33.
ADDESTRAMENTO ALLA RESISTENZA FISICA CON LE MARCE IN MONTAGNA
(Giuliano Secchi)
Non c'è dubbio che le dimensioni... contano. Di fronte ad allievi alti da m. 1,80 a m. 1,95 mi trovavo sempre in difficoltà anche nelle marce sul fondovalle. Loro, senza apparente fatica, facevano dei passi naturalmente lunghi e quelli come me, di altezza media, arrancavano anche quando si andava da Aosta a Pollein e si tornava in caserma, percorrendo meno di dieci chilometri.
Tra lezioni teorico-pratiche, studio sulle sinossi, addestramento formale e marce arrivò la metà di ottobre 1971. Le squadre ed i plotoni di assaltatori furono avvisati che il giorno successivo era in programma una marcia in montagna della durata complessiva di sei ore e mezza, con destinazione, se non ricordo male, Pila a m. 1814 s.l.m.
Molti incominciarono a preoccuparsi, andarono a leggere in bacheca e presero nota del materiale da mettere all'interno dello zaino. Durante la serata inserii nel mio zaino tutto ciò che era elencato, poi me lo misi sulle spalle e mi resi conto che pesava più di kg. 20. Fui tentato di alleggerirlo, ma mi trattenni, poiché era evidente che, se l'indomani fosse stata effettuata un'ispezione agli zaini, sarebbe stata impartita una punizione esemplare a quelli che si credevano "furbi".
Il giorno dopo ci fu la sveglia alle ore 6.00 ed alle 7.00 uscivamo dalla caserma, con lo zaino affardellato ed il fucile Garand. Andando in auto da Aosta a Pila ci sono da percorrere circa km. 18 su una strada, che sale con molta pendenza. Uscimmo dalla caserma (m. 583 s.l.m.) andammo in periferia ed imboccammo un sentiero inizialmente vicino alla strada asfaltata. Nella prima ora di marcia non sentii nessuno lamentarsi, passammo vicino a Charvensod senza problemi, poi il sentiero iniziò ad inerpicarsi con eccessiva pendenza almeno per me. In quei momenti desiderai non aver riempito lo zaino con tutto quello che era elencato in bacheca, a rischio di essere punito.
Essendo in marcia ormai da tre ore e mezza, mi sentii in forte difficoltà: non riuscivo a stare subito dietro al compagno che mi precedeva ed iniziai a rimanere un po' staccato. Qualcuno cercò d'incoraggiarmi, ma io arrancavo sempre di più, finché presi la gravissima decisione di lasciarmi cadere per terra, come fossi svenuto. Fui subito soccorso e un sergente ACS mi chiese se avessi bisogno dell'intervento di un'autoambulanza. Al mio diniego, un allievo prese il mio fucile, un altro più robusto (un vero montanaro) portò il mio zaino in aggiunta al suo, dichiarando poi che il mio era più pesante del suo. Dopo la mia defaillance, in mezzora di marcia giungemmo al culmine della salita nelle vicinanze di Pila, dove consumammo il rancio di mezzogiorno.
A tutti quelli che mi chiesero se fossi in grado di effettuare il percorso di ritorno, io risposi che stavo meglio e che avrei cercato di camminare fino all'arrivo in caserma. Alle ore 13.30 venne dato l'ordine "armi e bagagli in spalla!", allora presi il mio zaino ed il Garand e, siccome il percorso era quasi tutto in discesa, riuscii a tenere il passo degli altri ed a non restare distanziato fino in caserma. Mi aspettavo di essere convocato, invece nessun superiore mi chiese spiegazioni sul mio svenimento e non ci furono per me conseguenze disciplinari.
Sinceramente ho cercato di dimenticare tale episodio, che considero uno dei pochi fatti negativi della mia vita militare durata 15 mesi, più due richiami per aggiornamento. Se qualcuno lo racconterà ai miei familiari, io dichiarerò sempre che tale episodio non è mai avvenuto!
34.
PERNOTTAMENTO NELLE "TRUNE" AL COLLE S. CARLO
(Giuliano Secchi)
Mi sembra di ricordare che era arrivata la fine di novembre 1971
ed in quel tardo autunno aveva già nevicato diverse volte sopra i 1000 metri di
altitudine.
Mancavano pochi giorni all'inizio delle esercitazioni di fine
corso e le squadre di assaltatori furono avvisate che dopo cinque giorni era
prevista una permanenza notturna nei pressi del Colle S. Carlo a m. 1971
s.l.m. Prima di tutto si dovevano costruire
delle "trune", che erano dei ripari di neve ghiacciata a somiglianza
degli igloo, che gli eschimesi (bontà loro) ci avrebbero permesso di copiare,
senza violare i loro diritti di Copyright. Era poi previsto il pernottamento
nelle trune stesse, anche se la temperatura fosse stata di 10-15 gradi sotto
zero.
In pochi minuti si sparse la notizia e tutti fummo presi dal
panico. Le reazioni furono imprevedibili ed inaspettate: alcuni allievi
ufficiali dissero di voler telefonare al generale degli alpini di loro
conoscenza, per far annullare tale prova di sopravvivenza; altri incominciarono
a pensare di ammalarsi gravemente; altri ancora telefonarono ai familiari,
invitandoli a trovare su qualche enciclopedia consigli pratici per sopravvivere
a -10°; molti, infine, tristi ed abbattuti psicologicamente, commisero l'errore
di cercare conforto e comprensione, telefonando alle loro madri. Tralasciando i
toni delle lunghe telefonate nelle cabine telefoniche della caserma, o in
quelle dei telefoni pubblici, dopo due/tre giorni incominciarono ad arrivare
decine di pacchi con la scritta URGENTE-ESPRESSO, con all'interno maglie di
lana, maglioni norvegesi, mutande lunghe di lana e calzettoni pesanti. Le
nostre brave mamme non avevano ancora compreso che i loro "bambini",
che avevano dai 20 ai 29 anni, non avrebbero potuto indossare maglioni e
mutande lunghe di lana sotto il vestiario militare. A dire il vero, molti
indossarono i calzettoni pesanti di lana (fecero bene) ed alcuni anche le
mutande lunghe, ma quest'ultimi lo negarono.
Arrivò il fatidico giorno, uscimmo dalla caserma con gli zaini
affardellati e con i nostri fucili Garand, ci recammo alla stazione ferroviaria
di Aosta, salimmo su un treno, scendemmo alla stazione di Pré-St.-Didier, poi
fummo trasportati con autocarri militari fino a La Thuile (m. 1450 s.l.m.),
dove consumammo il rancio alle ore 11.30. Alle 12.30 fummo ancora trasportati
sui mezzi militari, finché rimasero bloccati per la troppa neve e noi
proseguimmo a piedi per 2 km. fino ad arrivare nelle vicinanze del Colle S.
Carlo a m. 1971 s.l.m.
