare a squarciagola il motto del Cividale: “FUARCE CIVIDAT!”

Fatte tutte le opportune considerazioni, calcolate mentalmente le appropriate rettifiche da applicare a quanto quotato nella mappa, tramite l’addetto alle trasmissioni, comunicò al sergente Di Domenico (che dalla postazione base doveva comandare i capi squadra mortaisti, mentre i sergenti Castella e Pezzali coordinavano i rifornimenti di munizioni alle armi) le coordinate faticosamente desunte e diede l’ordine.
Al contempo spasmodicamente scrutava la roccia con il cannocchiale per individuare il punto dell’impatto e valutarne gli scostamenti dal bersaglio per mezzo delle tacche graduate incise sulle lenti, sperando di trovare riscontro della giustezza delle sue considerazioni; altrimenti avrebbe dovuto rivedere al volo il tutto.
Per somma disdetta il primo colpo non esplose, il proiettile era svanito ‘nella immensità dell’universo’!
Si trattava di un difetto della spoletta oppure era un grossolano errore di calcolo?
Non c’era il tempo per perdersi d’animo: bisognava decidere in fretta, il nemico non aspetta!
Il fatto era infatti previsto nei manuali, naturalmente per chi li conosceva.
“Cosa fai adesso, Ferrario?” chiese il Maggiore.
“Ripetere stessi dati”: bisognava giustificare ad alta voce ogni scelta agli altri ufficiali osservatori che seguivano con i loro binocoli lo svolgersi dell’azione; essi dovevano valutare e approvare o meno le stime comunicate.
Il colpo esplose a 100 metri a destra e 50 sotto il bersaglio! Praticamente era quasi già centro! Almeno così si valuta quando un proiettile da 120 mm cade a 50 metri circa dall’obiettivo.
Ma poteva anche essere un fatto casuale, episodico; occorrevano conferme (anche questo prescriveva il manuale che teorizzava la migliore procedura da rispettare, sempre per chi lo conosceva).
“Ripetere stessi dati”. Il nuovo colpo cadde nello stesso punto. Non era casuale!!! Ma non bastava.
“Che ordine dai ora?” interrogava il Maggiore, un po’ deluso.
“Devo fare forcella assiale, perciò: a sinistra 200”.
“E perché non solo di 100? Saresti già in asse risparmiando tempo”.
“In combattimento, certo. Ma in esercitazione vanno applicati tutti i possibili controlli”.
A denti stretti: “Bene”, concluse il Maggiore.
Il colpo arrivò giusto dove doveva arrivare: forcella impeccabile!
Il quasi smontato inquisitore: “Ed ora?”
“A destra 100” ed il colpo arrivò sull’asse sotto ancora 50 metri dall’obiettivo. E poi:
“Allungare 100”. Forcella longitudinale anch’essa perfetta.
In pochi minuti, dopo soli 5 tiri di aggiustamento – tra l’altro tutti da considerare centro – il sottotenente Ferrario della 115a Compagnia era già in grado di comandare direttamente ‘l’intervento di Compagnia’ accorciando di soli 50 metri l’ultimo dato. Tutti, dicasi tutti, i colpi esplosero in rapida successione nel povero boschetto.
Esame superato a pieni voti ed alla grande!
Dalla postazione delle armi nel fondovalle giungevano intanto urla di “vittoria”, “evviva” e anche qualche “vaffa…” urlate dagli addetti ai pezzi e dai comandanti d’arma, informati dal caporale trasmettitore Ottaviano (rimproverato per questo dallo scornato Maggiore: non sta bene, il nemico potrebbe individuarci…) che non aveva saputo trattenersi ed al telefono aveva ripetuto più volte quasi gridando: “Centro perfettoooo!!!”

In serata all’accampamento un gongolante tenente Ippolito sprizzava felicità e soddisfazione da ogni poro.
Sciolta ogni tensione, pienamente riscattato nell’altrui considerazione, rinfrancato nel morale e del tutto ristabilito nel fisico, con il suo consueto e informale modo di procedere radunò la sua oramai ex ‘armata Brancaleone’.
Attraverso il solito divertente e colorito eloquio, strappando più di un sorriso, spiegò e commentò  sottolineando ogni dettaglio lo svolgimento di quanto avvenuto sull’osservatorio – cioè quanto dal fondo valle non si poteva vedere direttamente ma solo intuire grazie alla ‘diretta’ telefonica di Ottaviano – non mancando poi di aggiungere un vivo apprezzamento per l’operato da manuale dei mortaisti e dei sottoufficiali che avevano così bene diretto le squadre di tiro e in particolare del suo, di nuovo vice, sottotenente Ferrario, che ringraziò per il  brillante lavoro svolto e a cui rese merito del risultato raggiunto.
L’indomani, a battaglione schierato a ranghi completi per la cerimonia di chiusura delle operazioni, arrivarono ad un leggermente impacciato Ippolito i pubblici riconoscimenti e complimenti degli ufficiali superiori e, miracolo, anche quelli del Maggiore.

La 115a Compagnia, in considerazione dei risultati raggiunti, fu successivamente scelta per una esercitazione di brigata sul monte Peralba ed anche qui i suoi mortai sbriciolarono letteralmente le tavole in legno che adagiate sopra un pendio costituivano i bersagli da colpire.
Ormai era giunta la fine di settembre e per il sottotenente Ferrario si avvicinava l’ora del congedo.
Nel mese di ottobre la 115a doveva partecipare ad un’altra esercitazione di brigata, un’altra sfida, ed il tenente Ippolito gli chiese:
“Ferrario, te la sentiresti di fermarti in servizio ancora almeno per un mese?”
“Molto lusingato, grazie, ma non ci penso nemmeno!”
Era ora di tornare a casa.




CAPITOLO 46
UN ALZABANDIERA TRAVAGLIATO


Alberto Orecchia era da poco approdato a Feltre, ufficiale di prima nomina, assegnato alla 64ma Compagnia dell'omonimo Battaglione. Una sera, girovagando alla scoperta dei locali nei dintorni, in un bar di Pedavena impattò con piacevole stupore in un suo concittadino, il sergente Caddeo Sergio, di Genova Sampierdarena, in servizio di ronda esterna. Inevitabile fu l'accenno a quelle lontane amate sponde che tanto li accomunavano.
Era al Battaglione solo da pochi giorni e già tornava a fare breccia nel suo cuore la nostalgia dei luoghi e degli affetti lasciati a malincuore per quel posto così lontano!
Ma era impossibile usufruire già di una licenza.
Sprovvisto di un veicolo in loco, per una fugace scorreria avrebbe dovuto affidarsi esclusivamente a trenini e treni. Quella distanza chilometrica da coprire in un tempo estremamente limitato era un pesante deterrente per quel suo intento. Severe sanzioni erano inoltre previste per chi si recava oltre i confini del Presidio senza autorizzazione. La riuscita indenne di quell'estenuante viaggio era dunque pura utopia! Non aveva scampo! Sergio però gli confidò di essere un esperto collaudato di quei colpi di mano e gli prospettò una sua nuova escursione fuori porta.
Aveva un Maggiolone Volkswagen verdone, ottimo cavallo di troia per sfondare quel perimetro forzato.
Quelle quattro ruote erano dunque la panacea del suo impellente nuovo tormento!
Senza esitazione accettò i rischi di quell'imprevista chance offertagli. Dopo sole due settimane, al primo sabato pomeriggio esenti entrambi dai servizi di compagnia, iniziò la toccata e fuga verso la loro amata Genova. E allora vai! Feltre, Cittadella, Padova, con Sergio che al volante fischiettava all'ossessione il motivetto della quinta sinfonia di Beethoven, sua cabala collaudata per la riuscita indenne dei raid.
Arrivati velocemente a Padova, via sul primo treno per Milano e da lì su quello per Genova. Quando il convoglio oltrepassò i Giovi sentivano già aria di casa. Finalmente sotto la Lanterna!
Ad attenderli sui binari ritrovarono le loro morose in trepidazione per quelle risicate ore da trascorrere insieme.
Proprio vero quel vecchio proverbio che recitava "Tira più un pelo di donna che una coppia di buoi"! Rientrarono a Feltre al mattino del lunedì, giusto in tempo per presenziare all'alzabandiera.

Con Sergio quale sottufficiale d'ispezione, Alberto svolse anche dei servizi di picchetto.
In particolare, in una gelida mattina di fine inverno si apprestava a quel compito, già svolto in altre occasioni, deciso a portarlo a termine senza guai, osservando a menadito le consegne sino al cambio del giorno successivo. Tante erano le incombenze che comportava.
Nella caserma Zannettelli convivevano da tempo due schieramenti, il glorioso Battaglione degli Alpini ‘Feltre’ ed il Gruppo Artiglieria da Montagna ‘Agordo’.
Da tempo un capitano di quest’ultimi, un personaggio particolarmente pedante con tutti i subalterni e mal sopportato per i suoi metodi dagli stessi suoi uomini, era solito eseguire il compito di capitano d'ispezione con un'acredine smisurata verso tutta la guardia comandata, ancor più se composta da alpini.
Già più volte si era scontrato caratterialmente anche con il collega del Battaglione ‘Feltre’, suo pari grado, ricevendone in cambio colorite rimostranze verbali.
E quella sera era di servizio!
Tutti temevano quel capitano d'ispezione che era uso fare improvvisi blitz notturni per coglierli in fallo.
Con Sergio che lo affiancava, Alberto si premurò quindi di istruire il caporale maggiore capoposto e la muta della guardia sulle consegne da osservare durante la notte.
La guardia montante alla caserma era stata assegnata agli alpini della sua stessa compagnia. Quei ragazzi facevano parte di uno scaglione da poco arrivato dal CAR piemontese della Cadore ed in quel periodo di nuovo ambientamento erano stati sottoposti ad un duro addestramento atto a farli entrare nel vivo del loro servizio di leva.
Alla sera tutti gli alpini e gli artiglieri rientrarono alla spicciolata dopo la loro libera uscita.
All'ora prestabilita Alberto fece chiudere il portone principale e richiamò il capo muta della guardia rimarcandogli le consegne.
Da allora e fino alla riapertura del mattino, Il piantone di guardia, osservando dallo spioncino chiunque si fosse presentato, aveva il compito tassativo di informarne Sergio. Quest’ultimo avrebbe poi rintracciato Alberto ovunque fosse stato in modo che potesse provvedere celermente e personalmente ad identificare il visitatore e concedergli l'eventuale ingresso in caserma.
Era ovvio che se si fosse presentato il comandante di Battaglione o un qualsiasi altro ufficiale superiore avrebbe dovuto farli entrare senza esitazione. Ma altri, senza una più che valida giustificazione, sarebbero rimasti inesorabilmente fuori.
Alberto compì i suoi giri di controllo interno alla caserma, alle armerie, alle camerate, un giro anche alle salmerie: tutto a posto.
Rientrò al corpo di guardia, ormai era tarda notte.
Accusava una leggera stanchezza e decise di buttarsi sulla branda nell'attigua saletta a lui riservata. Avrebbe dovuto riposare con un occhio solo chiuso, sdraiato completamente vestito, con gli scarponi che gli stringevano i piedi, il cappotto, il cinturone e la pistola! Accennò a chiudere gli occhi ma era impedito da quel pesante fardello.
Memore di altri servizi di picchetto passati insonni, decise di trasgredire alle consegne per concedersi una defatigante dormita. Si liberò allora della fascia azzurra, del cappotto, del cinturone e degli scarponi per abbandonarsi agiatamente, anche solo per pochi minuti, nelle braccia di Morfeo.
Finalmente lo colse un profondo sonno ristoratore.
Sapeva di essere punibile se scoperto, ma pensò di essere esente da sorprese, tutelato dalle disposizioni impartite alla guardia e confidando nella complicità di Sergio.
Invece...
Quella stessa sera gli ufficiali della sua compagnia avevano invitato a cena il loro capitano. “Beati loro – pensò Alberto - saranno a fare bisboccia ed io sono qui di servizio!”. Ma forse per gli effetti della loro abbondante libagione o per semplice goliardia quel gruppo decise di giocargli un tiro mancino, rompendogli le scatole in piena notte.
L'alpino di guardia al portone sentì bussare e aprì lo spioncino. Ma non era il temuto capitano d'ispezione! Riconobbe invece quei visi che aveva innanzi: erano gli ufficiali della sua compagnia e soprattutto c’era anche il loro capitano! Impietrito da quella presenza dimenticò la perentoria consegna e passivamente aprì la porticina a quel gruppo un po’ alticcio che invase il corpo di guardia. Sprofondato nel suo sonno ristoratore Alberto non avvertì quanto gli stava succedendo intorno. Un sottotenente attuò un malizioso scherzo a sue spese che avrebbe potuto rivelarsi oltremodo pesante: con un colpo di mano fece veloce irruzione nella sua stanza e trovatolo addormentato si appropriò furtivamente della sua fascia azzurra e della sua pistola. Con quei trofei se ne uscì dalla caserma ostentando le sue prede e osannando rumorosamente la sua vittoria.
Alberto si destò per quello schiamazzo e con immenso dissapore si accorse del furto patito.
Si rivestì velocemente.
Quel gruppetto di colleghi era fuori dal portone e l'autore di quella marachella, ebbro oltre ogni limite, indossata la fascia sugli abiti borghesi stava scorrazzando su e giù nel viale antistante la caserma inforcando il suo ciclomotore Ciao.
Era un ‘padre’ del 63° che di lì a poco si sarebbe congedato. Abitava nelle immediate vicinanze, fortunato o divinamente super raccomandato per quella insolita assegnazione logistica. Alberto uscì e cercò invano di rincorrerlo supplicandolo di restituirgli il maltolto. Presagi di nefaste sventure fecero prepotentemente breccia nella sua mente al pensiero delle successive conseguenze penali, se non fosse riuscito a recuperare quegli indispensabili accessori. Niente da fare: quello sparì nella notte ed Alberto, imprecando, rimase solo con le sue inquietudini.
Era già quasi mattina; poco dopo avrebbe dovuto presenziare all'adunata con il successivo alzabandiera ed era ancora in ambasce per quelle privazioni!
Fortunatamente un altro Sten era già arrivato di buona lena in caserma e grazie a lui, àncora di salvezza, pose fine momentanea a quell'impaccio. Gli procurò la sua fascia e si recò nell’alloggio di Alberto, una villetta nelle vicinanze della caserma, dove recuperò una pistola-giocattolo, una Jaguarmatic, precedentemente acquistata perché riproduzione molto similare della pesante Beretta di ordinanza. Con quella nella fondina e con quell'azzurro rimediato era pronto per iniziare la mattinata, pur con il martellante pensiero del recupero dell'arma sottrattagli, da riconsegnare in armeria.
Per sua fortuna la notte aveva portato consiglio a quel ladruncolo rinsavito che forse impietosito dalle sue paure decise di riconsegnargli il tutto solo all'ultimo momento, prima dell'adunata. Decadeva così il suo palesato timore di dover finire come novello Silvio Pellico a guardare i muri del carcere militare di Peschiera. Riprese il suo servizio rinfrancato: adunata, alzabandiera e successiva presentazione della forza presente in caserma all'arrivo del comandante di Battaglione.
Tutto filò liscio, anzi, quasi tutto.
Finalmente smontato dal turno, ritornò dopo qualche ora alla sua compagnia.
Il suo ‘team’ di colleghi ufficiali lo aspettava al varco in fureria pronto con gesso e lavagna a rimpinguare abbondantemente il loro 'bottigliometro'.
Cosparso il capo di cenere per l'accaduto, accettò poi l'inevitabile cazziatone del suo capitano.
Sarebbe stato inutile rimarcargli la sua partecipazione altamente condizionante a quella combriccola di buontemponi.
Quella notte agitata vissuta balordamente nell'ansia foriera di una punizione biblica servì ad Alberto da lezione e successivamente svolse sempre con la dovuta diligenza i compiti propri del suo ruolo.
“Certamente - scrive oggi Alberto - il racconto di tale malefatta non è edificante, ma penso che simili 'cappelle', forse anche peggiori, le abbiano combinate tanti di noi. Non credo che il nostro servizio militare sia stato tutto costellato da episodi da libro Cuore e allora chi è senza peccato scagli la prima pietra!
Quanto accadutomi allora sottolinea come talvolta tante persone che reputiamo 'amici' in realtà non si rivelino tali!”.





CAPITOLO 47
MISSIONE A COGNE


Aosta.
Caserma Testafochi.
Una mattina di fine febbraio il Capitano Albarosa convocò nel suo ufficio il sottotenente Giuliano Levrero per disposizioni urgenti giuntegli dal Comando di Battaglione.
Lo fece accomodare nel suo studio e gli comunicò che era stato scelto per selezionare e scortare a Cogne un gruppo di alpini, possibilmente istruttori di sci o comunque allievi maestri, in quanto nella vallata c’era bisogno di gente che preparasse adeguatamene le piste di fondo in occasione dei campionati italiani assoluti femminili e giovanili, che si sarebbero disputati nelle settimane successive.
In tutta onestà Giuliano chiarì subito al suo comandante che lui sugli sci da fondo se la cavava a mala pena, e pertanto non pensava di essere la persona più adatta.
Gli fu risposto che così era stato stabilito e che comunque il suo compito si sarebbe limitato ad accompagnare la sua squadra ed a riportarla sana e salva la sera in Caserma. Inoltre avrebbe dovuto tenere i contatti con le autorità locali; il tutto per una decina di giorni.
Giuliano saltò di gioia al solo pensiero di starsene fuori dal collegio della Testafochi per dieci intere giornate, e per di più a Cogne; finalmente poteva respirare un po' di libertà!
Si mise subito al lavoro: al Battaglione Aosta ‘soggiornavano’ molti ragazzi valdostani, ne conosceva alcuni che erano già istruttori di fondo e gli fu facile sceglierne una dozzina tra i migliori.
Giuliano sperava inoltre che quell’incarico li avrebbe dispensati dalle solite formalità di caserma, concedendo loro una più ampia autonomia, ma fu così solo in parte. In realtà, la tragica levataccia, il battaglione schierato sul piazzale, l’alzabandiera, i plotoni e le squadre incolonnate e destinate ai propri servizi, insomma, tutte le procedure del primo mattino erano rimaste inalterate!
Solo a quel punto un ACL (auto carro leggero), già pronto accanto alla porta carraia, li trasferiva a Cogne per poi ricondurli a casa la sera.
Il primo giorno, arrivarono a Cogne molto presto. Sulla piazza principale di fronte al Comune, una piccola folla li stava già aspettando. Erano le autorità del paese: sindaco, assessore, vigile, autorità della Valle, Pro Loco, Ente Parco, istruttori di fondo, responsabili delle piste. Non mancava proprio nessuno.
Furono accolti con il naturale e consueto calore bonario proprio della gente di montagna.
Dopo i convenevoli di rito ed una salutare e robusta prima colazione, i responsabili delle piste spiegarono quali fossero le incombenze da svolgere sotto la loro guida e divisero gli alpini in piccoli gruppi. Quindi si incamminarono per i vicini prati di Sant'Orso per dare inizio ai lavori, con l’accordo di rientrare a mezzogiorno per il pranzo.
Il solo Giuliano rimase nella bella piazza Emile Chanoux. Ma continuamente vigilato e scortato da qualcuno che si sentiva in dovere di offrirgli qualcosa nel solito bar di fronte al Municipio, il Café du Centre.
Non poteva assolutamente staccarsi da lì e girovagare in pace e tranquillo per il paese. In quell’assurdo eccesso di ospitalità, era sempre sotto continuo controllo, pedinato e bloccato. E d'altra parte non poteva nemmeno rifiutare l'offerta di bere qualcosa in compagnia: qualcuno avrebbe potuto offendersi!
Quella paradossale situazione si protrasse tragicamente per dieci giorni sia la mattina che il pomeriggio, tranne le poche volte in cui Giuliano doveva, necessariamente ma temporaneamente, recarsi in qualche ufficio. Ma tutti i vari uffici erano sempre nel Municipio, in altre parole troppo vicini al bar, esattamente di fronte!
A mezzogiorno i suoi alpini tornavano stanchi e con un appetito da lupi, mentre Giuliano, poco affamato per la mattinata trascorsa al bar tra caffè ed aperitivi, e per nulla affaticato, tendeva a temporeggiare.
Poi nel primo pomeriggio, dopo un più che abbondante pranzo nell’ottimo ristorante di Via Limnea Borealis, i ragazzi e l’ufficiale venivano risucchiati dalle loro ardue attività: gli alpini riprendevano a tracciare e a battere faticosamente gli anelli delle piste da fondo, mentre Giuliano continuava a sottostare alla disagevole tortura di ingurgitare controvoglia e fino alla nausea caffè, bicchierini di buon vino e stuzzichini vari.
Infine la sera, verso l'imbrunire, dopo aver salutato tutti, previo naturalmente l'ultimo giro di grappa, si tornava in caserma.
Si giunse così al decimo ed ultimo giorno. Ormai le piste per le prossime gare di fondo erano tutte tracciate: non c'era più bisogno degli alpini e del loro ufficiale.
Le autorità locali, soddisfatte per il lavoro svolto con ottima perizia dagli alpini, decisero pertanto di festeggiare i ragazzi ed il loro comandante con un allettante banchetto finale, allestito con i prodotti gastronomici locali e dove la varietà dei liquidi non era di certo inferiore a quella dei solidi!
Era quasi giunta l'ora di tornare, con l'ACL puntualmente pronto come sempre sulla piazza a fianco del municipio, quando Giuliano vide in lontananza un gruppetto vociante di suoi alpini che procedeva occupando tutta la strada. Avanzavano lentamente e a fatica come se stessero arrampicandosi su qualche erto sentiero, con fare ciondolante e scomposto.
Alcuni erano sbronzi al punto giusto, ma Giuliano non se ne preoccupò più di tanto: quella festa di ringraziamento era stata organizzata per loro, che avevano lavorato con serietà ed impegno per tutto il periodo. Quel piccolo premio se l’erano ampiamente meritato ed un po’ di baldoria fuori ordinanza poteva anche essere concessa!
Al termine dei festeggiamenti le autorità ringraziarono calorosamente il gruppo dei militari, oltre a riempirli di una serie infinita di gadget a ricordo dell’evento che si sarebbe svolto nei giorni successivi.
Immancabilmente, conclusero il pomeriggio con un’ultima impegnativa bevuta!