Ci dissero che in quel momento la temperatura era di -5°. Alle
13.30 arrivammo in un pianoro, dove lo strato di neve era alto circa cm. 80 e
ci dissero che avevamo a disposizione soltanto tre ore e mezza, per costruire
le "trune", copiando la forma a mezza sfera degli igloo eschimesi. Ci
fu consigliato di avere uno spazio interno di m. 2,20 di diametro, in modo da
poterci stare in due o tre allievi. Dopo aver ammucchiato gli zaini ed aver
conficcato nella neve i calci dei Garand, prendemmo le baionette ed
incominciammo ad intagliare la neve ghiacciata, ricavandone parallelepipedi non
certo belli e perfetti delle misure di circa cm. 40x20x20 di altezza. Vicino a
me c'era Ernesto Brociero e, dopo aver ammucchiato alcuni blocchi di neve
ghiacciata, decidemmo di costruire una truna assieme. Dopo aver calpestato in
maniera uniforme una superficie circolare di circa m. 2,20 di diametro,
sistemammo i blocchi intagliati sulla linea della circonferenza. Man mano che
avevamo altri blocchi intagliati a disposizione, li collocavamo sopra quelli
sottostanti, con una progressiva inclinazione verso il centro. Anche nel
suddetto lavoro ci rendemmo conto come fossero più importanti le capacità
manuali e pratiche rispetto all'intelligenza teorica, che spesso va ad arrampicarsi
sugli specchi e non riesce a risolvere con urgenza i problemi pratici.
Non avendo un disegno tecnico da seguire ed osservando
l'avanzamento dei lavori degli altri, fu abbastanza difficile incastrare bene i
blocchi nella sommità a cupola della truna-igloo, che all'interno risultò alta
circa un metro e mezzo. Alle ore 17.00, quando incominciò a calare il buio e la
temperatura era già a - 8°, io ed Ernesto mettemmo all'interno un po' di
fogliame, poi sopra i due materassini parzialmente gonfiati, i sacchi a pelo, i
nostri zaini ed i due Garand. Avevamo i guanti militari di lana bagnati
fradici. Nella concitazione del lavoro, ci fu un aspetto positivo: non patimmo
il freddo, a causa della tensione nervosa. Fu un'impresa memorabile, poiché da
una parte c'era una battaglia contro il tempo, avendo a disposizione al massimo
tre ore e mezza, dall'altra si doveva completare una costruzione, che era
raffigurata sui libri di scuola, ma che mai era stata vista nella realtà.
Chiedendo qualche consiglio ai comandanti di squadra, un caporal maggiore
avvisò molti allievi di mettere, durante la notte, gli scarponi all'interno del
sacco a pelo. Fu un consiglio seguito da molti, ma non da tutti.
35.
35.
L’ESAME DI FINE CORSO
(Sandro Bazurro)
Il 15 di dicembre 1971 iniziarono
gli esami di fine corso, dopo i quali ci sarebbero state assegnate le varie
destinazioni.
Non che fossero esami difficilissimi,
indubbiamente li consideravo impegnativi.
Cito per buona memoria gli
argomenti di studio:
“Regolamenti” era una
materia abbastanza discorsiva, bastava studiare la “libretta” a memoria ed il
gioco era fatto.
“Lavori sul campo di battaglia”
era una materia divertente, bastava ragionare ed impegnarsi un po'.
“Topografia” richiedeva un
po' di ragionamento ed allenamento, ma per quello ero abbastanza preparato,
merito degli studi precedenti.
“Armi e tiro” era una
bella materia a mio giudizio; affascinante a chi piaceva smontare ed ahimè
rimontare meccanismi senza che avanzassero dei pezzi, ma poi... le cose si
ripetevano decine di volte.
“Trasmissioni” non era la
mia specialità e quindi non me ne preoccupavo molto, bastava la sufficienza.
“Addestramento al
combattimento” era una pacchia in confronto ad altre.
“N.B.C.” non mi piaceva,
anche se il saper indossare la maschera antigas correttamente e velocemente,
poteva risultare indispensabile, in certe situazioni. Per fortuna al momento si
era testato solo con innocue pasticche leggermente irritanti tipo fialette
lacrimogene gettate sui tram all'epoca della scuola, a Carnevale. Molto utile
comunque in camerata, quando, complice la
cena a base di uova e fagiolame, al momento di prendere sonno, il solito urlo
squarciava il silenzio notturno ...” Gaaas..Gaaas!!.”
“Scuola Comando”.. beh!
era il nostro lavoro, come si faceva a non farsela piacere.
“Arte Militare”, mah!
C'era chi era più o meno portato, ma non era poi così ostica.
Infine quelle che consideravo
minori, indubbiamente non meno importanti: contabilità, salmerie, nozioni di
sci alpinismo, impiego.
Il fatto è che già era abbastanza
difficile trovare qualcuno con il gusto della cultura militare, almeno così mi
parve per la maggioranza, ma poi tanto più che pochissimo era il tempo previsto
per lo studio; fatto sta che le prove di valutazione si rivelarono un ottimo
incentivo per convincere gli allievi a sacrificare allo studio il prezioso
tempo libero dalle esercitazioni e dai vari servizi di caserma.
Organizzandosi comunque in
qualche modo, tutti riuscivamo a procedere bene anche nella parte teorica
dell'addestramento.
Gli ultimi giorni di corso, dopo
l'esperienza del campo invernale, si rivelarono provvidenziali per ripassare la
“libretta”, colmare le lacune, appiccicare, almeno provvisoriamente, alcune
nozioni indispensabili, che avrebbero permesso di passare gli esami e non
buttare al vento sei mesi di duro lavoro.
Esaminato tra i primi, riuscii ad
ottenere la promozione con tre palline bianche, ovvero con i pareri favorevoli
di tutti e tre gli ufficiali esaminatori.
Tutti i compagni ebbero ottimi
risultati, solo uno non venne dichiarato idoneo, quindi respinto ed
immediatamente allontanato dalla scuola.
Terminerà la naja alla caserma
Testafochi di Aosta con il grado di caporal maggiore.
Per la cronaca mi risulta che nel
2015 la caserma sia stata demolita, per costruire la nuova università della
Valle d''Aosta.
A mio modesto parere, non credo
fosse il peggiore del corso, anzi a quel tempo ritenni che il provvedimento
fosse stato troppo severo ed ingiusto, ma nessuno chiese mai il mio parere.
36.
METTEMMO UN
MAZZOLINO … NELLA CANNA DEL FAL
(Gianfranco
Rebulla)
“Ci sarebbe da formare un coro, il coro del corso.
Chi sa cantare, chi può istruirlo?”
Così, pressappoco, le parole del Comandante pochi
giorni dopo essere giunti alla Scuola.
Avevo una modesta esperienza di direzione di coro
con quello della mia parrocchia a Milano e avevo seguito un breve corso di
impostazione della voce al canto e di direzione in un campo musicale in Canada,
oltre ad avere cantato in un coro classico in un campo musicale a Fermo.
Così mi arrischiai ad alzare la mano, titubante un
po’, non sapendo cosa mi sarei potuto aspettare, ma felice di impegnarmi in
qualcosa che non mi era estraneo rispetto a tutto quello che alla scuola
avevano fin dal primo giorno cominciato a inculcarci, cioè prepararci a… “fare
la guerra!” Così, se non ricordo male, ancora prima di poter accedere alla
libera uscita (è vero o no che siamo rimasti in quarantena per una quindicina
di giorni?), cominciai la selezione delle voci includendo anche i colleghi del
corso ACS.
Vennero in tanti e a tanti, Cerbero involontario,
dovetti a malincuore dire che non andavano bene e alcuni, ancora oggi, non se
ne sono fatta una ragione. Ma i prescelti erano il meglio! Mi procurai un paio
di libri con i canti di montagna armonizzati dai grandi (Pedrotti, De Marzi,
Benedetti Michelangeli) e cominciammo la preparazione. Eravamo una trentina e
fui sorpreso subito dalla serietà, dall’impegno e dall’entusiasmo con cui, a
sera, stanchi dopo una giornata di addestramento e rinunciando anche alla
libera uscita, riuscimmo in breve tempo a impostare i primi due canti: “Quel
mazzolin di fiori” e “Il Signore delle cime”.
Avevamo un appuntamento preciso per sbrigarci a
essere pronti e cioè il saluto al 63° corso. Così, un po’ emozionati, ci
accingemmo a cantare nell’aula magna piena di gente subito dopo l’esibizione
del coro del 63°. Appena finito di cantare - finimmo con il mazzolin di fiori:
“te lo vo-glio re-e-e-ga-laaaar" con il rallentando finale ben calibrato e
il vibrato giusto - lo scatto in piedi del comandante della Scuola che esclamò:
“Questo è un coro!” e gli applausi entusiasti del pubblico, ci fecero capire
che eravamo sulla strada giusta.
E da lì cominciò la carriera del nostro coro, un
coro con delle voci molto belle, alcune anche ben impostate da un’esperienza
pregressa in altri cori. Ma non solo: riuscivamo ad amalgamare l’insieme senza
quei fastidiosi sforamenti di una o più voci soliste che sono uno dei difetti
più frequenti nei cori amatoriali. E’ a loro che io devo il mio baffo di allievo
scelto, e a loro che va il mio grazie riconoscente per avermi evitato i servizi
di corvè alla Scuola. Molto rapidamente imparammo una decina di canti e fummo
pronti a rappresentare la Scuola in ogni occasione che ci venisse proposta.
Ovviamente la messa domenicale nell’ampio piazzale
della caserma diventò un appuntamento fisso e contribuimmo anche alle lacrime
di commozione di mamme e fidanzate alla cerimonia del giuramento del corso
successivo.
Due furono gli appuntamenti che mi restano vividi
nel ricordo.
Il primo la trasferta a Bobbio per non rammento più
quale evento (qui qualche collega può
forse aiutarmi?): partimmo da Aosta con corriera militare, sostammo a
Piacenza e sfilammo cantando inquadrati per le vie cittadine, cantammo tutto il
nostro repertorio a Bobbio, al ritorno ci fermammo in piazza del Duomo a Milano
e cantammo anche lì fra la sorpresa e gli applausi di milanesi e turisti. Il
tutto documentato da foto, alcune delle quali corredano il CD che molti anni
dopo riuscii a preparare cercando di equalizzare e mixare al meglio, grazie
all’aiuto di mio cognato Fabio, registrazioni di fortuna fatte su un Gelosino,
successivamente duplicate su musicassetta e fattemi pervenire da Franco Zanin e
Evelino Mattelig. Alla stampa del CD pensò
poi Alberto Nassano. Un vero lavoro d’equipe per preservare nel tempo le
tracce dei nostri “gorgheggi”. Lasciatemelo dire, da discografico: la qualità
tecnica dell’incisione lascia purtroppo molto a desiderare, ma nulla toglie al
valore documentale sull’attività di un gruppo di giovani che trovò durante la
“naja” un’occasione di arricchimento e
di svago.
L’altro appuntamento fu una gita con concerto a
La Thuile chiamati dal Generale Gallarotti con ballo finale nel quale, al
sottoscritto, fu concesso l’onore di un valzer con la moglie (bella moglie!)
del suddetto Generale. Un sano contraltare agli altri eventi che tutti noi
ricordano legati a La Thuile: l’assalto fuoco di fine corso e la notte nelle
trune al San Carlo.
Oggi, a più di 40 anni di distanza, vedo ancora le facce,
gli occhi, le espressioni dei miei compagni mentre li dirigevo: la musica, il
canto riesce a tirare fuori emozioni anche dal più riservato e timido degli
uomini e quegli alpini donarono a me e a tanti di quelli che li ascoltarono
sensazioni indimenticabili.
Grazie! Gianfranco Rebulla
37.
REMINISCENZE DEL SERVIZIO
MILITARE IN PILLOLE: LA PARTENZA
(Felice Piasini)
“… ma perché non fai la
domanda per il Corso AUC, visto che puoi? (titolo di studio), …tanto, senza
raccomandazione, non ti prendono la prima volta. Ogni anno rinnoviamo la
domanda, accumuli punteggio e prima o poi ti chiameranno”. Così il Sindaco di
Poggiridenti e dipendente del Distretto Militare di Sondrio si rivolgeva al suo
concittadino Felice Piasini. Ma, visto il ritiro dei propri allievi da parte di
una Regione, a causa di calamità naturali contingenti, e dovendo quindi
rimpiazzarli, gli organizzatori del 64^ Corso AUC chiamano d’urgenza il
Distretto di Sondrio, bacino sicuro, sempre pronto e ligio al dovere. E così,
dopo pochi mesi dalla fatidica frase: “tanto non ti prendono la prima volta…”
il 2 luglio 1971 viene recapitata la famosa cartolina con l’ingiunzione di
presentarsi entro il 4 luglio alla SMA (Scuola Militare Alpina) di Aosta. Il 4
luglio, il futuro allievo si trova catapultato insieme ad altri 5 valtellinesi:
Del Giorgio, Della Valle, Forni, Gianoli e Pedrazzoli alla “Cesare Battisti” di
Aosta. Ma, il 6 luglio, il nostro protagonista ha l’esame di Letteratura
Tedesca all’Università di Torino. Compilata la richiesta e ottenuta
l’autorizzazione, dopo i passaggi nei vari uffici, previsti dall’iter
burocratico militare, lo stesso giorno si trova seduto al 4° piano di Palazzo
Nuovo, in Via Sant’Ottavio, di fronte alla Mole Antonelliana, davanti al grande
Claudio Magris, Docente di Lingua e Letteratura Tedesca presso le Università di
Trieste e Torino, che così lo apostrofa: “Dove è finita la sua folta chioma?”
L’allievo, infatti, era già finito sotto le forbici di Cochise/Sadik, il più
famoso coiffeur di Aosta! “E così – sempre Magris – allora, futuro ufficiale
della Fanteria Alpina? ...e quindi, se scoppierà una guerra, io sarò suo
subalterno!”(Magris è sottufficiale degli Alpini). L’esame si conclude
positivamente, senza sapere se per merito delle conoscenze e competenze linguistiche
dello studente, o se per timore di un’eventuale guerra da parte del docente. In
seguito, dopo tanti anni, i due si incontrano ad un convegno, l’uno insegnante
di Tedesco nelle scuole superiori e l’altro sempre più il germanista n. 1 della
cultura mitteleuropea, ma, per farsi riconoscere, è d’obbligo la citazione del
6 luglio del 1971, relativa al grado Sottotenente/Sergente. Quanto a guerre
poi, … è andata bene ad entrambi, e per il futuro, vista l’età, ormai depennati
dagli elenchi dei “Riservisti”.
(Felix)
38.
RUBRICA: FIGURE DI M….
(Felice Piasini)
“Chi sa dipingere?” tuona il
sottotenente davanti alla 1^ compagnia schierata nel piazzale, in attesa di
essere smistati nelle varie mansioni di pulizia, in preparazione di una visita
importante. Una dozzina di allievi, dopo una rapida indagine mentale fra
passato artistico e valutazione di possibilità di imboscarsi… trac! Fa un passo
avanti. Allora l’ufficiale, sempre con tono imperante:” 1 – 2- 3- 4- 5 e 6,
prendete le scope e cominciate a spazzare il cortile, iniziando dalla Palazzina
degli Ufficiali”. Ghignate solenni e battutacce da parte dei compagni ai neo
pittori realisti della Scuola di Aosta!