Non fu facile far salire l’intera squadriglia sul cassone posteriore dell’ACL.
I più sbronzi vennero caricati a peso come sacchi di cemento, mentre gli altri, gli alticci, riuscirono a fatica a guadagnare il loro posto. Per fortuna, l’unica persona dell’allegra brigata che si era mantenuta sobria risultava essere l’autista!

Dall'abitacolo di guida, dove sedeva anche Giuliano, si sentiva cantare, vociare, ridere e pareva che tutto procedesse normalmente. Finalmente arrivarono sul piazzale della Testafochi.
Con il freddo la combriccola era quasi del tutto rinsavita e su di morale ed i fumi dell'alcool si erano pressoché dispersi, come evaporati lungo la strada del ritorno.
“Come va? Tutto bene?”, domandò l’ufficiale ai ragazzi mentre scendevano dal cassone dell’autocarro.
I più sobri, avvicinandosi, gli riferirono ridacchiando che molti di loro avevano abbondantemente 'innaffiato' gran parte dei venticinque chilometri che separavano Cogne da Aosta, ma che al momento erano ritornati tutti in perfetta forma.
Giuliano li guardò ad uno ad uno, sorrise loro con fare paterno e li salutò regalando ad ogni ragazzo una affettuosa pacca sulla spalla.
Quella particolare vacanza di lavoro era purtroppo giunta al termine.
Dall’indomani sarebbe ricominciata la ben più faticosa vita di caserma.




CAPITOLO 48
IL CAPITANO ALBAROSA


Giuliano Levrero e Mario Lorenzi comandavano due plotoni di assaltatori alla 42^ Compagnia del Battaglione Aosta alla Caserma Testafochi.
Il Capitano Francesco Albarosa era a capo dell’intera compagnia, mentre addetto alla contabilità era il Maresciallo Capo Giancarlo Zampa.
Negli ultimi mesi di servizio Giuliano divenne comandante ad interim della Compagnia in quanto il Capitano, Lorenzi ed altri ufficiali furono aggregati al ‘Susa’, nel Battaglione Logistico, in partenza per la Norvegia, sede delle manovre della NATO.
Con Giuliano erano rimasti due sottotenenti ‘figli’: Traversone del 65° e Vissà del 66°.
Poco dopo la Compagnia fu destinata a trasformarsi in “Compagnia Sperimentale Addestramento Reclute”, per cui il Comandante di Battaglione in carica, il Ten. Col. Piero Monsutti, diede tutta una serie di nuove consegne al sottotenente Levrero.
I nuovi compiti erano molteplici: riordinare e rinnovare tutti gli ambienti della Compagnia per ospitare i 'borghesi' che sarebbero giunti in 'collegio', selezionare un numero preciso di alpini al fine di tenere loro il corso per la nomina a caporale, aggregare il resto della sua Compagnia (cosa molto ingrata perché, tra l'altro, erano 'i vecchi') alle altre quattro al fine di 'liberare' le camerate e poter eseguire i lavori.
Radunati tutti gli alpini sul piazzale, non fu facile per Giuliano dar loro la 'bella' notizia.
In quel periodo poi giunsero al Battaglione anche gli ACS divenuti sergenti: tra questi c’erano Michele Candiani e Fabrizio Legrenzi, due bravi ed intelligenti ragazzi con cui fu facile stringere una buona amicizia.
Finiti i lavori previsti in tempo utile, iniziarono ad arrivare le nuove reclute.
Per Giuliano Levrero, intanto, era finalmente giunto il momento di lasciare la caserma Testafochi 'per terminato servizio di prima nomina'.
Passò le consegne al collega ‘figlio’ Guido Traversone.
ll Capitano Albarosa, infatti, non era ancora rientrato dalla Norvegia.
Per Giuliano era ‘FINITA!”.
Era il 30 settembre del 1972.

Tornò a casa, a Torino, dai genitori e continuò a frequentare Franco Garabello, un collega della Testafochi che abitava non molto distante da lui e che era stato a capo del Plotone ‘Comando e Servizi’ della 42^.
Ogni tanto trascorrevano qualche ora passeggiando per Torino, ricordando qualche aneddoto o particolare di quel bel periodo passato insieme l'anno precedente.
Un giorno di maggio del 1973 decisero di tornare ad Aosta per rivivere l'atmosfera della loro vecchia caserma e salutare il loro Capitano, gli Ufficiali rimasti e qualche altro amico.
Franco prese l'iniziativa e telefonò in caserma per concordare il giorno adatto per il pranzo al Circolo; il capitano Albarosa, che era 'Capo Calotta', ne fu molto contento e tutto fu organizzato.
Qualche giorno prima di partire, era il 16 di maggio 1973, appena uscito di casa Giuliano incontrò suo padre che, scuro in volto, gli disse: “Leggi cos'è successo”, e gli porse ‘La Gazzetta del Popolo’.
Giuliano aprì il quotidiano: “Elicottero cade ad Aosta: bruciati vivi sette militari. La sciagura causata dall'improvviso arresto del turbomotore”. Seguiva un lungo articolo. Giuliano non lo lesse, ma andò subito a cercare la pagina dedicata alla Valle: “La Valle in lutto per i suoi soldati. I sette militari morti carbonizzati nell'elicottero precipitato a Pollein”.
Si sentì girare la testa.
Sotto al titolo, erano pubblicate le fotografie: il Capitano pilota Elia, il Tenente copilota Arata, il Sergente Candiani, il Sergente Maggiore meccanico Galliano, il Sergente Legrenzi, il Maresciallo Capo Zampa, il Capitano Albarosa. Ancora sotto, la foto di ciò che rimaneva dell'elicottero: un troncone di coda.
Giuliano rimase impietrito.
Sconvolto cercò subito Franco che era già al corrente. Contattarono quei pochi di cui avevano il recapito e telefonarono in caserma per avere notizie più precise riguardo alle esequie.
I feretri avvolti nel tricolore furono allineati nella cappella del Castello General Cantore e vegliati da due militari del Battaglione e da due allievi della Scuola.
Giovedì, 17 maggio 1973, Franco e Giuliano presenziarono al corteo funebre ed alla messa in Cattedrale: fu straziante.
Abbracciarono la vedova del Maresciallo Zampa e la giovane moglie del loro Capitano Albarosa: la donna li accolse con ammirevole e tragica compostezza.

Giuliano conosceva già la Signora Francesca: una persona minuta, sensibile e mite, di solidi valori e di grande forza d’animo. Conosceva anche i tre piccolini: Umberto, Stefano e Gabriele.
Il Capitano Albarosa aveva trentadue anni, cinque più di lui.
Era un uomo tranquillo, molto obbiettivo, pratico e di grande buon senso.
Non lo aveva mai visto perdere la pazienza: le eventuali disattenzioni, mancanze o altro erano sempre gestite intelligentemente e con fermezza, senza alterigia o presunzione, facendo capire ai subalterni dove si era sbagliato. Non assegnava punizioni.
Il Maresciallo Capo Zampa, di quarant'anni, aveva anch'egli tre bambini. Era un ottimo Sottufficiale molto competente nell'amministrazione della Compagnia, attento e attivo; era anche istruttore di sci e campione militare di tennis.
Il Sergente Legrenzi, di ventisei anni, era perito tessile ed avrebbe terminato il servizio a giugno.
Il Sergente Candiani aveva ventitré anni, studiava medicina a Pavia e sarebbe tornato a casa a luglio.

Usciti dalla Chiesa, i due amici salutarono tutti gli Ufficiali e Sottufficiali di loro vecchia conoscenza e si fermarono a parlare con il Maresciallo Usai, Comandante del Minuto Mantenimento di Battaglione.
Usai era stato tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro ed insistette per accompagnare i due ragazzi a Pollein, nel posto in cui era avvenuto l’incidente.
La zona era transennata e piantonata. Era rimasto solo un piccolo troncone di coda. Tutto il resto era bruciato o carbonizzato dall'enorme quantità di cherosene.
Il Maresciallo Usai raccontò loro l'evolversi della tragedia, come era stato successivamente chiarito dagli addetti dell'aeroporto di Aosta che seguirono via radio l'elicottero.
I sette tornavano da una ricognizione nel Vallone di Orgere, dove nei giorni successivi avrebbero dovuto svolgersi alcune esercitazioni.
L'elicottero, come previsto dal piano di volo e senza alcun problema, costeggiava i monti sulla via del rientro alla base. Poco prima di virare per raggiungere l'eliporto ormai vicino, il turboreattore improvvisamente si bloccò. Il pilota tentò allora l'autorotazione per attutire la caduta, ma le pale si stavano lentamente fermando mentre il velivolo scendeva inesorabilmente di quota: erano oramai molto bassi. Si trovarono di fronte i cavi dell'alta tensione e poco oltre due case. Il pilota fu allora costretto ad inclinare l'elicottero per oltrepassare i due ostacoli.  La manovra riuscì ma il mezzo si impennò precipitando. Impattò con la coda sul campo coltivato in leggera discesa, si rovesciò ed esplose istantaneamente, mentre il cherosene continuava ad alimentare le fiamme.
Per l'equipaggio non c'era più scampo: i soccorritori trovarono i resti carbonizzati ancora imbrigliati alle cinghie di sicurezza.

Di quella straziante tragedia, Giuliano conserva due toccanti ricordi.
La moglie del Maresciallo Zampa gli mandò un pensiero di ringraziamento con la foto del marito.
La moglie del Comandante Albarosa gli inviò un pieghevole con una foto che riprendeva la bella famiglia felice in campagna.
All'interno aveva inserito un foglio piegato in quattro con una preghiera che le aveva lasciato il marito:





CAPITOLO 49
GLI ALPINI VANNO AL MARE


Alla caserma Vian di San Rocco Castagnaretta il sottotenente Piergiorgio Marguerettaz continuava a svolgere il suo compito di addestratore di nuove reclute con la massima diligenza. Del resto era veramente impegnativo trasformare giovani borghesi, spesso insofferenti alla vita militare della leva obbligatoria, in efficienti soldati e per di più con un plotone costituito da ottanta ragazzi, un numero molto più elevato di alpini rispetto al consueto standard dei reparti.
Successivamente, al termine del periodo di addestramento, gli alpini venivano inviati ai battaglioni cui erano destinati. Soltanto una sessantina di loro veniva invece trattenuta in forza al ‘Doi’ per svolgere, al termine di un tirocinio della durata di due mesi, il compito di Caporale Istruttore delle nuove reclute.
Insieme ad altri colleghi anche Piergiorgio fu comandato alla caserma Cesare Battisti, sede del corso, per partecipare in qualità di istruttore allo svolgimento dello stesso, il cui responsabile era il cap. Camusso della compagnia Trento.                                                                  
Questo periodo di formazione ebbe inizio ai primi di aprile 1972.
Verso fine mese venne comunicato che, a seguito dello svolgimento delle Elezioni Politiche anticipate, il plotone degli allievi caporali era stato comandato per il servizio di guardia ai seggi elettorali, con destinazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia.
Fu così che venerdì 5 maggio 1972, di buon mattino, il corso caporali al gran completo partì dalla stazione ferroviaria di Cuneo.
Questo drappello annoverava anche un discreto numero di altoatesini di lingua tedesca, con buona conoscenza dell'italiano, allo scopo di avere dei graduati istruttori in grado di fare da interpreti nei confronti delle reclute che dicevano di non conoscere l'italiano o che, ed erano sempre numerose, faticavano a farsi capire. Naturalmente costoro non erano molto contenti di essere stati trattenuti in Piemonte per tutta la durata del servizio militare al contrario dei loro compaesani ritornati in alto Adige e manifestavano questo malessere con mugugni continui.
Tra questi spiccava l'alpino Pfeifer.
Il ragazzo per sottolineare il suo malumore per essere stato trattenuto nel cuneese si era chiuso a riccio. Partecipava a tutte le attività in maniera critica e scontrosa e a nulla servivano i vari tentativi degli istruttori per sciogliere questa corazza.
Sarà stato anche per l'atmosfera allegra e goliardica che si respirava negli scompartimenti, nei quali, grazie anche alla bonaria tolleranza del cap. Camusso, si era instaurata una complicità alpina, fatto sta che ad un certo punto Pfeifer si sciolse e cominciò parlare, a scherzare e a ridere con tutti.
Poi, abbassato il finestrino dalla parte del vagone rivolta verso il litorale, sporgendosi con mezzo busto fuori, decise di informare il mondo, con il suo marcato accento tedesco, che ‘gli alpini andavano al mare’.
Finalmente si era aperto: era la prima volta che vedeva il mare.  Sicuramente il paesaggio e lo iodio della Liguria gli stavano dando una mano.
Durante il viaggio poi il Capitano informò la truppa che quella sera avrebbero alloggiato presso la caserma Pietro Crespi, sede del 89° reggimento Fanteria Salerno. I primi commenti nei confronti dei ‘buffaioli’ (simpatico termine con cui veniva identificata la fanteria ‘generica’) furono sostanzialmente ironici e subito dopo si manifestò un coeso spirito di corpo sotto forma di voglia di far vedere ai commilitoni di Imperia di quale pasta fosse fatto il corpo speciale della fanteria alpina.
Detto fatto: il tragitto dalla stazione fino alla caserma fu percorso in perfetto inquadramento e comprese, su richiesta degli stessi allievi, ulteriori tre giri del grande cortile interno, come si fosse alla parata del 2 giugno ai fori imperiali.
E la sera, al circolo ufficiali, il capitano Camusso sprizzava gioia da ogni dove quando, oltre ai convenevoli di rito, ricevette i complimenti del colonnello comandante la caserma, che disse testualmente: “Quando questi battono il passo sembra un colpo di mortaio!”

Il mattino successivo gli alpini furono destinati ai seggi elettorali.
Il sottotenente Piergiorgio Marguerettaz, con una trentina di ragazzi, fu inviato a Borgomaro, piccolo centro sul torrente Maro nella prima parte della valle Impero. Il comune, di 900 abitanti, comprendeva 7 frazioni dislocate su altrettante alture, distanti tra loro poche centinaia di metri in linea d'aria ma corrispondenti a diversi chilometri di strada, a volte anche molto tortuosa. Impiegarono quindi tutta la giornata tra il trasferimento da Imperia e il dislocamento degli alpini ai seggi, in comune e nelle frazioni, ognuna delle quali aveva un suo seggio elettorale.
Finalmente, sistemati tutti i suoi soldati, Piergiorgio fu accolto dal sindaco che lo accompagnò presso la caserma dei carabinieri dove avrebbe alloggiato per il periodo di permanenza a Borgomaro. Ebbe così modo di sapere che quello era un comune a prevalente reclutamento alpino, sede di gruppo ANA, e che pertanto erano tutti molto onorati della loro presenza.
Inutile dire che durante i 4 giorni di permanenza Piergiorgio fu coccolato da tutto il paese. Stomaco e fegato furono messi a dura prova, perennemente sotto stress visto che ogni occasione era buona per ‘offrire amicizia’ al sig. tenente sotto forma di cibi e bevande.
La sera di lunedì 8 maggio1972, terminati gli scrutini, tutti gli alpini furono alloggiati per la notte presso la scuola materna in un'aula appositamente predisposta.
Ma quella notte nessuno dormì.
Complice infatti il gruppo alpini di Borgomaro, venne organizzata una grande festa: vi partecipò buona parte del paese, si gustarono numerose specialità della cucina locale, annaffiata da ottimi vini, si fraternizzò con gli abitanti, ragazze comprese, il tutto allietato da canti musica e balli.
Il mattino del 9 maggio, martedì, al momento dei saluti, poiché Borgomaro era il regno dell'olio extravergine dell'oliva taggiasca, tutti i ragazzi furono omaggiati di una prelibata bottiglia.
Fu così che, con gli occhi ancora gonfi per il sonno arretrato e con l'animo pieno di gioia e riconoscenza per l'affetto e l'amicizia dimostrati nei loro confronti, i giovani alpini lasciarono un po' a malincuore quell’ospitale borgo dell'entroterra ligure.
      
     
      
    
CAPITOLO 50
UN GIRO SULLA GIOSTRA


Lo Sten. Enrico Casalegno era un ragazzo buono come il pane. La prima domenica dopo l'arrivo delle reclute, toccò a lui svolgere il servizio di ufficiale di picchetto al CAR di Bra.
Non essendo ancora in grado di distinguere i gradi dei superiori, agli alpini in erba venne negata la libera uscita. Di questa restrizione essi si dolsero perché, in quel giorno festivo, avrebbero voluto girovagare in Langa e Monferrato, sulle colline che in seguito l'Unesco avrebbe dichiarato ‘Patrimonio dell'Umanità’.
Per vincere la noia in quel caldo pomeriggio, alcuni militari si sedettero all'ombra dei platani con un libro in mano, altri accesero la radiolina per ascoltare ‘Tutto il calcio minuto per minuto’, i più si ritrovarono a cazzeggiare. 
Enrico Casalegno, dopo una pennichella consumata sulla brandina della stanza riservata all'ufficiale di picchetto, uscì in cortile per sgranchirsi le gambe. Poi imboccò lo scalone che conduceva alle camerate e, in fondo ad un corridoio, vide alcune reclute che si intrattenevano in ordine sparso.
Si avvicinò, erano una decina. In quell'istante da una camerata uscì un giovane alpino che con movimenti goffi si allacciò la cintura dei pantaloni.
“Tenente, se vuole fare un giro sulla giostra, per lei è gratis”, disse il più furbo della compagnia nel tentativo di limitare i danni.
Enrico irruppe all'interno della camerata e su di un letto vide una giovane donna nuda, in posizione supina, le gambe leggermente divaricate. Con sguardo furtivo ne notò il seno turgido e le cosce ben tornite.
“Che cazzo ci fai qui?” sbottò.
La prostituta si coprì il seno con le mani, rannicchiò le gambe per nascondere la vulva e guardò di sottecchi quell'ufficiale alto quasi due metri, con le spalle larghe e i baffi minacciosi.
“Hai cinque minuti per sparire”, urlò l'ufficiale alla sgualdrina che aveva i capelli neri e arruffati come i corvi d'inverno e la pelle bianca e luminosa come la luna d'estate.
Poi uscì dalla camerata e ordinò ad un caporale di inquadrare sugli attenti, nel cortile della caserma, quegli incoscienti che tanto avevano osato per soddisfare le loro pulsioni giovanili.
Dopo dieci minuti tornò sul luogo del delitto, della prostituta non vi era traccia. Andò alla porta carraia, si trattenne al Circolo Ufficiali e con comodo ritornò sul piazzale della caserma per guardare negli occhi quegli scriteriati.
Il sole ardeva in un cielo senza nubi e le giovani reclute, non ancora temprate alla vita militare, avevano i visi paonazzi e gli occhi che imploravano pietà. Essendo sugli attenti, non potevano muovere neppure la punta del naso. Gocce di sudore scivolavano dalle fronti alle gote prima di cadere sull'asfalto rovente e svanire nell'aria.
Il gigante buono squadrò uno a uno quegli scapestrati e, mosso da compassione, ordinò al caporale di porre fine alla punizione.
Poi si avvicinò all'alpino che gli aveva offerto il giro gratis sulla giostra.
“Qual'era la tariffa?” gli chiese sornione.
“500 lire a testa, una diaria” disse il furbetto.
“E com'è entrata in caserma?” aggiunse l'ufficiale.
“Dal portone principale, mentre lei faceva la pennichella!” fu la risposta che mise fine alla conversazione.