(Felix)
Ore 8.30. L’allievo AUC Felice
Piasini viene prelevato da una AR alla “Cesare Battisti” e portato al Castello
di Beauregard (nido delle aquile/linguaggio criptato), sede del Comando della
Scuola Militare Alpina. Lì risiede il misterioso, ermetico e leggendario Gen.
Bruno Gallarotti. Missione con scopo ”raccomandazione”, in previsione delle
prossime assegnazioni degli allievi ai battaglioni al termine del corso,
secondo i compagni di camerata! No, missione umanitaria: portare i saluti
dell’alpino Angelo Tognini, classe 1917, di Castione Andevenno (So), al suo
comandante Gallarotti, (forse capitano allora) durante la Campagna di Russia.
Anticamera fino alle 11.30 fra andirivieni di ufficiali e relativo scatto
sull’attenti dell’allievo ad ogni passaggio. Finalmente si apre la porta e…
fine di ogni trepidazione, fantasticheria, preparazione e ripetizione della
frase di circostanza per non fare brutta figura. Non appare il Generale, ma un
viscido attendente che frettolosamente chiede il motivo della richiesta di
colloquio. Il Generale è occupato e non può ricevere; dei “saluti” gli verrà
riferito. Tre ore di attesa per essere liquidato freddamente da un… attendente,
col dubbio che i “saluti” non siano mai stati recapitati all’interessato!
(Felix)
Manca poco a mezzogiorno e una
AR sta rientrando da un sopralluogo alle opere di fortificazione/sbarramento
oramai dismesse, sopra Malles. A bordo il sottotenente F.P., comandante della
250^ di stanza a Glorenza, l’autista e 4
naioni. Entrando nell’abitato incrociano la barista più famosa del posto e,
tanto per cambiare, richiamano la sua attenzione con i classici fischi ed
epiteti. L’ufficiale richiama all’ordine, ma ormai la frittata è fatta. Si
pensa per un po’ di cambiare bar, per far decantare l’accaduto. Ma poi si
ritorna allo “Stammtisch” del solito bar. La barista si presenta al tavolo con
blocchetto e lapis per le ordinazioni, ma questa volta non è sorridente e
solare come al solito, anzi. Rivolgendosi
all’Ufficiale, visibilmente stizzita, acida, dice:”Ich heiße Magda! Bei uns nur
die Schafen rufen wir so!“ (da noi chiamiamo così solo le pecore). Quella
mattina il comandante non ordinò il ‘solito’ (panino con Speck e birra).
(Felix)
41.
39.
LA 115a COMPAGNIA MORTAI, IL TENENTE IPPOLITO ED UNA
ESERCITAZIONE PERFETTA
(Franco Ferrario)
La 115a Compagnia ‘specialisti al tiro
mortai pesanti da 120’ apparteneva al battaglione Cividale dell’8° reggimento della
Brigata Alpina Julia ed era di stanza nella caserma Zucchi di Chiusaforte in
provincia di Udine, poco distante da Tarvisio e dal confine con l’Austria e
l’ex Jugoslavia.
Ivi giunse nel lontano gennaio 1972, proveniente
dal 64° corso allievi ufficiali della Scuola Militare Alpina (la SMALP) di
Aosta, il sottoscritto sottotenente Franco Ferrario in servizio di prima
nomina.
La 115a Compagnia era comandata dal
tenente Giovanni Ippolito; il suo vicecomandante era un tenente, che non
incontrai mai in tutti i 9 mesi della mia permanenza, in quanto lo stesso era
stato distaccato a Udine con l’incarico di comandante della banda musicale di
Brigata.
Il sottotenente di complemento ‘anziano’ Ventura si
stava congedando proprio in quei giorni e così avvenne che, non ancora arrivato,
ero già diventato vicecomandante di Compagnia!
E che Signora Compagnia!
In forza alla 115a c’era il reparto
salmeria con ben 36 muli (la mia passione) e circa 150 tra graduati ed alpini e
i 3 sottufficiali, i sergenti Vincenzo Di Domenico, Giorgio Pezzali, Mario
Castella (quest’ultimo militare di carriera), oltre all’aggregato sergente Di
Biasi con il suo pastore tedesco addestrato per il soccorso antivalanga.
Ero chiamato quindi ad assolvere un compito
carico di responsabilità che avrebbe potuto facilmente impressionare un novello
ufficiale ancora privo di reali esperienze di comando. Grazie però all’acuta
sensibilità ed all’appoggio del mio superiore Ippolito (una persona
straordinaria, che, appena incontrata, già ti sembrava di conoscere da anni) non
fu affatto traumatico, anzi, lui riuscì a far risultare il mio inserimento nel
ruolo del tutto semplice e naturale.
Che il tenente Ippolito non fosse un maniaco del
formalismo militare e che invece preferisse anteporre alla rigida etichetta
un’interpretazione intelligentemente elastica di regole e burocratismi, era
universalmente noto. Possedeva infatti ottime competenze professionali, ma da
apprezzare in lui erano soprattutto le grandi doti umane, grazie alle quali si
meritava il rispetto, la leale obbedienza ed anche l’affetto dei sottoposti. Volentieri
sostituiva il protocollo gerarchico con rapporti diretti e spesso amichevoli mostrando
sempre grande comprensione e sincera attenzione verso i vari problemi personali
dei suoi soldati.
Non disdegnava tra l’altro di partecipare ad
infuocati incontri di calcio che organizzavano i suoi Alpini nell’attrezzato campo
antistante la caserma e ad affumicate serotine partite a carte nel locale
fureria (/’fumeria’), dove la visibilità, man mano che evolveva il gioco, tendeva
rapidamente a zero.
Forse anche a causa della sua personalità così poco
convenzionale, i suoi meriti non venivano sempre pienamente riconosciuti dalle alte
sfere che un po’ lo sottostimavano – o c’era dell’inconscia invidia? – e con
lui, conseguentemente, la sua Compagnia, ritenuta a volte ‘solo un disordinato insieme
di Alpini’. Nonostante avesse l’anzianità di servizio adeguata, infatti, non
era stato ancora promosso a capitano.
Il primo pesante impegno che si prospettò di lì a
… subito, fu il campo invernale.
Freddo, marce, percorsi scavati nella neve per il
passaggio dei muli, pernottamenti in quota in fienili o ‘trune’, pericoli e
boati di non lontane slavine… nulla ci fu risparmiato, eppure tutto filò
liscio.
Si era ormai arrivati a fine marzo, quando una
sera Ippolito mi chiamò nella sua stanza del circolo ufficiali e contorcendosi
per i dolori provocati quasi certamente da pesanti coliche, con un filo di voce
mi preannunciò che avrebbe dovuto essere ricoverato; tre-parole-tre,
pronunciate con fatica, costituirono l’intero passaggio di consegne: “Adesso
pensaci tu”.
Il mattino seguente il comandante del battaglione,
il colonnello Milanese, mi convocò a sua volta:
“Signor tenente Ferrario, il suo comandante sarà
assente per malattia e ne avrà per molto tempo. Il comando della Compagnia ora spetta
a lei”, aggiungendo quasi en passant: “Tra due giorni dovete partire per la scuola
tiri e le relative esercitazioni, poi per il pre-campo e il campo estivo. Starete
fuori per quasi 3 mesi. Predisponga e organizzi il tutto per tempo. Auguri.”
GULP!
Rommel stesso sarebbe stato disorientato da un compito così complesso e
gravoso!
Occorreva infatti organizzare, e tutto in
brevissimo tempo, trasferimenti autotrasportati, abbigliamento completo con il
cambio divisa invernale/estiva, equipaggiamenti e materiali vari, armamenti, organizzazione
delle salmerie, delle cucine da campo e dei rifornimenti, stabilire i programmi
per il personale che rimaneva in sede, e mi fermo qui per pietà...
In fondo,
ripensandoci, non era poi così difficile: bastava semplicemente definire tutto
il necessario escludendo il superfluo.
Sull’esempio del modus operandi del tenente
Ippolito, riunii a consiglio i miei validissimi amici sergenti Di Domenico,
Castella e Pezzali ed i graduati, spiegando loro la complessità dell’operazione
e chiedendone la collaborazione per il miglior successo dell’impresa.
Anche la truppa, messa al corrente durante la
susseguente adunata, non si tirò indietro, anzi contribuì attivamente avanzando
suggerimenti e proposte per ottimizzare il lavoro ed il caporal maggiore Giulio
Giubbilei a nome della Compagnia mi disse “Signor tenente, vedrà andrà tutto
bene ed il tenente Ippolito sarà orgoglioso di noi”. Questo pressappoco era lo
spirito del gruppo, questo È lo
spirito degli Alpini.
Tutti infatti assolsero in modo encomiabile il
loro compito e puntualmente all’ora prevista la 115a Compagnia
equipaggiata di tutto punto partiva sugli autocarri alla volta di Sappada in
Cadore sulle Dolomiti bellunesi.
A Sappada si svolse la prima parte
dell’addestramento. Ogni mattina sul greto del Piave si tenevano le
esercitazioni teoriche, le simulazioni di tiro al mortaio e le lezioni di topografia.
Il mortaio
spara ‘al coperto’ e non ‘vede’ l’obiettivo, di solito distante qualche
chilometro, che deve raggiungere tramite tiro curvo a puntamento indiretto,
dopo aver calcolato sulla carta gittate e quote da scavalcare, sulla scorta
delle coordinate della propria posizione ricavate mediante metodi di
orientamento e di triangolazione geografica, e delle coordinate del bersaglio
che vengono tele-comunicate dall’ufficiale osservatore, il quale, posizionato
in altra zona, deve poi comandare gli aggiustamenti necessari. Ricevuti i dati,
l’ufficiale preposto alle armi deve commutare le misure lineari in misure
angolari per impostare l’alzo ed il puntamento, con l’ausilio di
rappresentazioni grafiche e tabelle. Poi determinare la quantità delle cariche
di lancio da utilizzare.
A me, studente di Fisica toccava l’onere e
l’onore di istruttore della compagnia mortai: fu la prima e molto proficua
esperienza didattica della mia successiva carriera professionale di docente di
Matematica e Fisica.
Nel giro di 15 giorni, tra lezioni, marce ed
esercitazioni varie, la ‘disordinata e svaccata’ accozzaglia di capi arma, serventi
ai pezzi, goniometristi, comandanti di squadra e salmeristi (dovevano addestrarsi
a caricare e scaricare velocemente sui muli armi e casse delle munizioni), dopo
aver ben assimilato tecniche ed automatismi nei piazzamenti e nei puntamenti,
era diventato un gruppo strutturato, omogeneo ed estremamente efficiente.
Intanto Ippolito, finita la convalescenza, era
rientrato in servizio e ci aveva raggiunto nella fase finale del corso. Terminato
questo periodo, si doveva tornare in Carnia, al poligono di tiro in val di
Resia, per la parte conclusiva dell’addestramento che prevedeva esercitazioni a
fuoco e prova d’esame finale: la 115a Compagnia era stata comandata
a rappresentare il Cividale in un battaglione di formazione costituito dalle varie
Compagnie mortai da 120 dell’8° reggimento, che avrebbero dovuto competere e
rivaleggiare per il migliore risultato.
L’attendamento fu impiantato a est di Prato di
Resia, in prossimità del monte Canin.
Il battaglione era comandato da un Maggiore
Comandante di cui non ricordo il nome (e forse è meglio così...), proprio uno
di quelli che non tenevano in gran conto la 115a e che già in
precedenti occasioni aveva velatamente manifestato una non certo benevola
attenzione nei nostri confronti.
Dopo due settimane di perfezionamento dei tiri, esercitazioni
sia diurne che notturne e continui avvicendamenti dei diversi reparti, venne
finalmente il momento della prova finale.
Sopra un’altura che fungeva da osservatorio, a
circa 1 km in linea d’aria dall’area bersaglio, erano attestati tutti i vari
ufficiali del battaglione, sotto la direzione del Maggiore e sotto lo sguardo un
po’ trepidante del tenente Ippolito, che non poteva mancare all’appuntamento
finale senza l’intima speranza almeno di un onorevole piazzamento, speranza
corroborata dalla stima verso di me e dalla fiducia nel livello di preparazione
raggiunta da tutti i suoi; contemporaneamente noi ci prodigavamo al massimo per
fargli fare bella figura. Alla sua responsabilità sarebbe stato infatti comunque
imputato il successo o, al contrario, un esito negativo
Adesso toccava a me dirigere i tiri della 115a.
Con sadico zelo il Maggiore Comandante ruotò il
cavalletto che reggeva il cannocchiale, lo puntò sulla montagna di fronte e ne focalizzò
un puntolino.
Poi mi chiamò a sé e, trattenendo a stento un
sarcastico compiacimento – tradito però da una lieve deformazione del labbro
sinistro –, m’invitò a contemplare attraverso il cannocchiale il bersaglio scelto.
Per me e la mia compagine aveva perfidamente stabilito il sito più ‘rognoso’
della zona, estremamente difficile da riconoscere sulla carta topografica e da
tradurre in longitudine, latitudine, quota, trattandosi di uno stretto terrazzamento
di circa 20 metri per 10 più o meno a metà di una quasi verticale parete di
granito, dove crescevano alcuni alberelli e cespugli.
Insomma, solo una piccola insignificante asperità
sul liscio versante della montagna.
Mentre cercavo di affrontare l’ardua questione,
prendendomi il tempo necessario, colsi alle mie spalle la voce beffarda del Maggiore
che, rivolto in particolare ad Ippolito, con sufficienza commentava mormorando
– ma non troppo –: “Ferrario sta ancora
inventandosi le coordinate!”
“Ah sì? Ah sì?” dissi tra me e me, ferito nel mio
militaresco orgoglio: “Mo’ ti faccio vedere io. Io vengo del 64° AUC, sai? Mo’ so’
c...i!!!”
Stavo
prendendomi un po’ di tempo per il fatto che, assistendo nei giorni precedenti alle
prove delle altre compagnie, avevo visto ripetuti tiri di aggiustamento con
correzioni anche di 800/1000 metri. Troppo! Non mi sembrava possibile che
questi errori fossero dovuti ad imperizia degli operatori, dato che anch’essi
erano bene addestrati, e nemmeno parevano imputabili alla oggettiva difficoltà
di individuare obiettivi su pareti verticali.
Infatti, a
conferma di queste riflessioni, ricontrollando accuratamente le mappe, vi individuai
una certa piccola imprecisione, sufficiente però a far sballare di molto le
gittate. Decisi perciò di rivedere i dati precedentemente raccolti e di rifare
con molta cura “il punto”, come suol dirsi, dell’arma base, cosa fondamentale da
cui dipende praticamente il 100% del successo, operando gli opportuni
correttivi topografici.
Per far ciò
fu preziosa la collaborazione dello stravagante alpino goniometrista triestino Venutti.