 CAPITOLO 51
IL RENITENTE ALLA LEVA


“Rifiuto il servizio militare!” furono le parole proferite da un giovane di leva allo Sten. Luciano Ivaldi. Si capiva da lontano che quel ragazzo era allergico alla polvere da sparo. Aveva capelli lunghi, barba incolta e occhialini tondi con una sottile montatura metallica. 
L'ufficiale gli disse che, per il codice penale militare, i renitenti alla leva erano equiparati ai disertori e condannati con la reclusione di almeno tre anni, da scontare nel carcere di Peschiera.
Il ribelle rispose che con il codice militare si sarebbe pulito il culo. Poi iniziò ad inveire contro il governo, i giornali e la TV (c'era solo la Rai). Al diavolo finirono anche banche e multinazionali, ce l'aveva con il mondo intero. Troppa marijuana?  Chissà?
Per sancire la renitenza alla leva, la procedura prevedeva che, in presenza di due testimoni, l'ufficiale intimasse alla recluta di imbracciare un'arma, nella fattispecie il Garand M1. In caso di rifiuto, il regolamento prescriveva che l'ordine venisse intimato altre due volte e, al terzo diniego, che il ribelle fosse consegnato ai carabinieri.
Il ragazzo si oppose due volte all'ordine e lo Sten. Ivaldi decise di rimandare all'indomani il terzo tentativo. Se si fosse trattato di stupefacenti, smaltiti gli effetti allucinogeni, forse il giovane avrebbe cambiato idea. In un caso precedente la ricetta aveva funzionato.
L'obiettore venne accompagnato in CPR, che per i non addetti ai lavori significa Cella di Punizione di Rigore.
L'indomani mattina l'ufficiale andò dal ragazzo, che trovò sdraiato sul tavolato di legno che fungeva da letto in quella camera disadorna. Si avvicinò abbozzando un sorriso e gli chiese di raccontargli qualcosa della sua vita.
Il giovane, con uno sbuffo d'insofferenza, disse di essere uno studente e di far parte di un collettivo autogestito. Era in disaccordo con i genitori, troppo benpensanti e conformisti.
Ribadì di essere contrario al servizio militare (erano i tempi della guerra del Vietnam).
L'ufficiale abbozzò: “gli alpini non sono fomentatori di guerre, soccorrono chi è in disgrazia, i terremotati, gli alluvionati...”.
Non riuscì a terminare la frase. Il ribelle si alzò di scatto e urlò di farla finita con quella predica da oratorio. A suo dire, tutti i militari erano guerrafondai e tutti quanti leccavano il culo agli USA. Che lo mettessimo in galera, avrebbe sputato in faccia ai secondini.
Aveva il sangue agli occhi e ansimava come una belva ferita.
In presenza di due testimoni, Luciano Ivaldi certificò il terzo e definitivo rifiuto, poi uscì in cortile per respirare l'aria fresca del mattino. La sua laurea in Economia e Commercio non gli consentì di risolvere quel caso che esulava dai manuali di gestione societaria.
Ma mai avrebbe immaginato che, alcuni anni dopo, economisti e dirigenti di società pubbliche e private sarebbero diventati uno dei bersagli più colpiti dalle Brigate Rosse.
Il ragazzo ribelle, dopo aver rifiutato il servizio militare, dopo aver scontato almeno tre anni di carcere, si era forse arruolato come volontario in quel gruppo eversivo?

Negli anni di piombo i capi delle Brigate Rosse rivendicarono l'assassinio di molte persone. Tra queste:
Vittorio Bachelet (professore)
Massimo D'Antona (dirigente)
Aldo Moro (politico)
Ezio Tarantelli (economista)
Girolamo Tartaglione (magistrato)
Walter Tobagi (giornalista)
Guido Rossa (sindacalista)




CAPITOLO 52
MAL DI NAIA


Il CAR di Cuneo, un mondo nuovo, racchiuso dietro un muro, dove ragazzi di vent'anni entravano portando i loro problemi, spesso sottovalutati, una realtà di vita che avrebbe dovuto contribuire a trasformarli in uomini, un aiuto educativo complementare alla formazione del cittadino e del buon padre di famiglia, pilastro della nuova società.
Era arrivato al CAR di Cuneo con il primo contingente reclute 72'. Una persona educatissima, sensibilissima, si capiva subito che aveva avuto una educazione superiore.
Proveniva da una famiglia benestante di floricoltori della riviera ligure, un bel ragazzo, serio e motivato.
C'era però nel suo sguardo un qualcosa di inquietante, insieme con una profonda tristezza, un male di vivere, vi si leggeva una tacita richiesta di aiuto. Certe cose spesso venivano sottovalutate, anzi si diceva che la naia faceva bene e così era stato probabilmente l'unanime giudizio della commissione di leva, quando lo avevano assegnato alle truppe alpine.
Ad onor del vero lui stesso non aveva mai voluto sottrarsi ai suoi doveri di uomo e di cittadino, lui stesso era convinto che la naia gli avrebbe fatto bene, avrebbe risolto se non tutti almeno parte dei suoi problemi e ce ne volle a convincerlo, ultimati i mesi del primo ciclo di addestramento, ad accettare un impiego in fureria.
Cercavano tutti di metterlo a suo agio, dai commilitoni al comandante di squadra, a quello di plotone, fino al comandante di Compagnia, degnissima figura di ufficiale e di buon padre di famiglia.
I suoi genitori, convocati a colloquio ci descrissero brevemente i problemi del loro ragazzo; essi avevano sempre cercato e cercavano di spianargli la strada in ogni modo, ben consci della lotta interiore che questo giovane stava vivendo.
Aveva una bella automobile parcheggiata innanzi la Caserma, gli avevano affittato un piccolo appartamento in città per trascorrere serenamente i momenti di libera uscita, ma sembrava esserci qualcosa che lo tormentava all'interno.
Spesso il sottotenente Sandro Bazurro si intratteneva con lui a parlare dei suoi interessi, della vita militare che asseriva essere per lui era uno sfogo, un impegno che lo distraeva dai suoi pensieri, un toccasana per la sua fragilità, per la sua solitudine e la sua incertezza di vita, i suoi sensi di colpa. Il giovane ufficiale, nel suo piccolo, cercava di fornirgli le risorse necessarie a completare le sue, nei momenti di maggiore necessità.
Scrupoloso nel suo lavoro, improvvisamente si abbatteva, e Sandro doveva improvvisarsi psicologo, pur essendo impreparato ad un compito così gravoso.
E tantomeno quel ragazzo voleva essere considerato un malato, anzi guai a parlare di ospedale militare, l'unica via verso il congedo anticipato.
Comunque tutto proseguiva tra alti e bassi, di pari passo con le esercitazioni delle reclute al greto Gesso, il torrente che scorre in fregio alla città, ove la CAM Tridentina e le altre Compagnie del Battaglione effettuavano le loro esercitazioni,  mettendo in atto i vari passi del gatto, del gattino, il percorso di guerra, l'addestramento formale per il giuramento, l'istruzione basilare propedeutica al lancio della bomba a mano, ovvero insegnare a lanciare pietre nel rio, scoprendo con orrore che qualcuno dei ragazzi non aveva mai lanciato pietre, nemmeno nell'acqua. Immaginiamoci poi lanciare la bomba a mano SRCM, cose dell'altro mondo, da inorridire.
Fu proprio dal ritorno da una delle suddette esercitazioni sul fare del mezzogiorno, una bella giornata di sole, di quelle che ti fanno sentire in grado di conquistare il mondo, che entrati in Caserma, dalla porta carraia, ed arrivati nei pressi della CAM Tridentina, videro un capannello di persone, in atteggiamento inequivocabile.
La prima cosa che venne in mente a Sandro Bazurro fu proprio quella, terribile, che popolava i suoi incubi. Quel caro ragazzo, quell'alpino, quell'essere che stava combattendo la più tremenda delle battaglie, aveva posto fine al suo male di vivere, così semplicemente, scavalcando il davanzale della fureria, e senza un attimo di ripensamento giù a capofitto fino ad incontrare l'asfalto del cortile antistante il suo Reparto, senza un grido.
La tragedia determinò una pena tremenda, dall'ultimo degli alpini alle più alte sfere della gerarchia militare.
Alla base c'era il fallimento di tutto ciò in cui fermamente si continuava a credere: un po' di naia fa bene a tutti e guarisce tutti i mali.
Invece lo Stato aveva fallito, non aveva saputo proteggere uno dei suoi ragazzi che gli erano stati affidati, non aveva saputo aiutarlo a guarire dal suo male e quel gesto estremo che il poveretto aveva voluto si concretizzasse proprio nella sua Compagnia, nella sua Caserma, stava a testimoniarlo, era l'ultimo suo silenzioso rimprovero al sistema.





CAPITOLO 53
LA TRADOTTA


Il Secondo Reggimento Alpini, CAR, venne costituito il primo luglio 1963 e successivamente inquadrato nella Brigata Alpina Taurinense, con sede e Comando a Cuneo. Lo stesso CAR verrà sciolto, a seguito della ristrutturazione dell'Esercito, il 31 ottobre 1974.
Era composto dai Battaglioni Cadore, Orobica, Tridentina e Taurinense.
Operativamente venne suddiviso tra le Caserme Cesare Battisti di Cuneo con il Comando Reggimento, la Giovanni Cerutti di Boves sede dei reparti della Cadore, la Caserma Raffaele Trevisan di Bra, la Caserma Giuseppe Galliano di Ceva, con la Compagnia Pieve di Cadore, la Caserma Giuseppe Galliano di Mondovì Piazza, la Caserma Ignazio Vian di San Rocco Castagnaretta (CN), con i reparti dell'Orobica, la Caserma Trossarelli di Savigliano con i reparti dell'artiglieria da montagna Taurinense.
Nella caserma Cesare Battisti di Cuneo oltre il Comando di Reggimento, c'erano le Compagnie Trento, Bolzano, Bassano e CAM (Compagnia Artiglieri da Montagna) Tridentina.
Al termine del ciclo di addestramento di circa due mesi e mezzo, le reclute venivano accompagnate ai vari Reggimenti di destinazione, solo una piccola aliquota restava al Secondo Reggimento, per il cosiddetto CAR avanzato. Alcuni di costoro, tra i più motivati, potevano aspirare a diventare caporali istruttori e passare così nel Quadro Permanente del CAR.
Al suo arrivo al Reggimento di destinazione, il “doi” di Cuneo, (il suo motto: “Vigilantes”), l'11 di gennaio del 1972, Sandro Bazurro venne assegnato alla Compagnia Artiglieri da Montagna Tridentina, ed il primo contingente reclute iniziò ad affluire in Caserma il 18 gennaio seguente.
Al suo plotone, il quarto, vennero assegnate 88 reclute, non so come fosse per gli altri giovani tenentini, ma a lui sembravano un numero enorme; questa bellissima prima esperienza da istruttore era destinata a terminare con il finire del primo ciclo di addestramento, e quindi l'invio ai Reparti di destinazione.
La CAM Tridentina preparava la maggior parte degli alpini per il gruppo Asiago della Brigata Tridentina, con sede a Dobbiaco (Toblach), Caserma Piave, ma ne ‘perdevano’ molti durante il percorso, destinati in altre caserme, a Bressanone e Brunico ad esempio. Anche il collega Maurizio Moro, sottotenente della Compagnia Trento, era stato assegnato alla formazione delle nuove reclute, poi destinate a Monguelfo (Welsberg), Dobbiaco, San Candido (Innichen).
La partenza per i Reparti di destinazione, tra una concitazione incredibile, avveniva solitamente di sera, in quanto considerato il percorso da effettuare e la velocità della ‘Tradotta’, si viaggiava tutta la notte, per giungere all'alba ai primi punti di smistamento.
Il percorso della tradotta era a grandi linee il seguente: partenza da Cuneo alla stazione di Cuneo Altipiano, poi Fossano, Savigliano, Torino, Milano, Brescia, Verona, dove venivano staccati i locomotori elettrici e venivano attaccate due locomotive a vapore e poi via sbuffando, verso Trento, Bolzano (Bozen), Bressanone (Brixen), Fortezza (Franzensfeste), con deviazione a Vipiteno (Sterzing), oppure verso Brunico (Bruneck), Monguelfo (Welsberg), Dobbiaco (Toblach), ed infine capolinea a San Candido (Innichen). 
La partenza, dunque: dopo un affrettato rancio, tutti inquadrati, gli alpini si avviavano verso la stazione di Cuneo, carichi oltremisura con zaini, borsa valigia, borsa da viaggio ed a volte qualche pacchetto ben nascosto o tollerato di generi di conforto, che non avevano trovato spazio nel corredo di ordinanza.
Un vociare incredibile caratterizzava la partenza, incontenibile ed inarrestabile nonostante gli sforzi degli addetti all'accompagnamento. Ben presto questo vociare si sarebbe affievolito, complice la notte da passare seduti sulle dure panchine di legno dei vagoni, fino a scemare naturalmente ed inesorabilmente alla vista dei luoghi ove i giovani alpini avrebbero trascorso lunghi, lunghissimi mesi di naia vera, complice anche il comparire della stazione di destinazione lungo la cui banchina si potevano scorgere i ‘vecchi’ dal cappello abbuferato e lo sguardo truce che li attendevano, per accompagnarli ai nuovi Reparti.
Praticamente la ‘Tradotta’ effettuava solo scali tecnici, durante i quali nessuno poteva scendere o salire dai vagoni: non era difficile quindi immaginare quanto succedesse all'interno, in quel lasso di tempo di almeno tredici e più ore di viaggio.
Gli ufficiali addetti all'accompagnamento viaggiavano in prima classe sulle vecchie panchine rivestite di velluto, in uso fino alla fine degli anni ottanta, che comunque erano scomodissime e sembravano fatte apposta per tenere svegli.
A tarda sera, mentre si stava faticosamente appisolando, Sandro Bazurro venne chiamato da un caporale del suo plotone per un problema che si era presentato; si alzò insonnolito e si recò nello scompartimento assegnato al reparto, per vedere di che cosa si trattasse. In realtà un gruppetto di toscani, peraltro recidivi, avevano riempito due gavette di cipolla finemente tritata con l'aggiunta di tonno e fagioli, il tutto condito con abbondanza di sale ed olio e lo invitarono a dividere con loro quella che chiamarono ‘l'ultima cena’.
Ovviamente non poteva mancare il vino e fu così che dopo una solenne mangiata di quell'insano intruglio e parecchi brindisi, Sandro ritornò barcollante al suo scompartimento, con un incedere incerto e scomposto dovuto esclusivamente al percorso tortuoso del treno. Si sedette senza fare il minimo rumore, badando a non svegliare nessuno. Poi, per fortuna, il treno era pieno di rumori, cigolii, sferragliamenti, e casualmente si trovavano pure vicino al servizio igienico
Ad una certa ora della notte, era ancora buio, uno dei colleghi che divideva lo scompartimento con Sandro, bofonchiando, spalancò la porta inveendo contro la scarsa pulizia dei vagoni ferroviari, causa dell'olezzo di cipolla che indubbiamente proveniva dai consunti rivestimenti delle panchine e dal locale igienico attiguo. Bazurro, ovviamente, finse di continuare a dormire, cercando di reprimere i sordi rumori che inesorabilmente salivano e scendevano dal suo povero stomaco!
A parte questo piccolo inciso, tutto funzionò a meraviglia e la tradotta all'alba giunse verso le prime stazioni di destinazione.
Gli alpini via via scendevano a piccoli gruppi, guardandosi attorno spaesati, spesso alzando gli occhi verso le montagne innevate, avviandosi a piedi inquadrati o salendo rapidamente sui camion che li attendevano, non senza volgere un ultimo sguardo verso i loro compagni che forse non avrebbero mai più rivisti.
Arrivarono infine a Dobbiaco, la destinazione di Sandro: la tradotta avrebbe poi proseguito per il capolinea, San Candido. Era il 27 Marzo dell'anno 1972.

A Dobbiaco, alla Caserma Piave sede del Gruppo Asiago, il cui motto “Tasi e Tira” la diceva lunga sulla gloriosa storia di quegli artiglieri, la consegna delle reclute al Reparto avvenne con le poche formalità di rito.
Il Comandante consegnò a Sandro il foglio di ritorno con la data in bianco e gli disse: “Tenente, se desidera farci compagnia per altri due giorni è il benvenuto, ma penso che come tanti suoi colleghi non vedrà l'ora di rivedere i suoi cari: si regoli Lei di conseguenza”.
Ovviamente Sandro corse a prendere il primo treno per il ritorno, era circa mezzogiorno, giusto il tempo per ingerire un panino e scrivere due cartoline.

Il sottotenente Maurizio Moro scese invece a San Candido.
Alla stazione li aspettava un ‘vecchio’ caporale con l’immancabile cappello abbuferato su una capigliatura ed una barba decisamente fuori ordinanza: volutamente o naturalmente faceva paura solo a vedersi.
Uno dei più coraggiosi giovani alpini guardando i monti innevati, ostentando baldanzosa ancorché prudente sicurezza, osò rivolgersi a lui con un: “.... e noi dovremmo salire lassù, e magari con i muli?”
“Certamente - rispose costui, senza volgere lo sguardo – sì, ci sono i muli e voi andrete e li porterete là. Problemi non ce ne sono, tranne che a volte occorre scolpire nel ghiaccio con la piccozza i gradini per il mulo, quando rischia di scivolare!”
Quei poveri ragazzi ammutolirono: raccolti da terra i loro bagagli, a testa bassa, seguirono il capobranco.
Anche per quella decina di alpini era iniziata la naia vera.
Sul treno di ritorno Maurizio e Sandro si incontrarono nuovamente.
Avevano avuto la stessa idea ed erano felici: li aspettavano due giorni di libertà tutti per loro e per fare una sorpresa a casa e, cosa che non guastava affatto, dodici mila lire di diaria in più per quella missione fuori sede.

Sandro Bazurro arrivò a Genova con l'ultimo treno e riuscì a salire sull'ultimo autobus, che lo avrebbe avvicinato almeno un po' di più a casa (ormai a quell'ora non c'erano più mezzi per il suo paese). Poi, dal capolinea, proseguì su, a piedi, per i restanti sei chilometri fino alla casa sulla sommità della collina.
“Ben poca cosa – rifletté Sandro - rispetto alle marce sfiancanti che aspettavano i suoi alpini ai nuovi Reparti di assegnazione!”.




 CAPTOLO 54
BARBARA, PROTETTRICE DEI MONTANARI


Sembrava il racconto della campagna di Russia.
In una fredda mattina di gennaio il battaglione partì per i campi invernali, una missione dura ma esaltante.
Negli anni successivi, quando Roberto Salati parlava di questa avventura, essa veniva sempre più arricchita di particolari che la rendevano straordinaria, eccitante, impossibile da dimenticare, quasi eroica.
Nel ricordo, tra gelide notti passate di guardia, si alternavano momenti di puro eroismo, dove gli alpini, chiamati a difendere i valligiani dai disastri dell'inverno, venivano calati dall'elicottero in mezzo a cumuli di neve per portare in salvo uomini e animali.
Roberto esprimeva in questo modo, forse un poco esagerato, tutto il suo amore per il corpo degli alpini, per la Valle, per quella che considerava una esperienza straordinaria, unica, che gli aveva aperto la mente e il cuore e della quale aveva sicuramente grande nostalgia.
Terminata l'emergenza dell'inverno, quando la neve e i ghiacci erano solo un ricordo, la Valle si vestiva di colori, sempre più decisi e intensi.
Passati i mesi primaverili, veniva il momento dei campi estivi. Roberto amava moltissimo la montagna e la Valle d'Aosta che aveva frequentato fin da bambino con suo padre, egli stesso Alpino che aveva partecipato alla campagna di Russia.
Proprio durante i campi estivi, tra tappe quotidiane, nonostante la fatica e il sudore, l'amore per i monti e i boschi trovava la massima soddisfazione.
Quell'anno, però, c'era un importante novità per Roberto: sua moglie Marinella aspettava un bambino, che sarebbe nato proprio nel bel mezzo dei campi estivi.
Fu un periodo piuttosto complicato per i due giovani sposi. Marinella aveva dato, due settimane prima della data prevista per il parto, il quarto e ultimo esame orale di letteratura tedesca con ottimi risultati ma con grande fatica ad entrare nel banco, non previsto per gestanti al nono mese.
Roberto faceva tappe giornaliere su e giù per le valli, non sempre poteva telefonare alla moglie e la cabina telefonica non era sempre a portata di mano. Se fosse accaduto qualcosa di imprevisto, come raggiungerlo in tempi brevi?

 
Roberto e Marinella Salati, Michele Casini

Il padre di Marinella, direttore di una delle molte filiali della Sip, si incaricò del problema. Furono avvisati i centralini dei paesi dove Roberto avrebbe sostato per la notte. Arrivò il momento. Il futuro papà, nel timore di non arrivare per tempo, aveva negli ultimi giorni, escogitato un trucco: aiutato da tutti i commilitoni era riuscito a portare la macchina nella località più vicina, spostandola via via.
Non si sa esattamente come, ma, alle prime avvisaglie, messi in moto i complicati meccanismi di avvertimento, Roberto arrivò in un tempo considerevolmente breve a casa.
Falso allarme. Ma, come spesso succede, poche ore dopo, l'allarme risultò veritiero e l'alpino Salati divenne padre di una bambina, alla quale venne dato il nome di Barbara, protettrice dei montanari.



  
CAPITOLO 55
LA RECLUTA CON IL BAMBINO


Al CAR di Bra era arrivata una nuova infornata di reclute.
Fra i giovani che affollavano il piazzale, il sottotenente Luciano Ivaldi ne notò uno al fianco di una ragazza che teneva un bimbo in braccio. Si avvicinò. Indossavano abiti sgualciti, capelli unti, lo sguardo di chi è cresciuto troppo in fretta. Il bambino, ad occhio, aveva un paio di mesi, non di più.
“Chi sei?” domandò al ragazzo. Il giovane mostrò all’ufficiale la cartolina precetto. “Di chi è il bimbo?” chiese Luciano. “E' mio, mio figlio”, rispose. “E lei è tua moglie?” aggiunse il graduato guardando la ragazza. “No, non siamo sposati” replicò il coscritto chinando il capo per celare l'imbarazzo.
Luciano Ivaldi sapeva che i padri con moglie e figli a carico avevano diritto all'esonero dalla leva. Il caso che aveva di fronte, tuttavia, era formalmente differente e siccome sotto naia la forma è sostanza, chiese lumi al Comando. Al telefono, un ufficiale, doveva essere un maggiore, sentenziò: “Mogli, la circolare parla di mogli, non di ragazze madri!”. E il bimbo? “Ci pensasse la famiglia, i nonni, gli zii ... le caserme non sono asili nido!”.
Luciano ritornò dal ragazzo e abbozzò: “Saluta la tua compagna e il tuo bambino. Potranno venire a trovarti tutte le volte che vorranno”. “Faccio il muratore, se resto qui e non lavoro, come fanno a mangiare” bisbigliò la recluta chinando un'altra volta il capo. “Non avete genitori in grado di aiutarvi?”, obiettò Luciano. “Ci hanno sbattuti fuori casa”, fu la risposta che lo lasciò senza parole. Venivano da un paese del cuneese, a volte si faceva così, da quelle parti e anche altrove, per emendare la vergogna di un'incauta, prematura notte d'amore.
Fu allora che a Luciano venne un'idea: concedere una licenza al ragazzo e affidargli una lettera da consegnare ai Carabinieri del paese. Nella missiva, dopo aver descritto il fatto, avrebbe chiesto di intercedere presso il sindaco per celebrare in tutta fretta il matrimonio.
Il giovane avrebbe così ottenuto l'esonero dalla leva.
Ne parlò con Capitan Burdese che si tenne fuori: “Ivaldi, faccia come meglio crede”. Il giovane sottotenente capì al volo che il comandante non era contrario. Padre di una figlia, sapeva cosa significasse essere genitore.
Spiegò il piano ai due giovani.
La ragazza lo guardò con disincanto. Questo ufficiale stava mandando a rotoli il più bel sogno della sua vita: un matrimonio in chiesa, l'abito bianco, i fiori sull'altare, l'Ave Maria, i chicchi di riso lanciati in aria, il bouquet alle amiche, le foto da incollare sull'album di famiglia ...
A corto di tempo e di quattrini, intravedendo una via d'uscita, il giovane padre invece annuì: “Se basta un matrimonio in municipio...”. “Basta e avanza”, rispose Luciano ostentando sicurezza per fugare ogni ripensamento.
Dettò la lettera ad un furiere e la consegnò al giovanotto che mai sarebbe diventato alpino. Aveva altre responsabilità, le incombenze e i trastulli della naia andavano lasciati ai coetanei con i grilli in testa.
“Che Dio vi assista”, sospirò Luciano accompagnando con lo sguardo i tre sventurati fino al crocevia che portava alla stazione.
Dopo una decina di giorni ricevette un fonogramma dai Carabinieri. I documenti erano pronti, bisognava pazientare alcuni giorni per rispettare i tempi tecnici e poi si sarebbe celebrato il matrimonio.
A quel punto la pratica di esonero sarebbe stata inoltrata al Ministero.
Luciano non ne seppe più nulla.
I mesi passarono in fretta, la vita di caserma dirottò altrove la sua mente.
Un pomeriggio l'attendente bussò alla porta della sua camera per dirgli che era atteso in portineria. Scese lo scalone due gradini alla volta, entrò nell'androne e vide un ragazzo e una ragazza che, all'istante, non riconobbe.
“Tenente, si ricorda di noi? Siamo quelli del bambino, del matrimonio ...”.
Luciano Ivaldi li abbracciò.
Indossavano abiti dignitosi, capelli in ordine, sorriso allegro. Chiese notizie del bimbo. Cresceva bene, per l'occasione l'avevano affidato ai nonni. La famiglia si era ricomposta. Il tempo, ancora una volta, aveva rimarginato le ferite.




CAPITOLO 56
LA MULA DELFINA


La ‘Delfina’ sgroppava da anni al servizio della 127° compagnia mortai. Era una bella mula di prima classe, grande e robusta. A differenza dei muli di seconda e terza classe, più piccoli e meno resistenti e che venivano usati dalla fanteria alpina per il trasporto di tende e approvvigionamenti, la Delfina era addetta al trasporto di armi e munizioni pesanti. In particolare le caricavano sulle spalle il mortaio da 120 al gran completo, con piastra, affusto, e bocca da fuoco: ci sarebbero voluti almeno tre alpini per trasportare manualmente quella zavorra!
L’estate del 1972 stava giungendo al termine ed anche la Delfina avrebbe dovuto prepararsi, insiemi ai suoi amici alpini, per il prossimo campo invernale.
Ma probabilmente, in quella mattina di fine agosto, il pigro quadrupede non aveva molta voglia di allenarsi. Probabilmente soffriva per qualche indisposizione e la prevista sgambata di circa un paio d’ore al ‘Maso Pineto’ non rappresentava certo il massimo delle sue aspettative.
Ciononostante, con grande senso del dovere, la mula si incolonnò disciplinatamente nel gruppo manifestando il suo covante malessere con qualche piccola scalciata e nulla più.
Uscì di malavoglia dalla caserma. Al comando del piccolo plotone c’era il sergente salmerista ed il sottotenente veterinario del Battaglione, un gioviale e simpatico ragazzone bolognese.
La Delfina, per buona parte della passeggiata, proseguì allineata e coperta.
Poi, d’improvviso, accusò un disturbo intestinale.
Le si avvicinò, per visitarla, l’ufficiale veterinario.
Fu a questo punto che la Delfina, mai si seppe se per caso o volontariamente, mise a segno la sua risaputa specialità: la scalciata laterale!
Il simpatico tenente di Bologna cercò di evitarla, ma riuscì a schivarla soltanto in parte.
Fatto sta che la bizzosa mula, poi ben curata ed assistita, si riprese prontamente dalla momentanea indisposizione, mentre lo zelante ufficiale venne ricoverato di tutta fretta nel vicino ospedale, nel reparto odontoiatrico, per la ricostruzione di ben sette denti!





CAPITOLO 57
ALPINO AD OGNI COSTO      


Un’intensa attività agricola, grazie alla buona fertilità dei terreni della zona, aveva da sempre caratterizzato il quartiere di San Rocco Castagnaretta, un polmone verde circondato da una bella campagna nella periferia di Cuneo. A rendere famosa questa piccola località non aveva contribuito solamente la sua carota dal lungo fittone, ma soprattutto la presenza storica del 2° reggimento degli alpini, il ‘Doi’.
La caserma intitolata al partigiano Ignazio Vian era la sede del battaglione Orobica, così chiamato in quanto il suo bacino di reclutamento erano le alpi Orobie e già dal luglio del 1963 questo battaglione aveva funzione di centro di addestramento reclute.
Nel gennaio del 1972 Piergiorgio Marguarettaz si presentò alla sede del comando di Cuneo. Con lui, tra gli altri, c’era un bel gruppetto di colleghi sten del 64° corso AUC: Sandro Bazurro, Piero Borro, Valerio Brunetto, Gianni Buffa, Enrico Casalegno, Sandro Cerrato, Luciano Ivaldi, Paolo Lupani, Paolo Masnata, Maurizio Moro, Adriano Peracchia, Gianni Pasquino, Aldo Perron.
Piergiorgio, insieme a Gianni, ai due Paolo, a Piero ed a Valerio, fu smistato proprio a San Rocco di Castagnaretta e lì avrebbe dovuto trascorrere i suoi nove mesi in servizio di prima nomina.
Dopo circa due settimane dal suo arrivo, cominciarono finalmente a presentarsi le prime reclute.
La procedura di ricevimento era pressoché simile a quanto gli era accaduto alla SMALP qualche mese prima: accoglienza in caserma, identificazione, doccia, parrucchiere, visita medica, vestizione, attribuzione della compagnia.
Dal mattino fino a notte inoltrata, anche dopo l'arrivo dell'ultimo treno alla stazione di Cuneo, la caserma era un continuo e frenetico ribollire di giovani di diverse provenienze. Erano in gran parte spaesati, solo qualcuno simulava una supposta spavalderia.
Molti, prima di arrendersi definitivamente all’obbligo del servizio miliare, mettevano in atto un ultimo e disperato tentativo per evitare la ‘naja’. Accampavano le motivazioni più diverse e fantasiose: malattie improvvise, strane documentazioni sanitarie attestanti imperfezioni fisiche tali da mettere in dubbio l'idoneità a svolgere il servizio militare che chissà come alla visita di leva non erano state riscontrate, impegni di lavoro inderogabili, genitori anziani e soli, fratelli da accudire.
Fu pertanto una sorpresa quando il sottotenente medico chiamò Piergiorgio per sottoporgli uno strano caso.
Stava infatti visitando un ragazzo con numerose cicatrici in varie parti del corpo e, cosa ancor più grave, con una gamba palesemente più corta dell'altra. Il ragazzo però, e qui stava l’anormalità della situazione, si guardava bene dallo sfruttare questa circostanza come valido motivo per essere subito rimandato a casa.  Se ne stava col capo chino senza proferire parola, rispondendo a monosillabi alle domande del medico.
I due ufficiali, ovviamente, desideravano avere un chiarimento in merito, ma il ragazzo continuava nel suo silenzio.
Dopo molti tentativi, messi in atto prima con le buone maniere e poi con qualche sollecitazione più brusca, il medico e Piergiorgio riuscirono finalmente, a notte ormai fonda, a scoprire l'arcano.
Il ragazzo cominciò balbettante a spiegarsi.
Proveniva da una sperduta frazione delle valli valtellinesi e subito dopo la visita di leva, cui era risultato abile e quindi arruolato, era stato vittima di un serio incidente d'auto che gli aveva causato quelle importanti ferite. Ma, una volta dimesso dall'ospedale, si era ben guardato dall'informare il distretto di competenza, per cui al momento di ricevere la cartolina precetto si era presentato regolarmente al C.A.R.
A quel punto il ragazzo interruppe per un momento il suo racconto e dopo un attimo di pausa scoppiò in un pianto dirotto. Tra le lacrime, chiese di chiudere non uno ma due occhi e di tenerlo in caserma, dove poteva, a differenza di casa, mangiare pasti regolari. “Vede signor tenente, alcuni miei compaesani, che sono stati qui prima di me, mi hanno raccontato che in caserma si mangia carne anche due volte al giorno mentre a casa mia faccio la fame”.
Per alcuni lunghi minuti in infermeria ci fu un silenzio totale.
Piergiorgio ed il medico inizialmente prolungarono di proposito la selezione del ragazzo per tenerlo qualche giorno in più in caserma in modo che potesse usufruire della mensa.
Poi, correttamente, ne informarono il comandante di compagnia che a sua volta ne parlò col maggiore comandante.
Purtroppo non ci fu niente da fare: il ragazzo fu riformato per sopravvenute imperfezioni fisiche.
Il caso naturalmente divenne di pubblico dominio e tutti ne parlavano.
Venne organizzata un colletta spontanea. Vi partecipò l’intera caserma: dai comandanti agli alpini.
Fu raccolta una bella somma di denaro che il Maggiore comandante del Battaglione consegnò al povero ‘alpino mancato’ sotto forma di prestito a fondo perso e con l'abbraccio ideale di tutta la grande Famiglia Alpina.
La permanenza del giovane alla caserma Vian fu prolungata per ulteriori dieci giorni.
Quando infine andò alla stazione di San Rocco per prendere il treno che lo avrebbe riportato a casa, non era da solo: con lui c’era il cuore di un intero battaglione, il cuore degli Alpini!




CAPITOLO 58
IL MESE PIU BELLO!


Il sottotenente Felice Piasini, in quanto Alpino d’Arresto, venne destinato a Vipiteno, al Battaglione Val Chiese, appartenente alla Brigata Alpina Orobica. Neppure il tempo di adempiere agli atti formali che fu subito rispedito, a modo di pacco postale, alla volta di Glorenza, in alta Val Venosta.
Nella nuova sede rimase ben poco: revisionò i registri contabili (quelli di carico e scarico dei materiali in dotazione) e fu aggiornato dall’unico militare in servizio a Glorenza (uno scaltro e scafato maresciallo pugliese) sui rapporti fra sede di compagnia e distaccamenti.
Poi, finalmente, la partenza per la destinazione operativa: Saltusio, a 9 km da Merano, con la qualifica di comandante del piccolo distaccamento, capienza massima di 15 alpini.
Abituato ai ritmi precisi ed inflessibili della SMALP, Felice, in quel minuscolo avamposto, si trovò ad affrontare una realtà ben diversa.
Il primo problema che gli si presentò riguardava l’orario della sveglia.
Per il neo arrivato non vi erano dubbi: se la sveglia era fissata alla 6.30, a tale ora bisognava alzarsi.
Non la pensavano allo stesso modo i 13 alpini in forza alla casermetta.
Dopo infinite discussioni e simulazioni cronometrate, l’ufficiale dovette constatare che, effettivamente, dal suono del campanello che annunciava l’ispezione, all’alzarsi, vestirsi, predisporre il ‘cubo’ e raggiungere i posti di servizio, non erano necessari i canonici 60 minuti, bensì, per i ragazzi di Saltusio, erano sufficienti 90 secondi! Fingendosi convinto più dall’abilità dei suoi alpini che dalle minacce più o meno velate di casuali incontri al termine del rispettivi servizi militari, la sveglia continuò ad essere, per tradizione acquisita, alle 7.30!
Di questa ed altre usanze, non proprio ortodosse, era al corrente anche il capitano che supervisionava i distaccamenti. “Se lascia correre lui …” pensò Felice “…. non c’è motivo di procedere ad alcuna modifica”.
Per quanto riguardava la manutenzione delle opere di sbarramento andava molto meglio, anche perché il giovane ufficiale non ammetteva alcuna deroga in merito. Abilmente, barattò la corretta ed efficiente esecuzione dei lavori con licenze premio al fine settimana.
Gli alpini eseguivano questi lavori con grande abilità. Provenivano in gran parte dalla sana campagna, dal settore dell’edilizia e dell’artigianato, ad eccezione del cuoco bresciano, che di professione faceva il … ciabattino!
Bisognava sistemare portelloni, pali, reti e  filo spinato attorno alle opere, tagliare gli alberi e la vegetazione lungo le linee di fuoco per poter identificare e centrare l’obiettivo, ingrassare i fusti nelle postazioni per cannoni e mitragliatrici, sostituire lampadine bruciate, mandare a riparare i motori dell’impianto di deumidificazione, ricambiare l’acqua nelle vasche per gli usi igienici, dare il bianco agli alloggiamenti interni per renderli più luminosi e salubri alle compagnie che vi soggiornavano di passaggio durante i campi estivi.
Insomma, tutto si svolgeva con grande soddisfazione. Meno entusiasta era invece il maresciallo addetto agli acquisti, bombardato di continuo dalle numerose e impreviste richieste di materiali, che gli facevano sforare le previsioni contabili.
Per quanto riguardava i viveri, l’amministrazione militare prevedeva due fonti di approvvigionamento: l’acquisto diretto in loco, a Merano per frutta e verdura e a San Martino in fondo alla Val Passiria per la carne, e la fornitura direttamente dai magazzini del Battaglione di Vipiteno per i prodotti a lunga conservazione
E, se per gli acquisti locali a Merano e a San Martino andava tutto molto bene, anzi spesso si riceveva di più dello spettante forse anche perché Piasini si rivolgeva ai commercianti in tedesco, altrettanto non si poteva affermare per le provviste che giungevano da Vipiteno.
Il rifornimento avveniva ogni mese.
Arrivava un ACL. Si scaricavano in gran fretta i viveri e l’ufficiale doveva firmare solo i registri, esentato da qualsiasi controllo. 
Questo, almeno, era l’andazzo prima che arrivasse a Sallustio il nuovo sottotenente valtellinese, soprannominato ‘el Tudesc’. Dall’inizio del suo servizio, infatti, registro alla mano, Felice ‘el Tudesc’ si mise a controllare di persona ogni voce ed il relativo quantitativo spettante, spuntando o segnando l’eventuale l’ammanco: riso, pasta, scatole di piselli, pelati, tonno, caffè, zucchero. Tutto veniva controllato con la massima pignoleria.
I punti critici erano il Parmigiano Reggiano ed il cordiale.
All’appello, infatti, mancavano sempre e soprattutto troppi grammi di formaggio e troppe bustine di cordiale.

Durante l’insolita operazione di scarico e controllo, il capitano addetto ai rifornimenti era visibilmente impaziente e, rosso in viso dalla collera, incitava di continuo a sbrigarsi, perché ‘non aveva tempo da perdere’.
Il giorno seguente, però, arrivò l’ACL con tutte le provviste spettanti, compreso un bel pezzo di grana.
“Non è questione di pignoleria – pensava correttamente Felice – ma solo di far rispettare le regole”.
E poi, le provviste non consumate erano oggetto di scambio con i contadini: una scatola di caffè contro sei uova, una bottiglia di cognac veniva quotata sei uova ed un pezzo di Speck. Tre scatole di piselli, una di pelati e tre pezzi di fondente valevano un pezzo di formaggio o mezzo chilo di burro!
Tutto bene quindi quel che finisce bene?
Magari!
Qualche giorno dopo infatti, lo stesso capitano, in servizio di ispezione, fregandosene della procedura prevista, si presentò al distaccamento aggredendo verbalmente il soldato di guardia al cancello che intendeva soltanto fare il proprio dovere: “Ma che c…zo di parola d’ordine, apri! Non vedi che sono il tuo capitano?”
Purtroppo anche il piantone, spaventato, non rispettò la procedura (Parola d’ordine! Controparola! Colpo in canna. Sparo in alto, come primo ammonimento, etc.) ed aprì solerte il lucchetto. I secondi trascorsi non bastarono ai compagni per mettersi in regola. Il capitano entrò nella casermetta e come una iena si precipitò in camerata.
Ormai era fatta!

 
Il sottotenente Felice Piasini con l’alpino Pé

Il capitano scese le scale e, passando davanti al sottotenente Piasini, che se ne stava impotente sulla porta del suo ufficio, gli gridò soddisfatto, digrignando i denti: “Lei stia punito!”
Il tempo di stendere il rapporto e puntuale arrivò dal Comando di Vipiteno la sentenza.
Lo Sten Felice Piasini, comandante del Distaccamento di Saltusio (seguiva un’ampollosa motivazione in gergo militare) veniva trasferito in punizione, per giorni 30, al distaccamento del Passo Resia, a 1.700  metri sul livello del mare, al confine con l’Austria.Fu un settembre meraviglioso!
Il cielo terso che si specchiava nel lago, l’aria frizzante del mattino che invogliava il punito a studiare e a preparare gli esami che gli mancavano per laurearsi, le uscite nei boschi, con gli alpini comprensivi e complici, a raccogliere mirtilli e funghi (di cui l’alpino Pé era un formidabile conoscitore), le serate fino a tardi nel vicino Gasthof…
Che pacchia!
Ma il clou della punizione (che la dice lunga!) fu la visita improvvisa, una sera, di un ‘imbarazzato’ Capitano, accompagnato da un altro ufficiale, con susseguente invito a cena oltre confine, giù in Austria, in divisa e in barba al regolamento.
Il ‘Capitano’ sembrava perplesso, ma la sua indecisione riguardava soltanto il menù: meglio un fumante salmì di cervo o un rosolato stinco di maiale con patate al forno?