Costui che, quando voleva, era un vero specialista, era anche un personaggio
singolare e bizzarro. Girava sempre smisuratamente
sovraccarico di cavalletto, tavole geografiche, strumenti vari, nonché gavetta,
binocolo, borse, fucile a tracolla, borraccia e zaino.
Mancava
solo che si portasse a spalla anche il mulo.
Barba
incolta e divisa un po’ sbrindellata, si atteggiava simpaticamente a guerrigliero
centroamericano appena fuoriuscito dalle fila dei ‘Barbudos’ di Fidel Castro.
Durante le
giornate delle prove, terminato il suo compito specifico, si godeva lo
spettacolo dei tiri in lontananza piazzandosi nella piana poco fuori
dell’abitato circondato dai ragazzini del paese, dei quali, utilizzando la
propria dotazione viveri, con gallette e cioccolato – tra l’altro ottimo! – e
battute varie, si era accaparrato il tifo. Ogni tanto, da lui incitati, li si
sentiva gridare a squarciagola il motto del Cividale: “FUARCE CIVIDAT!”.
Fatte tutte le opportune considerazioni,
calcolate mentalmente le appropriate rettifiche da applicare a quanto quotato nella
mappa, tramite l’addetto alle trasmissioni, comunicai le coordinate
faticosamente desunte al sergente Di Domenico (che dalla postazione base doveva
comandare i capi squadra mortaisti, mentre i sergenti Castella e Pezzali
coordinavano i rifornimenti di munizioni alle armi), e diedi l’ordine.
Al contempo spasmodicamente scrutavo la roccia con
il cannocchiale per individuare il punto dell’impatto e valutarne gli
scostamenti dal bersaglio per mezzo delle tacche graduate incise sulle lenti,
sperando di trovare riscontro della giustezza delle mie considerazioni;
altrimenti avrei dovuto rivedere al volo il tutto.
Per somma disdetta il primo colpo non esplose, il proiettile era svanito nella immensità dell’universo!
Non c’era il tempo per perdersi d’animo: bisognava
decidere in fretta – il nemico non
aspetta!
Il caso era infatti previsto nei manuali, naturalmente
per chi li conosceva.
“Cosa fai adesso, Ferrario?” chiese il Maggiore.
“Ripetere stessi dati”: bisognava giustificare ad
alta voce ogni scelta agli altri ufficiali osservatori che
seguivano con i loro binocoli lo svolgersi
dell’azione; essi dovevano valutare e approvare o meno le stime comunicate.
Il colpo esplose a 100 metri a destra e 50 sotto
il bersaglio! Praticamente era quasi già
centro! Almeno così si valuta quando un proiettile da 120 mm cade a 50
metri circa dall’obiettivo.
Ma poteva anche essere un fatto casuale, episodico;
occorrevano conferme – anche questo prescriveva il manuale che teorizzava la procedura
ottimale da rispettare, sempre per chi lo conosceva.
“Ripetere stessi dati”. Il nuovo colpo cadde
nello stesso punto. Non era casuale!!! Ma non bastava.
“Che ordine dai ora?” interrogava il Maggiore, sorpreso
e anche un po’ deluso.
“Devo fare ‘forcella assiale’, perciò: a sinistra
200”.
A denti stretti: “Bene”.
Il colpo arrivò giusto dove doveva arrivare: forcella
impeccabile!
Il quasi smontato inquisitore: “Ed ora?”
“A destra 100” ed il colpo arrivò sull’asse sotto
ancora 50 metri dall’obiettivo. E poi: “Allungare 100”. Forcella longitudinale
anch’essa perfetta.
In pochi minuti, dopo soli 5 tiri di
aggiustamento – tra l’altro tutti da considerare centro – il sottotenente Ferrario della 115a Compagnia era
già in grado di comandare direttamente ‘l’intervento di Compagnia’ accorciando
di soli 50 metri l’ultimo dato. Tutti, dicasi tutti, i colpi esplosero in
rapida successione nel povero boschetto.
Esame superato a pieni voti ed alla grande!
Dalla postazione delle armi nel fondovalle giungevano
intanto urla di “vittoria”, “evviva” e anche qualche “vaffa…” urlate dai
serventi ai pezzi e dai comandanti d’arma, informati dal caporale trasmettitore
Ottaviano (rimproverato per questo dallo scornato Maggiore: non sta bene, non
si fa, il nemico potrebbe individuarci…) che non aveva saputo trattenersi ed al
telefono aveva ripetuto più volte quasi gridando: “Centro perfettoooo !!!”
In serata all’accampamento
un gongolante tenente Ippolito, sprizzava felicità e soddisfazione da ogni
poro. Sciolta ogni tensione, pienamente riscattato nell’altrui considerazione,
rinfrancato nel morale e del tutto ristabilito nel fisico, con il suo consueto e
informale modo di procedere radunò la sua ‘armata
Brancaleone’.
Attraverso il solito divertente
e colorito eloquio, strappando più di un sorriso, spiegò e commentò, sottolineando
ogni dettaglio, lo svolgimento di quanto avvenuto sull’osservatorio – cioè
quanto dal fondo valle non si poteva vedere direttamente ma solo intuire grazie
alla ‘diretta’ telefonica di Ottaviano – non mancando poi di aggiungere un vivo
apprezzamento per l’operato da manuale dei mortaisti e dei sottoufficiali che
avevano così bene diretto le squadre di tiro e in particolare del suo, di nuovo
vice, sottotenente Ferrario, che ringraziò per il brillante lavoro svolto e a cui rese merito del risultato raggiunto.
L’indomani, a battaglione schierato a ranghi
completi per la cerimonia di chiusura delle operazioni, arrivarono ad un leggermente
impacciato Ippolito i pubblici riconoscimenti e complimenti degli ufficiali
superiori e, miracolo!, anche quelli del Maggiore.
La 115a Compagnia, in considerazione
dei risultati raggiunti, fu successivamente scelta per una esercitazione di brigata
sul monte Peralba ed anche qui i nostri mortai sbriciolarono – letteralmente e
non per modo di dire – le tavole in legno che adagiate sopra un pendio
costituivano i bersagli da colpire.
Ormai era giunta la fine di settembre e per il
sottotenente Ferrario scadeva l’ora del congedo.
Nel mese di ottobre la 115a doveva partecipare
ad un’altra esercitazione di brigata, un’altra sfida, ed il tenente Ippolito mi
chiese:
“Ferrario, te la sentiresti di fermarti in
servizio ancora almeno per un mese?”
“Molto lusingato, grazie, ma non ci penso nemmeno!”
Era ora di tornare a casa.
Il
colonnello Giovanni Ippolito è mancato nel 1999 appena cinquantanovenne.
Il suo sottotenente
Franco Ferrario lo ricorda sempre con affetto.
40.
ADDIO ALLE ARMI
(Sandro Bazurro)
Con l'arrivo dell'autunno del
1972 anche la mia esperienza di soldato, in qualità di ufficiale di
complemento, arrivava alla sua naturale conclusione.
Il 9 luglio partecipai all'ultimo
Giuramento solenne in piazza Galimberti a Cuneo, con le reclute del secondo
contingente '72, che con tale atto giuravano fedeltà alla patria (durante la
lunga cerimonia, complice il caldo torrido, ne sverranno una ventina tra il brusio
di disapprovazione della folla assiepata lungo le transenne e sarà l'ultimo
giuramento pubblico in piazza).