CAPITOLO 59
DUE UFFICIALI E UNA FIAT 124 SPORT SPIDER


Era il giugno del 1972 e le Compagnie del Secondo Reggimento Alpini di Cuneo si preparavano al giuramento delle reclute del secondo contingente, previsto per i primi di luglio.
Come ogni anno, il 2 giugno si celebrava a Roma la festa della Repubblica Italiana con la solenne parata militare lungo la via dei Fori Imperiali. Per l'occasione il Secondo Alpini inviò un reparto con la bandiera di guerra, che sarebbe stata portata con grande fierezza dal sottotenente Aldo Perron, alfiere ufficiale del Reggimento, subito scelto tra i giovani subalterni del Comando per la sua prestanza e la sua imponente presenza.
Ma, oltre a questi aspetti del tutto marginali sull’aspetto fisico del Perron, la cosa più importante era che il giovane porta bandiera possedeva una Fiat 124 Sport Spider, magnifica, bianca, carburatore doppio corpo, vettura sportiva 2+2 posti, 2000 cc. rombanti, invidia di tutta la caserma, tenuta come un figlio.
Orbene, dovendo quindi assentarsi per i motivi sopraesposti, l'alfiere Perron fu costretto ad affidare a terzi la sua creatura, anche se per un breve periodo; la scelta cadde sul suo fido commilitone sottotenente Sandro Bazurro, con il compito di sorvegliarla e di curarne la manutenzione, concedendogli in via del tutto eccezionale anche di usarla, ovviamente con le dovute cautele.
Sandro, conscio della grande responsabilità e della fiducia attribuita, pensò di parcheggiarla diligentemente a fianco della propria 600, posizionandole entrambe a portata di vista e controllandole periodicamente.
Inizialmente l'intenzione era quella di avviare il motore saltuariamente, in modo che non si scaricasse la batteria, e così fece per un po’; poi un giorno mentre effettuava l'operazione di ricarica, si accorse che il rombo del potente motore aveva attirato l'attenzione di alcune leggiadre passanti, cosa che mai era avvenuta quando aveva effettuato la medesima operazione con la propria Fiat 600.
Pensò allora di fare un giro attorno alla caserma, a passo d'uomo, fino al distributore di benzina più vicino, imprecando per il fatto che il commilitone avesse lasciato poco carburante nel serbatoio, forse presagendo le sue intenzioni.
Passando nei pressi del portone centrale incontrò l'amico e collega sottotenente Maurizio Moro, il quale sovente, quando era libero da impegni di servizio e di ... cuore, accompagnava Sandro nelle scorribande serali alla fabbrica di abiti ‘Vestebene’, ubicata lungo la provinciale via Genova, all'ingresso di Cuneo.

Lo sguardo sciupafemmine del sottotenente Sandro Bazurro

In questa manifattura tessile erano impiegate decine di ragazze, che come un fiume defluivano dai cancelli della fabbrica alla fine del turno, nel tardo pomeriggio, per avviarsi a piedi verso il centro città o aspettando la corriera che le avrebbe condotte in uno di quell'infinità di paesini, sparsi nella Provincia Granda.
Quello era il territorio di caccia di tanti Alpini della Cesare Battisti.
Come rinunciare all'occasione così ghiotta di mettersi in evidenza con una simile vettura, tenuto conto che i due ufficiali erano soliti presentarsi o con la 600 di Sandro o la 500 di Maurizio.
Fatto sta che, rabboccato il serbatoio con ben 5.000 lire, partirono con il vento in fronte ed il sole che rifletteva gli ultimi raggi nello specchietto retrovisore. Arrivarono giusto in tempo per avvicinare le ultime ragazze che uscivano dai cancelli, ma il caso volle che queste si infilassero subito sulla corriera che nel frattempo era sopraggiunta.
Restarono mollemente appoggiati all'auto ancora per un po' di tempo, tanto per gustare gli sguardi di ammirazione di qualcuno e di invidia di qualcun altro, poi decisero di proseguire lungo la provinciale, nella speranza di avere miglior fortuna.
Giunti all'altezza dell'incrocio per Roata Canale e Roata Civalleri pensarono di deviare, sperando di trovare la scorciatoia per Boves anche perché si era fatta l'ora di mettere qualcosa nello stomaco.
La strada era un po' sconnessa e Sandro l'affrontò con grande cautela, conscio di doversi arruolare nella legione Straniera, qualora fosse capitato qualcosa all'ammiraglia che stava guidando.
Ad un tratto sulla banchina di destra si materializzarono due snelle figure, che speditamente si dirigevano verso l'abitato.
Dapprima le superarono decisamente, avendo comunque il tempo di apprezzarne i fini lineamenti, quindi con uno sguardo d'intesa, senza proferir verbo, ai due amici sembrò doveroso offrire loro un passaggio, considerato che il sole era da tempo scomparso all'orizzonte e l'imbrunire stava sopravanzando speditamente.
Le ragazze accettarono senza tentennamenti, anche perché avevano perduto l'ultima corsa della corriera ed ai due ufficiali restò sempre il dubbio se tale repentina decisione fosse merito delle stellette dorate che stavano bene in evidenza sulle spalline, o del potente mezzo di trasporto sul quale stavano mollemente seduti.
Le due splendide ragazze erano di Roata Canale e lavoravano presso uno studio professionale di Cuneo.
Se non fosse stato che i due avevano entrambi il cuore impegnato in storie affettive molto profonde, si sarebbe potuta configurare la netta volontà di approfittare della circostanza, per approfondire la conoscenza delle due giovani.
L'arrivo in paese ebbe un successo enorme ed un'eco altrettanto sonora, considerato che le due ragazze nulla facevano per minimizzare il fatto a parenti ed amici.
Comunque i due ufficiali oltre ai ringraziamenti rimediarono anche un abbondante spuntino con pane salame e formaggio, che divorarono letteralmente sotto un pergolato meraviglioso, non senza perdere d'occhio due ragazzini assai intraprendenti, che impossessatisi dei loro copricapi si pavoneggiavano, marciando nella corte polverosa. Ma come si sa, da cosa nasce cosa, ed i due trovandosi a loro agio in quell'ambiente sereno, lo elessero a mèta fissa per le loro passeggiate serali.
Una sera di quelle, giungendo nei pressi del grande casale, notarono parcheggiata nella corte una Alfa Romeo Giulia dei Carabinieri.
Si avvicinarono e chiesero al gendarme che stava a bordo cosa fosse successo.
Nello stesso momento, l’altro carabiniere stava scendendo da una scala esterna dell’edificio insieme ad una delle due ragazze, che li abitava. Era visibilmente in grande imbarazzo.
Fabrizio e Sandro, che per l'occasione non indossavano la divisa, rivolsero la stessa domanda anche al secondo carabiniere; costui, per tutta risposta, chiese con fare brusco i documenti ai due allibiti tenentini che, ancora confusi per quanto stava succedendo, esibirono contemporaneamente i rispettivi tesserini di riconoscimento, palesando il loro grado.
Il capo pattuglia annotò allora i loro dati su un taccuino e con fare altezzoso, a voce alta e ferma, badando bene di essere udito dalla piccola folla che nel frattempo si era radunata, sentenziò che per il momento la cosa sarebbe finita lì, rimandando eventuali provvedimenti a successive e non ben precisate cricostanze.
Fu allora che Sandro chiese al medesimo di declinare le proprie generalità e quale giustificazione potesse avere un tale comportamento. Venne risposto evidentemente solo alla prima domanda: “capo pattuglia carabiniere scelto ‘XY’ in servizio di pattuglia sul territorio”.
Fu a questo punto che a Maurizio sfuggì un “ma va là che vi scelgono bene”. La frase, seppur biascicata, non passò inosservata dallo ‘scelto’ che, rosso in viso, intimò loro un “potete andare” che non ammetteva repliche.
La situazione a quel punto era chiara: lo ‘scelto’ era in realtà un uomo geloso che si trovava in quel posto per ‘pattugliare’ la morosa ed era sua intenzione scoraggiare eventuali presunti rivali.
Sandro e Maurizio, facendo ricorso a tutto il loro buon senso, si limitarono a salutare cordialmente i presenti, tutti visibilmente in imbarazzo per l'increscioso fatto, considerato il buon rapporto che si era instaurato tra di loro. Con grande apparente tranquillità abbandonarono con un rombo di motore il luogo della disfida.
Il giorno successivo il caso venne portato a conoscenza dei superiori e se ne interessò direttamente il Comandante di Battaglione. Un tale ingiustificato comportamento nei confronti dei due ufficiali, venne ritenuto all'unanimità assolutamente inaudito.
Nel frattempo anche il carabiniere scelto, subodorando le possibili complicanze della vicenda, aveva relazionato al suo superiore e da lì fino ad arrivare al comandante della Tenenza. Costui, assiduo frequentatore del circolo ufficiali della Cesare Battisti, persona di grande buon senso, portò le sue scuse personali e quelle dello ‘zelante’ e focoso militare ai due ufficiali ed a tutta la calotta. Lo accompagnava una grande figura di carabiniere, il maggiore Tuttobene, in visita al Reparto ed ospite del Comando del Secondo Alpini.

Per la cronaca il colonnello Tuttobene, medaglia d'oro al valor civile alla memoria, verrà assassinato insieme con il suo autista a Genova, il 25 gennaio 1980, in un attentato rivendicato dalla colonna Berardi delle brigate rosse.

La cosa finì lì senza infamia e senza lode, né vinti né vincitori, con le motivazioni e con le scuse che si sprecavano da entrambe le parti in causa, e come nelle migliori tradizioni alpine con un paio di buone bevute, offerte ovviamente dalla Benemerita.

Nel frattempo il tenente Perron era rientrato dalla missione a Roma e riprese possesso della potente vettura, ignara causa di tutto questo. I due giovani ufficiali, Maurizio e Sandro, ritornarono alle vecchie abitudini, ad onore del vero con molto minore successo.
E le due ragazze? Beh … vennero più volte notate a passare e a sbirciare dentro la caserma attraverso il portone centrale, ma furono ignorate con grande eleganza.
Ed i due baldi gendarmi dei carabinieri, probabilmente istruiti a dovere dai loro superiori, spinsero altrove il loro turno di pattuglia del territorio, lasciando la tutela della morosa ai momenti liberi dal servizio.
Per fortuna le rispettive fidanzate di Maurizio e Sandro rimasero all'oscuro di tutta la vicenda. Quando un mese più tardi vennero invitate dal Comandante di Reggimento ad assistere alla cerimonia di Giuramento, applaudirono con calore la sfilata dei due tenentini, in testa ai loro reparti.

C'è da chiedersi se le due ragazze avrebbero tenuto un analogo comportamento qualora fossero state informate dell'increscioso fatto capitato ai loro gagliardi ufficiali.  Ma mai lo seppero né mai lo sapranno, se non leggendo queste memorie, ma ormai è passato così tanto tempo ....




CAPITOLO 60
IL CORSO DI SOPRAVVIVENZA


Il ‘Corso di sopravvivenza’, così come previsto dal programma di addestramento delle truppe alpine, sembrava cosa più adatta a dei Rambo super dotati, piuttosto che a un manipolo di ragazzi, per quanto volonterosi, in servizio di leva.
Queste erano infatti le ardue disposizioni cui avrebbero dovuto attenersi i componenti della squadra per il corretto superamento della prova in questione:
- Effettuare una traversata dal punto A al punto B, così come identificata nelle cartine IGM.
- Muoversi solo nottetempo.
- Non essere notati da nessuno.
- Dormire all’addiaccio o in trune appositamente costruite.
- Cibo a disposizione: 2 razioni K a persona (equivalente a 4 pasti completi).
- Tempo a disposizione per completare l’intero percorso: 6 giorni e 5 notti.
- Contatti con la base: 1 contatto via radio al giorno, alle ore 18.00.
Il tutto veniva poi ulteriormente complicato dal rigido clima invernale. La neve infatti aveva già ricoperto la vallata e muoversi di notte non era per nulla agevole, soprattutto dovendo evitare strade statali, provinciali, comunali, vicinali, mulattiere e sentieri frequentati. Semplicemente, si poteva procedere soltanto nel bosco.

La squadra era composta da 8 intemerati soldati.
C’era un sottotenente, un sergente, un esperto in radiotrasmissioni, un infermiere, un caporal maggiore e tre alpini.
Il sottotenente, comandante della sventurata pattuglia, era un giovane ufficiale di complemento sfornato dal 64^ corso AUC, al secolo Callegari Vinicio, da Castelfranco Veneto!

Dopo essere stato trasportato con una AR (auto di ricognizione, una FIAT Campagnola) ed un CL (Camion leggero) sul punto di partenza, il gruppetto si defilò velocemente.
Camminarono con le ciaspole ai piedi, faticosamente, nella neve profonda e farinosa.
Era già l’imbrunire.
Dopo qualche tempo raggiunsero il primo punto previsto dall’itinerario e si accamparono.
Affamati, divorarono quasi completamente il contenuto della prima razione.
Scavarono delle tane-ricovero approfittando di piccoli pendii ed al mattino avevano già terminato il cibo della prima confezione.
Venne la sera e si ripartì verso il secondo punto identificato sulla carta.
Avrebbero dovuto restare fuori 6 giorni e 5 notti per arrivare a completare il tracciato.
Alle 18.00 stabilirono l’appuntamento radio per il rapporto con la base.
Con la seconda notte anche la seconda razione K era quasi terminata.
Il comandante Vinicio si chiedeva cosa si sarebbe potuto fare nel caso ormai certo di esaurimento anticipato degli alimenti, mentre gli occhi dei suoi alpini cercavano di leggere qualcosa nei pensieri del loro superiore.
Si mossero verso il terzo obiettivo, dopo aver cancellato come di dovere le tracce dello stanziamento.
Verso l’una di notte raggiunsero il punto convenuto: brillava una candida luna, risplendeva un cielo stellato, il freddo bruciava la faccia.
Non avevano quasi più cibo con loro: il sergente estrasse due tavolette di cioccolata ed un alpino recuperò dal suo zaino una scatoletta di carne. Ma per sfamare 8 ragazzi giovani, affamati e infreddoliti, ci sarebbe voluto ben altro.
Poi, come d’improvviso, Vinicio vide materializzarsi una luce che filtrava tra le piante del bosco.
Subito chiamò a sé il caporale, altoatesino e quindi bilingue.
Gli chiese cosa ne pensasse dell’idea di raggiungere quella struttura che si intravvedeva e di chiedere qualcosa da mangiare. Il militare annuì entusiasta.
Vinicio sacrificò ben volentieri parte del denaro che si era portato da casa e lo diede al soldato.
Nel frattempo i ragazzi, con i quali si era stabilito un buon rapporto cameratesco, predisponevano le ‘tane’ per la notte.
Dopo un paio d’ore il caporale rientrò con pane, burro, formaggi, vino e frutta.
Disse inoltre ai compagni che al maso, in barba alla segretezza della missione, avevano notato la loro presenza e che potevano con molto piacere offrire ospitalità nel fienile, a condizione che non fumassero.
La pattuglia si mosse con una rapidità sorprendente: in meno di un’ora il piccolo drappello aveva preso pieno possesso del nuovo ed accogliente alloggio.
Alla mattina fecero colazione con pane fresco, burro, marmellata e latte appena munto. Vinicio saldò più che volentieri quanto dovuto e rimasero lì fino a sera, sotto lo sguardo incantato dei marmocchi dei contadini, alquanto incuriositi nel vedere una marmaglia del genere, puzzolente, con barbe lunghe e fucili veri.
Ripartirono all’imbrunire.
Ma a quel punto il sottotenente Callegari aveva le idee chiarissime in testa su dove trascorrere la prossima nottata: studiando infatti il percorso aveva notato che con una piccola deviazione si sarebbero avvicinati ad un altro maso …
Naturalmente nei rapporti via radio, fra scariche e vuoti, si faceva presente al comando che a parte il freddo e la carenza di generi alimentari, non vi erano preoccupanti situazioni sanitarie e di sicurezza.
Arrivarono a notte inoltrata nei pressi della quarta base ed anche questa volta fu sufficiente mandare in avanscoperta il caporale lanzichenecco per assicurarsi un caldo fienile con tanto di abbondante dessert.
Passarono il giorno oziando e la pattuglia ormai rinfrancata già pregustava l’ultimo tragitto con l’ennesimo maso da occupare.
Ma alle 18,00 precise, durante il programmato collegamento radio, arrivò inaspettato l’ordine di partenza per raggiungere il punto C identificato nella tavoletta IGM, con conseguente ed immediato rientro al reparto.
“Molto probabile – supponeva Vinicio - che qualcuno avesse mangiato la foglia e si chiedesse come potessero fare questi pur prodi alpini a restare senza viveri ed a camminare per quattro giorni di seguito”.
Arrivarono in caserma che era ormai buio. Venne loro incontro il Colonnello e Vinicio gli presentò la forza. Poi gli fu chiesto, per l’indomani, di fare un rapporto dettagliato della missione.
Come gli era stato ordinato, il mattino successivo Vinicio si presentò in Comando: erano presenti il Colonello, l’aiutante maggiore ed il Tenente Arnaldo Soleri.
Il sottotenente Callegari Vinicio fece il suo minuzioso rapporto in un silenzio di tomba.
Ovviamente omise tutti i particolari che riteneva nocivi venissero raccontati.
Il commento finale del suo comandante di compagnia fu alquanto rassicurante: “Tenente, la vedo alquanto deperito ...”.
Epilogo: due giorni dopo, durante l’adunata dell’alzabandiera, tutti i ragazzi che avevano partecipato a quella impegnativa impresa vennero chiamati al centro del piazzale e, dopo un breve discorso di encomio, furono onorati del “fazzoletto giallo”.
Da quel giorno, annodato intorno al collo e sotto la camicia, gli otto giovani esploratori indossarono con fierezza il foulard dorato, ormai parte integrante della loro divisa.




CAPITOLO 61
LA VALANGA DEL CORNO PICCOLO


Marcellino Bortolomiol aveva ricevuto un meraviglioso regalo dalla buona sorte: era stato infatti destinato al 7° Reggimento Alpini Battaglione Feltre, precisamente alla caserma di Pieve di Cadore, a 20 km da casa, tra le vette Feltrine ed in mezzo alle Dolomiti.
Lui ed il suo gruppetto di esploratori erano continuamente impegnati.
Le missioni si susseguivano senza tregua: fecero parte della squadra addetta alla messa a punto delle piste di discesa per le gare di coppa del mondo di sci a Cortina e posizionarono le corde fisse per le ascensioni al Cimon della Pala, sopra San Martino di Castrozza, durante una fitta nevicata nel mese di luglio e dopo aver pernottato per due notti nel bivacco Fiamme Gialle, sotto una perdurante bufera di neve.
Ma non mancarono, ad intervallare le giornate più faticose, anche le stupende discese con gli sci ai piedi, in perfetta divisa bianca, dopo essere stati trasportati dagli elicotteri dal Col Margherita fin su al Passo San Pellegrino!
La vivace vita militare del sottotenente esploratore Marcellino Bortolomiol proseguiva come meglio non avrebbe desiderato, in un continuo movimento tra le rocce e le nevi che tanto amava, con ripetuti percorsi di montagna e con poca caserma.
Arrivò anche il momento del campo invernale.
Tutto l’intero battaglione Feltre, con muli, centinaia di alpini, camion e camionette, su una lunghissima tradotta, partì da Feltre per trasferirsi armi e bagagli fino all’Aquila, in un lungo viaggio di oltre 600 chilometri.
Come sempre, le attività al campo si susseguivano senza sosta.
Attraversarono la Piana di Campo Felice con i muli dopo che gli alpini avevano aperto un varco nella neve alto 2 metri e lungo quasi 3 km.! Percorsero itinerari, sconosciuti a Marcellino, incontrando piccoli paesi come Ovindoli nel parco naturale del Velino e Roccaraso ai margini meridionali dell’Altopiano delle Cinquemiglia. Camminarono sulla Maiella innevata e sul Gran Sasso.