In questo periodo iniziava anche
il lento, inesorabile scioglimento del Corpo Addestramento Reclute - 2° RGT
Alpini, che terminerà definitivamente due anni dopo, con la creazione del
Battaglione Addestramento Reclute “Cuneense”, erede della bandiera di guerra
del vecchio Reggimento.
Il 22 agosto del 1972 venni delegato
a svolgere l'incarico di comandante della Compagnia Artiglieri da Montagna Tridentina
in sostituzione del Comandante Titolare, inviato alla Scuola di Guerra.
Da tale data iniziò la
dismissione del Reparto, con versamento di tutti i materiali della Compagnia,
sia di servizio che di casermaggio, dalle armi ai materassi, per intenderci, e
ricordo che fu un compito molto impegnativo e di responsabilità per me, giovane
sottotenente di prima nomina.
Ultimato l'addestramento del
secondo contingente '72 ed accompagnate le reclute ai Reggimenti, la vita di
caserma divenne monotona e si cercava di movimentarla con scherzi e tiri
mancini ai figli, ma anche tra di noi anziani, soprattutto verso chi a nostro parere
si imboscava od otteneva favoritismi per trarne benefici in modo
spudorato.
Di quel periodo ricordo anche un
caro collega ed amico che appassionato di armi, tra un servizio e l'altro, si
dilettava a costruire impugnature ergonomiche per il revolver calibro 22 che
usava per il tiro al poligono, testandone poi l'efficienza con la mia
“volontaria” collaborazione.
Più precisamente, quando al
pomeriggio liberi dai servizi, si stava a riposo branda nell'ora di silenzio,
mi sorprendeva al momento del naturale assopimento, dovuto anche all'estiva
calura, “invitandomi” a restare immobile, ovviamente, supino, mentre prendeva
accuratamente la mira e sparava a tiro radente contro il muro che avevo al mio
fianco.
Quando mi andava meglio il suo
obiettivo era il soffitto.
Risultato: all'atto del congedo
sul muro a fianco di un letto si poteva distintamente individuare un profilo
umano ed il soffitto somigliava al planetario della Scuola di Aosta, tutto
puntinato da fori calibro 22.
Il bello fu quando ormai
tranquillamente congedati, venimmo dopo qualche giorno richiamati “gentilmente”
a tappare tutti quei buchi, con spatola e stucco da muro. Tutto sommato fu una
parentesi molto divertente poiché scroccammo l'ultimo pranzo al circolo
ufficiali; un po' meno divertente fu tappare i buchi del soffitto a tre metri e
mezzo da terra, salendo su un improvvisato trabattello, formato accatastando le
brande.
Ricorderò sempre nostra festa di
congedo, fu bellissima, tutti gli ufficiali della calotta ed il quadro permanente
invitati, damigiane di vino posizionate sotto il porticato affinché tutti
potessero attingerne, canti e balli fino a tarda ora, salumi e formaggi in
abbondanza e poi il silenzio, fuori ordinanza naturalmente, qualche
lacrimuccia, complici le abbondanti libagioni e poi tutti a nanna... ma
veramente? Ma no... tutti veramente no.
Improvvisamente nella notte un
denso fumo si levò da una camera nell'ala degli alloggi Ufficiali, invadendo
tutte le stanze, i corridoi, le scale.
Un candelotto lacrimogeno da un
chilo aveva contribuito a far commuovere anche i più scafati, i più riottosi, anche
coloro che felici della nostra partenza non avevano ancora versato neppure una
lacrimuccia per i loro anziani.
Tra questi anche l'ignaro
cappellano, che alloggiava in una camera attigua degli alloggi ufficiali ed era
costretto suo malgrado a condividere tutte le nostre dissolute intemperanze.
Fu molto severo e da buon
delatore fece partecipe del fatto il nostro valente Comandante di Battaglione,
quello della valigia di cartone per intenderci, il quale dopo averci chiamati a
rapporto, rammentandoci altre nostre malefatte, ci redarguì con fermezza, dichiarandosi
felice della nostra prossima partenza e multandoci con le spese di una
damigiana di vino (che sarebbe servita al nostro cappellano per il suo santo
uffizio).
Colse l'occasione per ricordarci
tutto ciò che avevamo combinato in quei nove mesi di permanenza ai reparti,
degni eredi a suo dire, dei nostri dissoluti predecessori.
Ci ricordò quindi la brutta
avventura con le educande del collegio situato proprio dirimpetto agli alloggi
ufficiali, che tante noie gli aveva procurato con la madre superiora.
In breve la birbonata era
consistita nell'attirare l'attenzione di quelle sventurate con atteggiamenti
discinti tenuti dalle camere fronteggianti i loro alloggi o dai locali servizi
e docce; ciò era stato possibile essendo i due immobili separati solo da pochi
metri di strada.
Qualcuno si era spinto ben oltre,
inviando loro messaggi poco convenienti ma molto chiari, attirando le poverette
in appuntamenti galeotti, tanto che alcune di loro mosse da profondo pentimento
per gli atti impuri commessi, pare ripetutamente e con reciproca soddisfazione,
rinunciarono ai voti promessi, con “grave nocumento per la sacra istituzione
tutta”.
In quel caso il rimprovero
solenne al quale fummo sottoposti, terminò insieme con la presenza nell'ufficio
della madre superiora, direttrice del collegio ed il nostro colonnello, che
credo fosse abbastanza scafato nel dirimere tal incresciosi avvenimenti, ci
condannò a pagare un paio di bevute per tutta la calotta, rinfacciandoci di non
averlo mai portato prima a conoscenza del fatto, certo che con l'esperienza di
un maturo superiore tutto ciò non sarebbe successo.
Questo esempio è solo un piccolo
assaggio di quel che riuscimmo a combinare in quel periodo, pur senza mancare
mai ai nostri doveri verso la patria e nel rispetto delle istituzioni.
Il primo ottobre dell'anno 1972 venni inviato in congedo,
per ultimato servizio di prima nomina, lasciando tanti amici e portando nel
cuore tanti cari ricordi, ricordi che mi accompagneranno per tutta la vita.41.
IL MESE PIU’ BELLO
(Felice Piasini)
Ultimato il periodo di
addestramento e superati gli esami di fine corso, nel dicembre del 1971 i neo
sottotenenti lasciano Aosta. Dopo alcuni giorni di vacanza, ai primi di gennaio
del 1972 ci si deve presentare ai luoghi di destinazione, per la continuazione
del servizio militare, ognuno col proprio incarico. Il sottotenente Felice
Piasini, in quanto Alpino d’Arresto, viene destinato a Vipiteno, al Battaglione
Val Chiese, che fa parte della Brigata Alpina Orobica. Nominato comandante
della 250^ Compagnia Quadro (?) - cioè
compagnie che esistono sulla carta, e che vengono attivate solo in caso di
necessità - il tempo di adempiere agli
atti formali e già di nuovo in viaggio alla volta di Glorenza, in alta Val
Venosta. Qui ci sono uffici e magazzini della 250^, da cui dipendono le opere
di fortificazione della Val Passiria, che si sviluppa da Merano verso il Passo
Giovo, e della 251^, che si occupa di quanto rimane delle opere di sbarramento
da Malles al Passo Resia, al confine con l’Austria. Dopo aver visionato i
registri contabili, quelli di carico e scarico dei materiali in dotazione e
informato, a grandi linee, dall’unico militare in servizio a Glorenza, uno
scaltro e scafato maresciallo pugliese, sui rapporti fra sede di compagnia e
distaccamenti, lo Sten Piasini parte per la destinazione operativa: Saltusio, a
9 km da Merano, in qualità di comandante del piccolo distaccamento, con
capienza massima di 15 alpini. Qui dovrebbe mettere in pratica quanto appreso
alla Scuola di Aosta, sia riguardo alla truppa, che agli impianti logistici. Il
primo problema che si presenta riguarda l’orario della sveglia. Per il neo
arrivato non ci sono dubbi: se la sveglia è fissata alla 6.30, a tale ora ci alza.