Il sottotenente Bortolomiol, con la sua squadra, venne poi deputato ad attrezzare la salita al Corno Piccolo del Gran Sasso: tutta la compagnia artiglieri avrebbe dovuto infatti salire su quella cima. Si trattava di un lavoro delicato, soprattutto per quanto riguardava il superamento di un lungo costone di neve.
I ragazzi si misero subito al lavoro. Si trasferirono a Campo Imperatore, ex roccaforte del Duce, eletto a campo base delle operazioni ed alloggiarono nell’umido tunnel di collegamento tra la stazione a monte dell'albergo e il parcheggio della stazione a valle. Ogni mattina partivano alle cinque, ancora nel buio della notte, fino a raggiungere l’inizio di quel lungo costone di neve che andava attraversato per raggiungere la vetta.
Una di quelle mattine, intorno alle 8:30, probabilmente per accelerare i tempi di percorrenza, Marcellino ed i suoi compagni tagliarono la costa innevata senza mantenere le distanze di sicurezza.
Purtroppo, fu una scelta avventata.
L’eccesso di peso fece partire una slavina.
Erano in 10: sette alpini esploratori, il capitano in coda, il sergente in testa ed il sottotenente Bortolomiol in mezzo.
I cinque ragazzi che procedevano nella parte centrale del gruppo furono colpiti in pieno dalla valanga che nel frattempo cresceva a vista d’occhio. Precipitarono nello strapiombo per qualche decina di metri e vennero sommersi dalla massa nevosa. I quattro alpini a fianco di Bortolomiol, due per parte, furono scaraventati lateralmente dalla forza d’inerzia della slavina, mentre Marcellino seguitava a scivolare lungo il plateau.
Il giovane sottotenente continuava a nuotare nel tentativo di mantenersi a galla e fece appena in tempo a scorgere un gruppetto di rocce che sporgevano tra la neve.
Furono la sua salvezza.
Riuscì infatti ad appigliarsi a quegli spuntoni, prima che iniziasse il pericoloso canalone disseminato di impervie sporgenze di pietra. Marcellino, facendo appello a tutte le sue forze e mantenendo la testa bassa finché l’intera valanga non gli fu passata sopra, riuscì a resistere, ancorato a quei massi amici che gli stavano salvando la vita.
Finalmente, la grande slavina smise di ruggire.
Marcellino fu subito soccorso. Aveva perso buona parte della pelle delle mani, ma stava bene.
Anche gli altri compagni, a parte qualche piccola escoriazione, erano sani e salvi.
L’indomani mattina gli indomiti giovani erano nuovamente sul posto per completare il lavoro ed il giorno successivo, infine, l’intera compagnia, con i pezzi degli obici e delle mitragliatrici, raggiunse la cima del Corno Piccolo.
Il panorama, sulla vetta, era unico, con il Ghiacciaio del Calderone e le tre vette del Corno Grande, unitamente al Torrione Cambi, che sembravano a portata di mano.
Il Corno Piccolo era stato conquistato, mentre le mani spelacchiate di Marcellino e dei suoi alpini erano già un lontano ricordo.




CAPITOLO 62
IL SOLDATO COLAMEO


Subito dopo che i ‘veci’ facenti parte della truppa della 76^ Compagnia di stanza a Chiusaforte, finita la naja, se furono andati, i loro posti furono presi nel giro di un paio di giorni da altrettanti ‘civili’.
Ben presto anche i nuovi arrivati sarebbero diventati dei bravi militari a tutti gli effetti.
Ma la cosa non era automatica.
Tutti questi bravi ragazzi sarebbero dovuti passare a loro volta attraverso l’impegnativa trafila cui si erano sottoposti i loro predecessori: addestramento alle armi, alla disciplina, alla fatica, ai servizi, alle marce e a tutto il resto di impegni che il Servizio Militare prevedeva.
Ogni Sottotenente aveva il suo Plotone da seguire ed ogni sera, nell'ufficio del Capitano, avevano luogo le riunioni per fare il punto sulla situazione. 
Tutto procedeva per il meglio: erano bravi ragazzi con desiderio di imparare. Si erano tutti ben affiatati fra loro in breve tempo e portavano avanti il programma di istruzione aiutandosi a vicenda.
Tutto sembrava essere a posto.
Ma non era così!
Fra gli alpini del sottotenente Roberto Braggion c'era il soldato Colameo, abruzzese di nascita e di cocciutaggine.
Si era messo in testa che lui, con la naja, non voleva averci niente a che fare. Anzi, doveva fare per forza qualcosa ‘contro’. Per carità, era buono come il pane, tranquillo e gentile ma, tutto quanto faceva, era l'esatto contrario di quello che facevano gli altri. E con la ferrea volontà di esibire questa sua diversità.
Si comportava così in tutte le materie di istruzione, ma una su tutte era quella che prediligeva boicottare: marciare ‘disallineato’ con la compagnia in preparazione della grande parata che ci sarebbe stata da lì a pochi giorni.
Ad ogni ‘passo’ il suo piede batteva subito dopo quello degli altri, era perennemente fuori tempo e fuori linea, girava la testa sempre quando doveva stare ferma, e così proseguendo.
Per il suo carattere mite era ben tollerato dai suoi commilitoni, ma molto meno dal suo Capitano.
Prima velatamente e poi sempre più chiaramente il Comandante della Compagnia fece capire al sottotenente Braggion che avrebbe dovuto, in qualche modo, risolvere il problema.
Altrimenti ci avrebbe pensato lui.
Roberto era sinceramente preoccupato: in quella ribellione del soldato Colameo c'era qualcosa di strano. Ad ogni marachella che combinava il suo sguardo cercava di incrociare quello di Roberto, ma con leggero senso di sfida e allo stesso tempo di dispiacere nei confronti del suo sottotenente, quasi volesse sussurrare: “Mi spiace per te ma io ho la mia missione anti-naja da compiere”.
Questa sfida piaceva al giovane ufficiale e pertanto la raccolse in pieno.
Gli interessava soprattutto che il ‘suo’ alpino non si facesse del male da solo e non andasse incontro a brutte conseguenze.
Cominciò a ‘marcarlo stretto’, anche cercando di dialogare con lui in tutti i momenti possibili, ma senza risultato. La data della parata si avvicinava ed il Capitano fremeva sempre di più.  A seguito delle rassicurazioni di Roberto che garantiva che tutto sarebbe filato liscio, il comandante sfoggiava una calma apparente ma … pericolosa, come a dire che eventuali guai li avrei pagati Roberto.
L'idea venne a Braggion lo stesso giorno della parata.
Era, l'alpino Colameo, piccolo di statura, anche se non fra i più piccoli, e nella predisposizione dell'allineamento della Compagnia Roberto gli assegnò comunque il primo posto, quello più in vista.
Sarebbe stato visto per primo e in pieno da tutto il pubblico, alti Ufficiali, un Generale e, soprattutto, dalla sua morosa e dai suoi famigliari che erano arrivati da un paesino disperso nella provincia de L'Aquila.
Inutile dire che marciò a tempo, impeccabile nell'allineamento e nella marziale postura che assunse durante tutta la parata.
Soprattutto con lo sguardo felice.
E dopo il suo atteggiamento cambiò.
Sicuramente fra i due il più felice fu il sottotenente Roberto Braggion quando il Capitano, qualche tempo dopo, e con la piena approvazione di Roberto, decise di promuovere l'alpino Colameo a Caporale e di affidargli l'incarico di addestratore.




CAPITOLO 63
UN TENTATIVO DEL TUTTO INUTILE


Il Tenente Colonnello Cesare Di Dato, persona coerente, corretta e comunque tranquilla, ma giustamente severa, comandava il Battaglione alla caserma Testafochi.
Per inciso, si narrava che, quando succedeva in caserma qualcosa che non andava, chiamasse al telefono l'Ufficiale di Picchetto dicendo: Pronto, sono Cesarino!. A quel punto il povero Sten scattava automaticamente sull'attenti rispondendo: Comandi signor Colonnello, caricandosi sul groppone ogni pesante rimprovero.
Passarono i mesi sino a quando si verificò il naturale avvicendamento al comando del Battaglione.
Pochissimi giorni prima del commiato, Di Dato radunò al Circolo Ufficiali diversi suoi amici, pari grado e non, per organizzare la festa di addio. Casualmente, Giuliano Levrero e l'amico Sten Franco Garabello, della medesima Compagnia, trovandosi in caserma, furono invitati alla sua festa!
I saluti d'addio furono celebrati, piacevolissimamente, in un night club di Saint Pierre.
A Cesare Di Dato succedette il Tenente Colonnello Pierino Monsutti.

Del Colonnello Monsutti Giuliano conserva con grande piacere ed onore una lettera del 29 febbraio 1988 che gli fu inviata da Padova a seguito delle sue felicitazioni quando Monsutti divenne Generale Vice Comandante della 'Regione Militare Nord Est'.
Caro Levrero scrisse il Generale - mi ha fatto molto piacere ricevere il Suo scritto e ricordare i vecchi bei tempi del Battaglione Aosta. La ricordo benissimo e la ringrazio per le Sue parole, tanto gradite, anche perché mi giungono da un collaboratore validissimo quale Lei è stato, in ogni situazione nell'attività e nella vita di caserma …”.
Cambiando il Comandante, comunque, cambiò anche l'aria che si respirava in caserma.
Era il periodo in cui il Capitano Francesco Albarosa era stato aggregato al Susa con alcuni alpini del Battaglione per le imminenti manovre NATO che si sarebbero svolte in Norvegia.     
E Giuliano, essendo lo Sten più anziano rimasto, divenne Comandante di Compagnia: la vita e le attività divennero maggiormente onerose, complesse e rischiose.
Quasi tutte le mattine Levrero era a rapporto nell'ufficio del Comandante per disposizioni di ordine generale e particolare circa la Compagnia che stava comandando assieme ai colleghi Traversone del 65° e Vissà del 66° Corso.
Il nuovo Comandante, purtroppo, aveva la consuetudine di dormire pochissimo, quindi era spesso in giro per la caserma, tant'è che la guardia e l'Ufficiale di Picchetto erano continuamente all'erta.
Giuliano dormiva in una camera posta al primo piano sotto le camerate della 42^, appositamente sistemata ed arredata dal Capitano Albarosa ed a disposizione degli Ufficiali; per raggiungerla doveva necessariamente attraversare in diagonale il piazzale e non poteva assolutamente defilarsi.
Molte volte la notte, rientrando tardi, trovava il piazzale illuminato, la guardia schierata sull'attenti ed il Colonnello che parlava con l'Ufficiale di Picchetto. Accorgendosi della sua presenza, il colonnello Monsutti licenziava il picchetto e si intratteneva a parlare con Giuliano passeggiando per la caserma.
Il colonnello amava chiedere al giovane sottotenente il suo parere circa i possibili varchi da cui gli alpini avrebbero potuto scavalcare il muro di confine per andare in fuga, soffermandosi zona per zona per la valutazione (punti ben conosciuti da tutta la truppa, ma tenuti sempre segreti!). A volte ragionava sulla fattibilità di come operare per migliorare l'ordinamento e la vita di caserma; a volte si parlava della vita futura di Giuliano. Era senza dubbio piacevole ragionare con lui, anche se la stanchezza ed il sonno aumentavano passo dopo passo.
Comunque, ogni volta che si incontravano la sera, lalto graduato terminava la discussione con un esplicito invito: Lei Tenente è in gamba, ci pensi seriamente, ci pensi, abbiamo bisogno di persone come lei! Sono sicuro che farebbe un'ottima carriera. Ed ogni volta, arrampicandosi sui vetri, Giuliano cercava unargomentazione nuova per chiarirgli che oramai la sua vita era decisa, aveva ventisei anni ed aveva studiato per fare l'architetto ... ma non era facile distoglierlo da quell'idea fissa.
E giunse il giorno del termine del servizio di prima nomina per tutti i ragazzi del 64° corso.
Anche alla caserma Testafochi, per quelloccasione, era previsto in tarda mattinata un rinfresco di commiato nel salone del Circolo Ufficiali.
Annusando già aria di casa ed avendo preparato precedentemente le valigie, Giuliano quella mattina decise di non presenziare all'alzabandiera, ma di starsene tranquillamente a dormire sino all'appuntamento per il rinfresco.
Alle otto e mezza circa bussarono alla porta: era un piantone che lo avvisava di recarsi urgentemente dal Colonnello. Staccando diversi 'moccoli' si preparò il più velocemente possibile e raggiunse il suo Studio.
Il comandante Monsutti lo fece accomodare e gli dette disposizioni precise e puntuali facendogli infinite raccomandazioni su come avrebbe dovuta essere condotta la Compagnia da parte del collega che lo avrebbe sostituito da quel momento sino al ritorno del Capitano Albarosa, ancora trattenuto in Norvegia.
La 'lezione' durò talmente a lungo che i due giunsero al Circolo per il rinfresco con quasi mezz'ora di ritardo.
Probabilmente, era lultimo, disperato tentativo, del colonnello Pierino Monsutti di convincere Giuliano ad intraprendere la carriera militare rinunciando a quella di architetto.
Ma fu una manovra del tutto inutile.
Dopo il rinfresco ed il pranzo Giuliano caricò la sua auto, compresa ... una gabbietta con un 'verdone' regalatogli da un suo caporalmaggiore.
Tornò finalmente e definitivamente a casa, con una montagna di ricordi ed un pizzico di nostalgia, pronto per intraprendere la sua nuova attività con il consueto entusiasmo e la riconosciuta professionalità.

L’ufficiale di picchetto Giuliano Levrero




CAPITOLO 64
ADDIO ALLE ARMI


Con l'arrivo dell'autunno del 1972, anche l’esperienza di soldato di Sandro Bazurro, in qualità di ufficiale di complemento, arrivava alla sua naturale conclusione.
Il 9 luglio partecipò all'ultimo Giuramento solenne in piazza Galimberti a Cuneo con le reclute del secondo contingente '72 che, durante la lunga cerimonia e complice il caldo torrido, svennero a grappoli (ne caddero almeno una ventina) tra il brusio di disapprovazione della folla assiepata.

 
L’ultimo giuramento del ‘doi’.
Piazza Galimberti. Cuneo.

In quel periodo iniziava anche il lento, inesorabile scioglimento del Corpo Addestramento Reclute del 2° RGT Alpini (che terminerà definitivamente due anni dopo, con la creazione del Battaglione Addestramento Reclute “Cuneense”, erede della bandiera di guerra del vecchio Reggimento).
Il 22 agosto del 1972 Sandro venne delegato a svolgere l'incarico di comandante della Compagnia Artiglieri da Montagna Tridentina in sostituzione del Comandante Titolare, inviato alla Scuola di Guerra.
Da tale data iniziò la dismissione del Reparto, con versamento di tutti i materiali della Compagnia, sia di servizio che di casermaggio, dalle armi ai materassi: un compito molto impegnativo e di responsabilità per un giovane sottotenente di prima nomina.
Ultimato l'addestramento del secondo contingente '72 ed accompagnate le reclute ai Reggimenti, la vita di caserma divenne monotona e si cercava di movimentarla con scherzi e tiri mancini ai figli, ma anche tra gli anziani, soprattutto verso chi si imboscava od otteneva favoritismi per trarne benefici in modo spudorato. 
In quel periodo anche un caro collega di Sandro, appassionato di armi, tra un servizio e l'altro, si dilettava a costruire impugnature ergonomiche per il revolver calibro 22 che usava per il tiro al poligono, testandone poi l'efficienza con la ‘volontaria’ collaborazione dell’amico.
Più precisamente quando al pomeriggio, liberi dai servizi, si stava a riposo in branda nell'ora di silenzio, il pistolero sorprendeva il compagno nel momento del naturale assopimento, dovuto anche all’estiva calura, ‘invitandolo’ a restare immobile e supino, mentre prendeva accuratamente la mira e sparava a tiro radente contro il muro che aveva al suo fianco.
Quando andava meglio il suo obiettivo era il soffitto.
Risultato: all'atto del congedo sul muro a fianco di un letto si poteva distintamente individuare un profilo umano ed il soffitto somigliava al planetario della Scuola di Aosta, tutto puntinato da fori calibro 22.
Ormai tranquillamente congedati, dopo qualche giorno i due furono richiamati ‘gentilmente’ per tappare tutti quei buchi, con spatola e stucco da muro. Scroccarono l'ultimo pranzo al circolo ufficiali, ma si divertirono un po' meno a sigillare i fori del soffitto a tre metri e mezzo da terra, salendo su un improvvisato trabattello, formato accatastando le brande.
Bellissima fu la festa di congedo: tutti gli ufficiali della calotta ed il quadro permanente invitati, damigiane di vino posizionate sotto il porticato affinché tutti potessero attingerne, canti e balli fino a tarda ora, salumi e formaggi in abbondanza e poi il silenzio, fuori ordinanza naturalmente. Affiorò anche qualche lacrimuccia, complici le abbondanti libagioni e poi tutti a nanna... ma veramente? Ma no... tutti veramente no.
Improvvisamente nella notte un denso fumo si levò da una camera nell'ala degli alloggi Ufficiali, invadendo tutte le stanze, i corridoi, le scale. Un candelotto lacrimogeno da un chilo aveva contribuito a far commuovere anche i più scafati, i più riottosi, anche coloro che felici della partenza dei due tenentini non avevano ancora versato neppure una lacrimuccia per i loro anziani.
Tra questi anche l'ignaro cappellano, che alloggiava in una camera attigua degli alloggi ufficiali ed era costretto suo malgrado a condividere tutte quelle dissolute intemperanze.
Fu molto severo e da buon delatore fece partecipe del fatto il valente Comandante di Battaglione, quello della valigia di cartone per intenderci. Costui, dopo aver chiamato a rapporto Sandro ed il suo degno compare e dopo aver loro rammentato anche le altre precedenti malefatte, li redarguì con fermezza, dichiarandosi felice della loro prossima partenza e multandoli con le spese di una damigiana di vino (che sarebbe servita al cappellano per il suo santo uffizio …).
Colse l'occasione per ricordare tutto ciò che avevano combinato in quei nove mesi di permanenza ai reparti, degni eredi a suo dire, dei loro dissoluti predecessori.
Sottolineò in particolare la brutta avventura con le educande del collegio situato proprio dirimpetto agli alloggi degli ufficiali, che tante noie gli aveva procurato con la madre superiora.
La birbonata era consistita nell'attirare l'attenzione di quelle sventurate con atteggiamenti discinti tenuti dalle camere fronteggianti i loro alloggi o dai locali servizi e docce; ciò era stato possibile essendo i due immobili separati solo da pochi metri di strada. Qualcuno si era spinto ben oltre, inviando loro messaggi poco convenienti ma molto chiari, attirando le poverette in appuntamenti galeotti, tanto che alcune di loro mosse da profondo pentimento per gli atti impuri commessi, pare ripetutamente e con reciproca soddisfazione, rinunciarono ai voti promessi, con ‘grave nocumento per la sacra istituzione tutta’.
In quel caso l’immancabile rimprovero solenne terminò nell'ufficio del comandante ed alla presenza della madre superiora, direttrice del collegio. Il colonnello, ormai scafato nel dirimere tali incresciosi avvenimenti, condannò ‘i colpevoli’ a pagare un paio di bevute per tutta la calotta, e soprattutto rinfacciò loro di non averlo mai portato prima a conoscenza del fatto, certo che con l'esperienza di un maturo superiore tutto ciò non sarebbe successo.   

Il primo ottobre dell'anno 1972 Sandro Bazurro e tutti i suoi compagni del 64° corso AUC vennero inviati in congedo, per ultimato servizio di prima nomina.
Lasciavano tanti amici e portavano nel cuore tanti cari ricordi.




CAPITOLO 65
PILLOLE DAL BATTAGLIONE


LE TROTE DELLA VAL PASSIRIA
“…allora Tenente, cosa vogliamo fare? Redigiamo il verbale ed esponiamo denuncia alle autorità, o…?”.
Così il guardiapesca ed il messo comunale si rivolgevano a Felice Piasini, comandante del distaccamento di Saltusio in Val Passiria, in un caldo pomeriggio di fine luglio.
I due se ne stavano all’ingresso della casermetta con due sacchetti di plastica rigonfi e gocciolanti e, all’invito del tenente ad accomodarsi, proposero che, per non sporcare, era meglio andare sul retro e fare due chiacchiere. Aperti i sacchetti, il comandante, scuotendo il capo, capì subito di che si trattava.
I suoi naioni ne avevano combinata un’altra.
Le ispezioni alle opere di difesa si svolgevano sia in mattinata che nel pomeriggio. Nel tragitto tra una postazione e l’altra, non si poteva resistere alla tentazione di fare un giretto nei boschi in cerca di funghi, che poi venivano cucinati con il risotto o impanati dall’ex ciabattino bresciano, promosso cuoco sul campo!  Al pomeriggio si preferiva andare sulla sponda opposta, che dava a nord, più fresca, ma si doveva passare per forza dal torrente. E, nonostante le raccomandazioni, la pattuglia si toglieva scarponi e mimetica e si rinfrescava o si metteva a prendere il sole sui massi levigati dall’acqua. Qualcuno, un po’ più attivo, cercava di acchiappare con mani e bastoni qualche trota, ma in genere senza successo. Quel giorno, fortuna volle che trovassero, in una pozza isolata vicino al letto principale del torrente, un gran numero di trote rimaste là intrappolate. Prenderle era diventato un gioco. Così lo schiamazzo festoso dei baldi pescatori richiamò l’attenzione degli indigeni che, gelosi delle loro cose e rispettosi della legge, andarono ad avvisare chi di dovere.
Il resto è noto. Svanito ormai il sogno di gustare le famose ‘Forellen’ del Passirio, al comandante non rimase che optare per la soluzione più vantaggiosa: ‘regalare’, seguendo il consiglio delle guardie locali, le trote alla Casa di Riposo di Rifiano, il paese vicino, e chiudere lì la faccenda.

“COMODO, COMODO!”
La divisa in disordine e l’atteggiamento non proprio militare dei soliti imbecilli sorpresi a fare autostop, non dovevano essere stati particolarmente graditi ad un Generale di Merano a spasso con la moglie su per la Val Passiria, in una domenica d’agosto.
La lavata di capo a cascata fu inevitabile. Vennero coinvolti tutti: Generale, Tenente Colonnello, Capitano responsabile dei distaccamenti e Tenente, comandante dello stesso.
Lunedì mattina squillò l’apparecchio di collegamento tra Vipiteno, sede del Battaglione, e la casermetta di Saltusio. Era il Tenente Colonnello che si informava, tra il sornione e l’ironico, sulla vita del distaccamento. Rivolse domande ben precise relative ad altrettante consegne, il più delle volte ‘formali’, la maggior parte delle quali non rispettate, come l’alzabandiera fra l’altro, ma note a tutto il sistema.
Insomma, forse era troppo e si doveva cercare di mettere un po’ d’ordine e disciplina, in una ‘guarnigione’ abbandonata a sé stessa a pochi passi dal confine nemico.
Per fortuna, solito more all’italiana, il comandante di quel distaccamento, il sottotenente Felice Piasini, venne avvisato per tempo della visita a sorpresa, fissata per il venerdì successivo.
Fu una settimana di fuoco per tutti. Una signora che abitava di fronte provvide a lavare e a stirare la bandiera. Si fecero le pulizie generali. Si mise il grasso alle carrucole e si provò e riprovò l’alzabandiera. Si esercitarono in adunate e schieramenti della forza fino alla nausea.
Venerdì mattina, cinque minuti prima dell’ora fissata dal regolamento, spuntarono su dalla salita che portava al distaccamento due penne bianche. Erano il Tenente Colonnello Vittone, comandante del Valchiese, ed un Maggiore, seguiti da un capitano e da un maresciallo.
“Ci siamo!”, mormorò tra sé e sé Felice.
Vittone invitò il comandante del distaccamento a procedere, come da prassi, al rituale dell’alzabandiera.
Gli alpini uscirono dalla casermetta e si schierarono con perfetto allineamento.
Poi, seguendo il protocollo militare, il caporale corse davanti al Colonnello.
Scattò sull’attenti, alzò fiero il braccio destro all’altezza della visiera del cappello ed iniziò, con palese emozione, a presentarsi: “Caca ... caca … cacaca…”.
Avrebbe dovuto dire solamente: “Caporale Casazza Mario” e quindi presentare la forza del distaccamento. Il Casazza era un biondino della Lomellina, ubbidiente, sempre disponibile e buono come il pane.
Per sbloccare la comica situazione fu sufficiente un calmo e bonario: “Comodo! comodo!” esclamato del Colonnello. Era un piemontese dalla corporatura imponente, intransigente ma evidentemente anche molto comprensibile …

IL PRIMO INCARICO
Il primo incarico che Vinicio Callegari ricevette al suo arrivo in Battaglione fu quello di organizzare il trasporto di due CPM di legna in una casermetta a Varna, in provincia di Bolzano. Avrebbe dovuto comandare un plotoncino di alpini per caricare a mano la legna presso un deposito vicino alla caserma e scaricarla dove convenuto.
Vide in piazzale due camion con autisti e 4 alpini in uniforme da lavoro.
“Capperi – si disse - l’Aiutante Maggiore oltre che dare l’ordine mi ha procurato tutto il necessario”.
Si avvicinò ai due mezzi e diede le sue disposizioni. Vide gli occhi degli alpini sgranarsi: gli dissero timidamente che avevano un altro ordine. Ma Vinicio non volle sentire ragioni e si partì.
Al rientro, era l’ora di rancio, venne preso per la collottola dal maggiore: quegli automezzi erano destinati al trasporto munizioni ed avrebbero dovuto recarsi in polveriera ...
Per tacitare l’accaduto, Vinicio spese quasi mezzo stipendio al circolo ufficiali …

FORNI AVOLTRI: LA RIVINCITA DEI MULI
Gennaio 1972.
Bruno Brachet, Mirco Bozzo e Valerio Poggi furono destinati presso l'8° Reggimento Alpini ed accorpati all'11° compagnia, battaglione Mondovì, a Forni Avoltri, in Friuli.
Erano appena arrivati nel bel paesino dell’Alta Val Degano, che subito incominciò il campo invernale. Questo lungo addestramento, della durata di un mese, prevedeva che per dieci giorni si rimanesse stabili nello stesso posto e che per i restanti venti ci si spostasse in continua mobilità.
Per il campo fisso fu scelta un'altura sopra il paese.
Effettuarono in zona le esercitazioni programmate ed alloggiarono nella malga ‘Casera Tuglia’. Quel rustico edificio era stato messo a disposizione degli alpini dagli allevatori del posto, che erano soliti utilizzarlo per il ricovero del bestiame, condotto al pascolo nel periodo estivo.
Purtroppo con il passare dei giorni le nevicate si fecero sempre più insistenti ed il sentiero che portava alla baita fu completamente sommerso dalla neve: già impraticabile in stato normale dai mezzi motorizzati, quella stradina di montagna divenne così inagibile anche per i muli, i soli in grado di trasportare i rifornimenti ai soldati dislocati in quella malga sperduta.
Fu subito individuata una opportuna alternativa: marmitte, vitto, fabbisogno giornaliero e quant’altro necessario sarebbe stato caricato sulle spalle dei robusti conducenti dei muli …!
Incredibilmente, grazie a quei volonterosi alpini, per l’occasione trasformati in ‘bipedi da soma’, alla compagnia non mancò mai nulla ed ogni giorno continuò persino ad arrivare il vitto caldo.
Si racconta inoltre che in quel periodo i simpatici muli, tranquillamente stravaccati al calduccio nella malga, ogni qual volta vedevano arrivare trafelati i loro conduttori carichi come invece capitava sempre a loro, avessero progressivamente trasformato il loro raglio abituale in una sorta di stridulo sogghigno umanoide.
Per fortuna, non risulta che nessun alpino abbia mai cominciato a scalciare …!

UN SILENZIO FUORI ORDINANZA
Alla caserma Testafochi del Battaglione Aosta una sera di primavera 1972 c’era un po’ di fermento dovuto al fatto che i Sottotenenti del 62° corso AUC il giorno dopo sarebbero andati a casa in quanto il loro periodo di servizio militare (15 mesi) era terminato.
Passati pochi minuti dopo le 23 e già suonato il silenzio a conclusione della giornata, Michele Casini, Sottotenente della 134° compagnia mortai, decideva di fare un regalo ai ‘nonni’ congedanti e, facendosi aprire dalla guardia di turno il portone della carraia, portò la propria macchina al centro del cortile della caserma. Aperte completamente le due portiere dove erano collocati gli altoparlanti inserì un nastro Super 8 (chi le ricorda?) con le suonate del celeberrimo trombettista Nini Rosso. Posizionato il nastro sul ‘silenzio’, a tutto volume iniziò la riproduzione. 
Era completamente buio e, appena il suono prese voce, il silenzio all’interno della caserma divenne assoluto.
Tutti quelli che erano all’interno si avvicinarono alle finestre ascoltando il silenzio cosiddetto ‘fuori ordinanza’.
Fu un momento di grande emozione che coinvolse i partenti ed anche, ovviamente, chi restava. L’ufficiale di picchetto quella sera non era un Sottotenente di complemento, come solito, ma un tenente. Infatti nelle ultime settimane erano arrivati in caserma dei tenenti provenienti dalla Scuola di Applicazione per fare un po’ di esperienza al Battaglione anche come Ufficiali di Picchetto.
Al termine del brano musicale Michele riportò l’automobile fuori dalla caserma e rientrando l’Ufficiale di Picchetto gli disse che il Comandante del Battaglione (Ten. Col. Cesare Di Dato) lo aveva chiamato in merito al ‘fuori programma’ per avere spiegazioni comunque rinviate al mattino successivo.
Michele tranquillizzò il Tenente dichiarando che l’indomani avrebbe informato il Comandante della propria responsabilità.
Regolarmente il mattino successivo Michele, con colpo di tacco perfetto, entrò al Circolo Ufficiali salutando i Colleghi ed il Comandante dichiarandosi responsabile del ‘silenzio’ della sera precedente e, considerato che si era trattato solo di un regalo, apprezzato in verità da tutti, si dichiarò disponibile a fare ammenda con un brindisi a proprio carico.
La proposta venne accolta positivamente da tutti, compreso il Ten. Col. Cesare di Dato, ottimo Comandante e gentleman. 

L’ARTISTA
Durante la selezione delle reclute al CAR di Bra, lo Sten. Sandro Cerrato, laurea in lettere, poeta, sognatore, si trovò ad esaminare un giovane che disse di essere musicista e pittore.
La selezione terminò all'istante. Sandro non volle che quel ragazzo finisse in pasto alla truppa. Tra commilitoni, un buon bevitore di grappa valeva più di un artista di talento!
Fu così che l'ufficiale arruolò il giovane come attendente da condividere con il compagno di camera, lo Sten. Enrico Casalegno.
Enrico, dopo una settimana, di quell'artista ne aveva le tasche piene. Ore e ore di solfeggi, il mattino, invece di rifare i letti. Ore e ore con i pennelli in mano, il pomeriggio, invece di lucidare gli scarponi. Ma che razza di attendente era quello!
Se ne lamentò con Sandro, che non volle sentir ragioni: le opere dell'ingegno venivano prima dei lavori di manovalanza!
Si giunse infine ad un compromesso: l'attendente della sessione successiva sarebbe stato scelto da Enrico Casalegno.

IL SOMMELIER
Più avveduto si dimostrò lo Sten. Adriano Peracchia quando selezionò i militari da assegnare al Circolo Ufficiali. Tra gli altri, scelse un giovane che era sommelier al Muscatel, un ben frequentato bar-ristorante della Cinzano, sulla provinciale Alba-Bra.
Al Circolo, dietro il bancone del bar, in giacca viola e guanti bianchi, il militare preparava gradevolissimi aperitivi che serviva, ghiacciati, in calici ornati con spicchi di limone e   bucce d'arancia.
Il nostro alpino dava però il massimo alla Mensa Ufficiali dove, in occasione delle feste, esibiva il suo talento proponendo grandi vini d'annata da abbinare a cibi di alta qualità.
Scelta la bottiglia e mostrata l'etichetta, il sommelier descriveva le caratteristiche organolettiche di quel nettare prezioso, poi con un temperino elicoidale estraeva il tappo dalla bottiglia, annusava il sughero e versava un sorso di quel sangue di Bacco nel bicchiere dell'ufficiale più alto in grado.

Questi, annusati i profumi e tastati i sapori, con l'autorità che gli era conferita dalle stellette, approvava la scelta e dava il via alla libagione con un formale cenno del capo. 








PARTE TERZA:
A CHI E ANDATO AVANTI





CAPITOLO 66
IL PARADISO DI CANTORE


‘Raggiungere il Paradiso di Cantore’ è un’espressione in uso tra gli Alpini, con la quale si indica la morte di un compagno d’armi.
Nasce nell’immediato dopoguerra 1915-1918, quando un giornalista del Corriere della Sera, Mario Bisi, pubblicando un articolo a ricordo degli alpini morti in guerra, immaginò che il generale Antonio Cantore, caduto tra i primi sulle Tofane, dall’aldilà passasse in rivista i battaglioni composti da chi era già deceduto.

Ed è in questo paradiso parallelo, in mezzo alle nostre montagne e riservato soltanto agli Alpini, che vogliamo ricordare i nostri compagni del 64° che sono andati avanti.

FRANCO FAVINI                          1972
ALBERTO TURINI                        1972
ALFREDO PEAQUIN                   1984
GIUSEPPE GUADAGNINI          1992
ROBERTO GAMBINO                  1994
CLAUDIO MARTELLO                1994
SANDRO FRANCESCHINI          2000
VALERIO GATTI                           2000
DOMENICO FENILI                    2002
ENRICO CASALEGNO                2003
GIANNI PEDRAZZOLI               2006
NEREO TERRERAN                     2007
ALESSANDRO BARATTO           2008
GIUSEPPE PINTER                      2008
ROBERTO SALATI                       2009
FRANCO CASATI                          2011
MARIO BRIGNOLI                       2013
GIANPAOLO LUPANI                 2013
GIOVANNI LONG                        2014
PIERO BORRO                               2015
FLAVIO FAVA                                2015






CAPITOLO 67
IN MEMORIA DI FRANCO FAVINI


Il Sottotenente Franco Favini, classe 1943, laureato in ingegneria edile, era fidanzato ed era residente a Roma. Arrivato ad Aosta, fu assegnato alla terza camerata, con la qualifica di fuciliere.
Venne poi destinato in servizio di prima nomina al Battaglione Addestramento Reclute Julia, all’Aquila.
Domenica 4 giugno 1972, da solo e senza informarne chicchessia, il Sottotenente Franco Favini si avviò per un’escursione sul Corno Grande del Gran Sasso d’Italia.
Cadde al Passo del Cannone.
I suoi resti, dopo una caduta di circa 700 metri, vennero recuperati nella Valle dei Ginepri e deposti nella tomba di famiglia, a Modena.
Il 22 settembre 1972, Stefano Benazzo, Evelino Mattelig e Paolo Nicoli posero una croce con una targa esplicativa nel luogo dove era caduto.
Evelino prese nota degli eventi della giornata: partenza dall’Aquila (quota 723), Prati di Tivo (quota 1.400), La Madonnina (quota 2.028), Passo Scalette, Valle delle Cornacchie, Rifugio (quota 2.433), Sella Due Corni (quota 2.547), Passo del Cannone (quota 2.679).
Il 10 agosto 2014, il Sottotenente Favini viene ricordato nel corso di una cerimonia Alpina a Paspardo, cui partecipano la vedova di suo fratello e sua nipote, rintracciate dopo lunghe ricerche, grazie ad Evelino ed all’Alpino Pietro Salari, responsabile dell’Ufficio di Stato Civile del Comune di Paspardo (Val Camonica, BS). Diversi componenti del 64° Corso sono presenti a Paspardo, con il Gagliardetto del Corso.
In occasione dell’Adunata ANA all’Aquila, poiché l’antica croce è scomparsa, nasce l’idea di recare un’altra croce al Passo del Cannone.
Purtroppo il Soccorso Alpino ci informa che c’è ancora troppa neve sul Corno Grande.
Si decide quindi di fare celebrare una S. Messa il 16 maggio 2015 al Santuario Giovanni Paolo II, a San Pietro della Jenga (vicino ad Assergi).
La messa è officiata da Don Nelson Callegari.
Sono presenti tutti i componenti del 64° Corso presenti all’Aquila per l’Adunata, il Reduce Alpino Ugo Balzari, ingegnere 95nne (guerra in Russia a 20 anni, ritirata del Don, portaordini, guida alpina, aiutante di Don Gnocchi, ha recentemente pubblicato un libro di memorie) e numerosi turisti giunti in gita.
Giuliano Secchi ricorda uno per uno i compagni del 64° Corso andati avanti.
Franco Zanin recita la Preghiera dell’Alpino.

 
L’Alpino Balzari legge una sua poesia, la Preghiera del Reduce.




CAPITOLO 68
CIAO, AMICI MIEI!


Mirco Bozzo, Franco Favini, Alfredo Peaquin e Alberto Turini avevano impiegato poco tempo a fraternizzare.
Ben presto divennero inseparabili.
Uscivano insieme tutte le sere.
Quando Alberto passava in camerata a chiamare Mirco, Ermanno Tegami non cessava di redarguirlo: "Mettiti le pattine", gli diceva scherzosamente affinché non sporcasse il pavimento lucidato a cera.
A fine corso, durante la licenza natalizia, per Capodanno, si ritrovarono per festeggiare tutti insieme. Erano stati invitati a cena dai genitori di Alfredo, che abitavano a Verres, a pochi chilometri da Aosta.
Poi ancora, sempre loro quattro e sempre inseparabili, erano volati in macchina a Valtournenche.
Lì, affacciati ad un orrido, con l’acqua di montagna che scorreva rumorosa nella profonda fessura, avevano brindato al nuovo anno, con la piramide di granito più bella del mondo, il monte Cervino, testimone lucente e silenzioso.
Alberto, Alfredo e Franco sono andati avanti.
E’ rimasto il solo Mirco, quaggiù, a ricordare quei momenti di infinita dolcezza.
Ci sarà tempo per rincontrarsi.

BRUNICO. Per gli ex ufficiali del 64º corso Auc della Scuola militare alpina di Aosta e per gli alpini del Gruppo Ana di Fondo, in val di Non, ma in generale per tutta l'ex Tridentina, per l'Ana (Associazione nazionale alpini) e per le Truppe alpine in generale, la data del 27 aprile di ogni anno segna un appuntamento che in pochi dimenticano. Quest'anno il ricordo si è fatto sentire ancora di più, visto che sono trascorsi esattamente quarant'anni da quel 27 aprile del 1972 quando, fresco di prima nomina, il sottotenente Alberto Turini, in forza al Sesto Reggimento Alpini di Brunico, moriva con tre commilitoni altrettanto giovani, il sergente Franco Trentini e gli alpini Edilio Tesconi e Bruno Zanchi, nell’uscita di strada del mezzo cosiddetto Acl su cui viaggiavano dalla Val Pusteria alla volta di Bolzano, da dove sarebbero partiti per un corso di arrampicata in roccia. Il mezzo militare, affrontando l'allora stretta curva a sinistra che immetteva sul cavalcavia, sbandò, tirò letteralmente giù il comunque basso guard rail e precipitò proprio sulla sottostante linea ferroviaria pusterese.

 

Davanti alla stele di marmo bianco che alcuni anni più tardi venne collocata a memoria del tragico incidente, quest'anno, come detto nel quarantennale di quella disgrazia, si sono radunati un numero finora mai visto di commilitoni delle vittime di quella sciagura, di ex ufficiali del 64° Auc e di ex alpini, senza dimenticare i rappresentanti del Sesto Reggimento. I veci e gli alpini convenuti hanno assistito con i gagliardetti al vento alla messa. La funzione religiosa è stata celebrata dal cappellano militare don Valentino Quinz, con il suggestivo arricchimento delle melodie del Coro Plose di Bressanone, in ricordo dei quattro giovani morti e dei sopravvissuti alla tragedia.
(ALTO ADIGE, 6 maggio 2012)




CAPITOLO 69
IL CALVARIO DI ENRICO CASALEGNO


Evelino Mattelig e Franco Zanin, impegnati nella laboriosa ricerca dei componenti del 64° Corso AUC per organizzarne un ritrovo, avevano appreso da Alessandro Cerrato che Enrico Casalegno era stato aggredito nel 1998 da una rara e molto invalidante malattia.
Già il suo nome esplicava la pena che comportava ai suoi sottoposti: la sindrome di Locked-In, cioè di chi si sente ‘chiuso dentro se stesso’. Enrico infatti non aveva alcun movimento motorio, praticamente era paralizzato, ma era consapevolmente vigile e riusciva solo ad esprimersi verbalmente con enorme fatica. Quella malattia degenerativa concedeva al malato un periodo di sopravvivenza molto limitato, superato solo in pochi casi al mondo.
Enrico era uno di quelle eccezioni.
Nessuna cura era ancora riuscita a debellare quel rapace interiore che divorava inesorabilmente le sue malcapitate vittime. In quegli anni la ricerca medica di farmaci adeguati procedeva a passi lentissimi e infruttuosi. Forse le industrie farmaceutiche non ritenevano abbastanza remunerativo lo sviluppo di medicinali destinati ad un numero di pazienti così ristretto.
Un giro di telefonate riunì un gruppetto di AUC compagni di Enrico.
Andarono insieme a San Raffaele Cimena a fare visita al loro compagno per portargli un poco di conforto.
La moglie li accolse con grande affabilità e li introdusse al suo capezzale. Encomiabile era la dedizione della donna nell'accudire amorevolmente il marito in quelle povere condizioni con tanta instancabile determinazione. Lui stava percorrendo lentamente un'altra tappa della sua incredibile Via Crucis, avendo riacquistato solo da poco tempo l'uso stentato della parola. Finalmente allora riusciva a comunicare a voce con il mondo che lo circondava, anche se in modo faticosissimo.
Quante e quali dolorose peripezie aveva già dovuto affrontare!
Accolse i vecchi amici con un sorriso spiazzante, disteso in quel letto di dolore.
Bugatti, Mattelig, Tosolini e Zanin, i più abili a nascondere il loro intimo dispiacere al suo cospetto, cercarono di coinvolgerlo scherzosamente nei vecchi ricordi della Smalp.

 
Enrico Casalegno con Evelino Mattelig, Franco Zanin, Luigi Bugatti, Alberto Orecchia, Valentino Bartelle, Paolo Tosolini e Alessandro Cerrato.

Il rivangare quelle situazioni del passato fu per lui fonte di momentanea felicità, avendole condivise quando era ancora immune da quella pena.
Quella visita ottenne gli effetti auspicati di solidarietà. Sempre supportato nell'esprimersi dalla moglie, Enrico congedò gli amici, con voce flebile ed un sorriso disarmante sulle labbra, dicendo loro: "Oggi sono molto contento: mi ha fatto grande piacere rivivere con voi certi episodi di Aosta. La vita é fatta di emozioni e io oggi sono tanto felice perché ne ho vissuta una grande grazie a voi e vi ringrazio di cuore!".
La sua esternazione commosse tutti. In quegli attimi si era sentito alleggerito del peso della croce che stava portando! Non si può vedere soffrire una persona che ha il sorriso sulle labbra senza rimanerne colpiti nell'intimo. Alberto, Alessandro, Evelino, Franco, Luigi, Paolo e Valentino, tutti con gli occhi lucidi che cercavano malamente di nascondere, lo salutarono con l'impegno di ritornare a fargli visita.
Che persona era Enrico nel suo dolore!
Dopo il suo commiato e seduti a tavola nel vicino ristorante, gli amici ufficiali rivangavano l’accaduto; erano segnatamente felici di aver momentaneamente alleviato quella sofferenza inverosimile rasserenando, anche se solo per pochi attimi, la giornata di Enrico.
Ancora oggi che lui non c'è più, molti lo ricordano sempre nelle loro preghiere.








PARTE QUARTA:
UN PO DI NUMERI








CAPITOLO 71
I RAGAZZI DEL 64mo


AUC CAM. SPECIALITA' DESTINAZIONE CASERMA
Albertoni Nerio 1 fuciliere
Alga Renato 9 fuciliere Feltre (BL) Zannettelli
Alineri Giuseppe 5 fuciliere Tarvisio (UD) Lamarmora
Baratto Alessandro 12
Barbazza Stanislao 14 arresto S.Stefano Cadore (UD) Calbo
Barberis Renato 16 mortaista 81 Tarvisio (UD) Lamarmora
Baronio Angelo 16 mortaista Monguelfo (BZ) Battisti
Bartelle Valentino 12
Bazurro Sandro 8 fuciliere Cuneo Battisti
Bellini Umberto 1 fuciliere Tai di Cadore (BL) Calvi
Beltramini Franco 16 mortaista Paluzza (UD) Plotzner Mentil
Benazzo Stefano 18 mortaista
Berlini Angelo 11 armi tiro teso Venzone (UD) Feruglio
Bertarione Bartolomeo 15 pioniere Pinerolo (TO) Berardi
Berti Luciano 13
Bianchi Gabriele 15 esploratore Vipiteno (BZ) Menini-De Caroli
Bocco Franco 6 fuciliere Savigliano (CN) Trosarelli
Borghi Mario 13 arresto Cavazzo Carnico (UD) Bernardini
Borro Piero 7 fuciliere San Rocco (CN) Vian
Bortolomiol Marcellino 15 esploratore Feltre (BL) Zannettelli
Bozzo Mirco 1 fuciliere Forni Avoltri (UD) Durigon
Brachet Bruno 16 mortaista Forni Avoltri (UD) Durigon
Braggion Roberto 3 fuciliere Chiusaforte (UD) Zucchi
Brembati Franco 2 fuciliere
Brignoli Mario 12
Brociero Ernesto 8 fuciliere Pinerolo (TO) Berardi
Brunetti Giorgio 11 armi tiro teso Merano (BZ) Battisti
Brunetto Valerio 7 fuciliere San Rocco (CN) Vian
Buffa Giovanni 5 fuciliere San Rocco (CN) Vian
Bugatti Luigi 2 fuciliere Pontebba (UD) Zanibon
Buizza Giorgio 9 fuciliere Aosta SMALP
Burgstaller Franco 13 Aosta SMALP
Cainero Eddi 13
Callegari Vinicio 15 pioniere Bressanone (BZ) Reatto
Casalegno Enrico 3 fuciliere Bra (CN) Trevisan
Casati Franco 16 mortaista Merano (BZ) Rossi
Casetta Michele 2 fuciliere
Casini Michele 18 mortaista 120 Aosta Testafochi
Castelli Francesco 1 fuciliere
Cavareta Leonardo 2 fuciliere
Cecconi Mario Agostino 15 pioniere
Cenzi Giovanni 2 fuciliere Agordo (BL) XXII Marzo 1848
Cerrato Alessandro 4 fuciliere Bra (CN) Trevisan
Cerri Piergiuseppe 7 fuciliere Venzone (UD) Feruglio
Clemente Franco 13
Cocchi Ennio 3 fuciliere
Colombo Giorgio 10 fuciliere Monguelfo (BZ) Battisti
Colorio Giuliano 8 fuciliere Feltre (BL) Zannettelli
Cominola Claudio 12 trasmissioni Tai di Cadore (BL) Calvi
Conconi Paolo 18 mortaista San Candido (BZ) Cantore
Coppo Marco 14
Costantini Fernando 13
D'Acunto Giovanni 9 fuciliere Monguelfo (BZ) Battisti
Dalla Colletta Giovanni 14
Dalle Molle Egidio 11 armi tiro teso Pieve di Cadore (BL) Buffa di Perrero
De Carlini Tarcisio 16 mortaista
De Paoli Antonio 12 trasmissioni Tarviso (UD) Lamarmora
De Pellegrin Aldo 13 arresto San Candido (BZ) Druso
Del Giorgio Adriano 4 fuciliere Aosta SMALP
Della Valle Adriano 10 armi tiro teso
Dus Claudio 4 fuciliere
Faccioli Armando 13 trasmissioni Ugovizza(UD) Solideu d'Incau
Fava Flavio 5 fuciliere Brunico (BZ) Lugramani
Favini Franco 3 fuciliere L'Aquila Rossi
Fenili Domenico 4 fuciliere
Ferrando Ugo 1 fuciliere
Ferrario Franco 16 mortaista Chiusaforte (UD) Zucchi
Ferrato Rinaldo 12
Fioroni Marco 3 fuciliere
Flematti Massimo 17 mortaista San Candido (BZ) Cantore
Foglia Paolo 18 mortaista
Forni Pier Giuseppe 18 mortaista Malles Venosta (BZ) Wackernell
Franceschini Sandro 13 arresto San Candido (BZ) Druso
Francescon Pierpaolo 2 fuciliere
Furlan Gianni 18 mortaista
Gaddo Maurizio 8 fuciliere
Gallino Pierluigi 4 fuciliere Merano (BZ) Rossi
Gambino Roberto 14 controcarro Tai di Cadore (BL) Calvi
Gasparini Diego 4 fuciliere
Gasperina Lorenzo 9 fuciliere
Gatti Valerio 5 fuciliere
Gazzera Livio 7 fuciliere
Gazzoli Dario 3 fuciliere Malles Venosta (BZ) Wackernell
Gentili Ivano 11 armi tiro teso Pontebba (UD) Fantina
Gianoli Aldo 14 controcarro Paluzza (UD) Plotzner Mentil
Giongo Mauro 17 mortaista Malles Venosta (BZ) Wackernell
Giuliani Attilio 6 fuciliere
Giuliani Giuliano 12
Gloder Iganzio 5 fuciliere Feltre (BL) Zannettelli
Gottardi Uldarico 6 fuciliere Malles Venosta (BZ) Wackernell
Grassi Maurizio 17 mortaista 81 Pieve di Cadore (BL) Buffa di Perrero
Grillo Pasquarelli Enrico 5 fuciliere Oulx (TO) Assietta
Guadagnini Giuseppe 14 arresto San Candido (BZ) Druso
Ivaldi Luciano 4 fuciliere Bra (CN) Trevisan
Lazzarotto Ennio 6 fuciliere
Leonardi Franco 17 mortaista
Levrero Giuliano 5 fuciliere Aosta Testafochi
Libardi Cesare 9 fuciliere Merano (BZ) Rossi
Loiacono Carletto 10 armi tiro teso
Long Giovanni 11 armi tiro teso
Longo Roberto 6 fuciliere
Lorenzi Mario 18 mortaista Aosta Testafochi
Lucchina Giovanni 15 controcarro Merano (BZ) Rossi
Lupani Gianpaolo 6 fuciliere San Rocco (CN) Vian
Maina Giorgio 17 mortaista Venzone (UD) Feruglio
Marchelli Alfredo 15 Aosta Testafochi
Marchini Gianantonio 6 fuciliere
Marconi Filippo 6 fuciliere Brunico (BZ) Lugramani
Marguerettaz Piergiorgio 5 fuciliere San Rocco (CN) Vian
Martello Claudio 6 fuciliere
Mascolo Franco 6 fuciliere Belluno Salsa
Masnata Paolo 5 fuciliere San Rocco (CN) Vian
Mattelig Evelino 8 fuciliere Pontebba (UD) Zanibon
Meneghini Alfonso 7 fuciliere Tai di Cadore (BL) Calvi
Mensi Dario 1 fuciliere Malles Venosta (BZ) Wackernell
Merlini Luigi 10 fuciliere Chiusaforte (UD) Zucchi
Merlo Teobaldo 2 fuciliere Monguelfo (BZ) Battisti
Micol Paolo 7 fuciliere
Miglioretti Alessandro 11 armi tiro teso Paluaro (UD) Monte Paluaro
Milan Giuliano 17 mortaista
Miotti Rolando 11 armi tiro teso
Moneta Paolo 1 fuciliere Aosta SMALP
Monti Paolo 7 fuciliere Bressannone (BZ) Reatto
Moro Maurizio 2 fuciliere Cuneo Battisti
Mosso Pietro 17 mortaista
Munini Renzo 13 arresto Cavazzo Carnico (UD) Bernardini
Narratone Giovanni 9 fuciliere Mondovì (CN) Galliano
Nassano Aldino 11 armi tiro teso
Nesta Paolo 7 fuciliere
Nicoli Paolo 3 fuciliere
Orecchia Alberto 7 fuciliere Feltre (BL) Zannettelli
Ostinelli Paolo 10 armi tiro teso
Pancera Mario 15 controcarro Belluno Salsa
Pasquino Giovanni 8 fuciliere Boves Cerutti
Peaquin Alfredo 4 fuciliere Paluzza (UD) Plotzner Mentil
Pedrazzoli Gianni 16 pioniere
Pennacchioni Paolo 2 fuciliere
Peracchia Adriano 7 fuciliere Bra (CN) Trevisan
Perron Aldo 8 fuciliere Cuneo Battisti
Pfeifer Luis 15 esploratore Bressanone (BZ) Reatto
Piasini Felice 14 arresto Saltusio (BZ) Caserma di sbar.
Pighetti Umberto 18 mortaista Pinerolo (TO) Berardi
Pini Roberto 10 armi tiro teso
Pinter Giuseppe 17 mortaista Glorenza (BZ) Petiti
Piolini Mauro 17 mortaista 81 San Candido (BZ) Cantore
Pisetta Camillo 13
Poggi Valerio 3 fuciliere Forni Avoltri (UD) Durigon
Prati Roberto 16 mortaista
Quaranta Giorgio 17 mortaista 81 Pinerolo (TO) Berardi
Rabbolini Arnaldo 3 fuciliere
Randon Emilio 15
Rebulla Gianfranco 1 fuciliere Pieve di Cadore (BL) Buffa di Perrero
Rizzo Franco 17 mortaista Malles Venosta (BZ) Wackernell
Rosana Vincenzo 9 fuciliere
Rossi Angelo 8 fuciliere Cuneo Battisti
Roviaro Alberto 16 pioniere Feltre (BL) Zannettelli
Rulfi Pier Giorgio 15 esploratore Chiusaforte (UD) Zucchi
Rumiz Paolo 14
Salati Roberto 1 fuciliere Aosta Testafochi
Saldan Pietro 10 armi tiro teso Feltre (BL) Zannettelli
Salvador Antonio 12 trasmissioni Chiusaforte (UD) Zucchi
Sandrone Mario 9 fuciliere Cuneo Battisti
Sapori Paolo 9 fuciliere Chiusaforte (UD) Zucchi
Scavarda Mauro 12 Aosta SMALP
Schena Lino 5 fuciliere Vipiteno (BZ) Menini-De Caroli
Secchi Giuliano 8 fuciliere Monguelfo (BZ) Battisti
Sivieri Enrico 16 pioniere
Slaghenaufi Paolo 9 fuciliere Bolzano Vittorio Veneto
Soave Angelo 4 fuciliere Tarvisio (UD) Lamarmora
Soldati Luigi 11 armi tiro teso
Sori Nevio 14 arresto Chiusaforte (UD) Zucchi
Stabiini Cesare 10 armi tiro teso San Candido (BZ) Cantore
Tegami Ermanno 1 fuciliere Mondovì (CN) Galliano
Terreran Nereo 18 mortaista 120 Belluno Salsa
Tesio Roberto 11 armi tiro teso Aosta Testafochi
Tomasi Mauro 14 arresto San Candido (BZ) Druso
Tonon Mario 14 arresto Paluzza (UD) Plotzner Mentil
Tosolini Paolo 10 armi tiro teso Chiusaforte (UD) Zucchi
Tropenscovino Giuseppe 10 armi tiro teso Aosta Testafochi
Turini Alberto 4 fuciliere Monguelfo (BZ) Battisti
Unterberger Sebastian 12 Bressanone (BZ) Reatto
Valentini Fabio 8 fuciliere
Viarengo Luigi 18 mortaista 120 Bressanone (BZ) Reatto
Zanin Franco 2 fuciliere Agordo (BL) XXII Marzo 1848
Zordan Lorenzo 18 mortaista 120 Belluno Salsa




CAPITOLO 72
INDICE DELLE CITAZIONI (per capitolo)


ALBAROSA FRANCESCO                38,47,48,63.
ALBERTONI NERIO                          07.
ALINERI GIUSEPPE                          02.
ARATA (tenente)                                 48.
BALZARI UGO                                   67.
BARATTO ALESSANDRO                66.
BARBERIS RENATO                         39.
BARTELLE VALENTINO                  69.
BAZURRO SANDRO                         PR,01,03,12,16,17,24,36,41,52,53,57,59,64.
BELLINI UMBERTO                          07.
BENAZZO STEFANO                         01,14,67.
BERBELLINI ELENA                         04.
BERTARIONE BARTOLOMEO         12,21,22,27.
BISI MARIO                                        66.
BOIS ADOLFO                                   37.
BORRO PIERO                                   57,66.
BORTOLOMIOL MARCELLINO     01,23,61.
BOZZO MIRCO                                  07,27,36,65,68.
BRAGGION ROBERTO                     08,11,20,42,43,62.
BRIGNOLI MARIO                            66.
BROCIERO ERNESTO                      12,17,36,40,
BRUNETTO VALERIO                      17,57.
BUFFA GIOVANNI                             31,37,57.
BUGATTI LUIGI                                 69.
BUIZZA GIORGIO                             23,30.
BUIZZA MANUELA                          30.
BURDESE Capitano                            44,55.
CANTORE ANTONIO                        66.
CADDEO SERGIO                             46.
CALLEGARI DON NELSON            67.
CALLEGARI VINICIO                      PR,01,05,23,34,36,43,60,65.
CAMUSSO Capitano                          49.
CANDIANI MICHELE                      48.
CASALEGNO ENRICO                     06,44,50,57,65,66,69.
CASATI FRANCO                              66.
CASAZZA MARIO                             65.
CASETTA MICHELE                         06.
CASINI MICHELE                              01,37,40,65.
CASINI NAILA                                   01.
CASTELLA MARIO                           45.
CASTELLI FRANCESCO                  07.
CERRATO SANDRO                          44,57,65,69.
CERRI PIER GIUSEPPE                     PR,12,29,31.
COCCHI ENNIO                                 20.
COLAMEO (alpino)                            62.
COLORIO GIULIANO                       12,17,36.
COLOMBO GIORGIO                       12.
CONGEDO (il cane)                           25.
DELFINA (la mula)                            56.
DEL GIORGIO ADRIANO                22.
DE PAOLI ANTONIO                        31.
DI BIASI SERG.                                 45.
DI DATO CESARE                             37,63,65.
DI DOMENICO VINCENZO            45.
DROGO GIOVANNI                          42.
ELIA capitano                                     48.
FACCIOLI ARMANDO                     23.
FAVA FLAVIO                                    66.
FAVINI FRANCO                               66,67,68.
FENILI DOMENICO                          66.
FERRANDO UGO                              PR,07,27.
FERRARIO FRANCO                        01,16,18,20,39,45.
FIDANZA MAURO                            02,06,08,12,36.
FIORONI MARCO                             11,20,23,31.
FLEMATTI MASSIMO                      01.
FOLEGNANI GOVANNI                   12,18,26,27,28,31,32,36,38.
FORMELLI VITTORIO                      03.
FRANCESCHINI SANDRO               66.
GADDO  MAURIZIO                         36.
GALLAROTTI BRUNO                     03,23,37,39.
GALLIANO (sergente maggiore)       48.
GAMBINO ROBERTO                       66.
GARABELLO FRANCO                    48,63.
GARD SERGENTE                             07,39.
GASPARINI DIEGO                           13.
GATTI VALERIO                                 66.
GAZZERA LIVIO                                32.
GIACOMINA (la marescialla)             30.
GIANOLI ALDO                                 15.
GRASSI MAURIZIO                          01.
GUADAGNINI GIUSEPPE                66.
IPPOLITO GIOVANNI                       45.
IVALDI LUCIANO                             PR,33,44,51,55,57.
IVALDI MARIUCCIA                        33.
LAMBRI SOTTOTENENTE              28,29,36.
LEGRENZI FABRIZIO                      48.
LEVRERO GIULIANO                      PR,12,15,31,36,37,38,40,47,48,63.
LONG GIOVANNI                              66.
LORENZI MARIO                              15,37,38,40,48.
LUCCHINA GIOVANNI                     PR.
LUPANI PAOLO                                 12,57,66.
MARCHELLI ALFREDO                   37.
MARGUERETTAZ PIERGIORGIO   16,25,31,33,49,57.
MARCHELLI ALFREDO                    40.
MARTELLO CLAUDIO                     23,66.
MASNATA PAOLO                             57.
MATTELIG EVELINO                        PR,10,36,39,67,69.
MATTELIG LUIGI                              10,23.
MENSI DARIO                                    PR,07.
MIGLIORETTI ALESSANDRO         06.
MONETA PAOLO                                PR,01,07,22,27,34,36.
MONSUTTI PIERO                             48,63.
MORO MAURIZIO                             53,57,59.
NAPOLITANO COLONNELLO        28.
NARRATONE GIOVANNI                 02.
NASSANO ALBERTO                        23.
NICOLI PAOLO                                  08,67.
ONOFRI CLAUDIO                            44.
ORECCHIA ALBERTO                      04,12,35,44,46,69.
OTTAVIANO caporale                        45.
PASSERIN D’ENTREVSE S.TE        36.
PANCERA MARIO                             02.
PAPA’ MARCEL                                  24.
PASQUINO GIOVANNI                     PR,12,17,36,57.
PE’ (Alpino)                                        58.
PEAQUIN ALFREDO                        66,68.
PEDRAZZOLI GIANNI                     66.
PELLICO SILVIO                               46.
PERACCHIA ADRIANO                   32,44,57,65.
PERRON ALDO                                 PR,12,17,36,57,59.
PETROCCO LAMBERTO                 26,28.
PEZZALI GIORGIO                           45.
PFEIFER Alpino                                 49.
PFEIFER ALOIS                                 43.
PIASINI FELICE                                02,39,58,65.
PINTER GIUSEPPE                           66.
POGGI VALERIO                               08,65.
QUINZ DON VALENTINO               68.
RABBOLINI ARNALDO                   23.
REBULLA GIANFRANCO               07,23.
RIZZO FRANCO                                02.
ROSANA                                             32.
ROSSI ANGELO                                12,17,36.
ROVIARO ALBERTO                        PR,02.
SALATI BARBARA                           54.
SALATI MARINELLA                       01,54.
SALATI ROBERTO                            01,07,18,32,37,40,54,66.
SANDRONE MARIO                         06,25,32.
SECCHI GIULIANO                           PR,12,17,19,36,39,67.
SIVIERI ENRICO                                04.
SLAGHENAUFI PAOLO                    17.
SOAVE ANGELO                                PR,13,39,44.
SOLERI ARNALDO                            60.
TEGAMI ERMANNO                          02,68.
TERRERAN NEREO                           66.
TESCONI EDILIO                                67.
TESIO ROBERTO                                40.
TOGNINI ANGELO                            39.
TOSOLINI PAOLO                              69.
TRAVERSONE GUIDO                      48.
TRENTINI FRANCO                          67.
TROPENSCOVINO GIUSEPPE         37,40.
TURINI ALBERTO                             07,66,68.
TUTTOBENE (colonnello)                 59.
VALENTINI FABIO                           17,36.
VENUTTI alpino                                 45.
VERUNELLI (maggiore)                    12,20,27,28,31,36.
VITTONE (colonnello)                       65.
ZAMPA GIANCARLO                      38,48.
ZANCHI BRUNO                               67.
ZANIN FRANCO                               23,39,67,69.
ZORDAN LORENZO                         PR,23.
ZUZZI GILBERTO                              02.

1 commento:

  1. Michele Candiani, di Busto Arsizio, perito nell'incidente con l'elicottero era il mio adorato cugino.
    Vi ringrazio di questi ricordi e mi piacerebbe sapere se qualcuno l'ha conosciuto di persona e si ricorda qualche dettaglio di lui. Grazie, Bruno

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