Non la pensano così i 13 alpini in forza. Dopo infinite discussioni e
simulazioni cronometrate, l’ufficiale deve constatare che, effettivamente, dal
suono del campanello che annuncia l’ispezione, all’alzarsi, vestirsi, fare il “cubo”
e raggiungere i posti di servizio, non si supera mai il minuto e mezzo.
Convinto più dall’abilità dei naioni, che dalle minacce più o meno velate, di
incontri “fuori”, al termine del rispettivi servizi militari, la sveglia
continua ad essere, per tradizione acquisita, alle 7.30/8.00. Di questa e altre
usanze, non proprio ortodosse, sono al corrente sia il capitano che
supervisiona i distaccamenti, che altri ufficiali, ai quali tocca spesso
l’ispezione notturna con la procedura ben nota: “parola d’ordine e contro
parola” per potervi accedere.
Per
quanto riguarda la manutenzione delle opere di sbarramento va molto meglio, perché
l’ufficiale riesce questa volta a essere più convincente. Eseguendo quei
lavori, non solo si fa il proprio dovere, si vive all’aperto, invece di stare
stravaccati tutto il giorno sulle brande a farsi s…, sfogliando riviste porno e
ad annoiarsi, ma si ricevono anche licenze premio al fine settimana. Gli alpini
eseguono i lavori con grande abilità, provenendo o dalla campagna o dal settore
dell’edilizia o dell’artigianato, ad eccezione del cuoco bresciano, che di
professione è…ciabattino! Bisogna sistemare portelloni, pali, reti e filo spinato attorno alle opere, tagliare gli
alberi e la vegetazione lungo le linee di fuoco, per poter identificare e centrare l’obiettivo, sull’unica strada che
percorre il fondo valle, ingrassare i fusti nelle postazioni per cannoni e
mitragliatrici, sostituire lampadine bruciate, mandare a riparare i motori
dell’impianto di deumidificazione, ricambiare l’acqua nelle vasche per gli usi
igienici, dare il bianco agli alloggiamenti interni, così da renderli più
luminosi e salubri alle compagnie che vi soggiorneranno, di passaggio, durante i campi estivi, etc.… Insomma, tutto si svolge con grande
soddisfazione. Meno entusiasta è il maresciallo, bombardato da numerose e impreviste
richieste di materiali, che gli fanno sforare la contabilità. Per quanto
riguarda i viveri, l’amministrazione militare prevede due fonti di
approvvigionamento: acquisto diretto in loco, a Merano, per frutta e verdura, e per la carne, a San Martino in fondo alla
Val Passiria. I prodotti a lunga conservazione vengono invece forniti
direttamente dai magazzini del Battaglione di Vipiteno. Ma, mentre per gli
acquisti locali va molto bene, ottenendo sempre di più dello spettante,
credendo i commercianti di avere a che fare con uno di “loro”, conoscendo il
comandante il tedesco, non lo stesso si può dire per le provviste che giungono
da Vipiteno. Il rifornimento avviene ogni mese. Arriva un CL. Si scaricano in
gran fretta i viveri, e l’ufficiale deve solo firmare i registri. Questo,
almeno, è l’andazzo prima dell’arrivo del nuovo comandante valtellinese, non
per niente chiamato “el Tudesc”. Da qui in avanti, invece, registro alla mano,
l’ufficiale controlla ogni voce e relativo quantitativo spettante e spunta o
segna l’ammanco: riso, pasta, scatole di piselli, pelati, tonno, caffè,
zucchero etc. I punti critici sono: Parmigiano Reggiano (8gr. al giorno X ogni
militare presente X il n. dei giorni, cioè: 8X13X30 = gr. 3120), ma all’appello
mancano sempre troppi grammi!! Così per il cordiale (una bustina da 30 cl
X13X30 = cl.11.700) pari cioè ad un cartone da 12 bottiglie di cognac, ma
chissà perché, nel cartone ce ne sono solo 5 o 6! Durante l’operazione, il
capitano visibilmente impaziente, rosso in viso dalla collera incita a
sbrigarsi, perché non ha tempo da perdere. Il giorno seguente, però, arriva il
CL con tutte le provviste spettanti, compreso un bel pezzo di grana. Non è
questione di pignoleria – pensa il comandante – ma, di far rispettare le
regole. E poi… le provviste non consumate sono oggetto di scambio con i
contadini: una scatola di caffè contro sei uova; una bottiglia di cognac è
quotata 6 uova ed un pezzo di Speck; 3 scatole di piselli, una di pelati e 3
pezzi di fondente valgono un pezzo di formaggio o mezzo chilo di burro! Tutto
bene quindi quel che finisce bene? Magari! Successivamente, lo stesso capitano,
in servizio di ispezione, fregandosene
della procedura prevista, aggredisce il soldato di guardia al cancello così:”
Ma che c…zo di parola d’ordine, apri! Non vedi che sono il tuo capitano?”
Purtroppo anche il piantone non rispetta la procedura (Parola d’ordine! - Controparola! - Colpo in canna - Sparo in alto, come primo ammonimento, etc.) e
apre solerte il lucchetto. I secondi trascorsi non bastano ai compagni per
mettersi in regola. Il capitano entra nella casermetta e come una iena si
precipita in camerata. Ormai è fatta! Il capitano scende le scale e, passando
davanti al comandante, che se ne sta impotente sulla porta del suo ufficio, gli
grida soddisfatto, digrignando i denti:”Lei stia punito!” Il tempo di stendere
il rapporto e puntuale arriva dal Comando di Vipiteno la sentenza. Lo Sten
Felice Piasini, comandante del Distaccamento di Saltusio (segue ampollosa
motivazione in gergo militare) viene trasferito in punizione, per giorni 30, al
distaccamento del Passo Resia, a m. 1700 s.l.m. al confine con l’Austria. Un
settembre meraviglioso! Il cielo terso che si specchia nel lago, l’aria
frizzante del mattino che invoglia il punito a studiare e a preparare gli esami
che gli mancano per laurearsi, le uscite nei boschi, con alpini comprensivi e
complici, a raccogliere mirtilli e funghi, le serate fino a tardi nel vicino
Gasthof… Che pacchia! Clou della punizione (che la dice lunga!): una sera,
visita improvvisa di un “imbarazzato” Capitano, accompagnato da un altro
ufficiale, con invito a cena oltre confine, giù in Austria, in divisa, in barba
al regolamento, indeciso tra un fumante salmì di cervo o un rosolato stinco di
maiale con patate al forno! (Felix)
42.
MONATE! MONATE!
(Angelo Soave)
42.
MONATE! MONATE!
(Angelo Soave)
Diego Gasparini arrivò ad Aosta da Codroipo, provincia di Udine.
Un giorno lo vedemmo concentrato nello scrivere una lettera.
Riuscimmo a sbirciarne il contenuto. Dopo i convenevoli di rito, la missiva
proferiva:
“La vita di caserma è durissima, il rancio immangiabile, i miei
compagni di corso sopperiscono andando al ristorante tutte le sere. A me
basterebbe cenare fuori un paio di volte la settimana, ma non ho soldi e mi
serve un aiuto economico che, sono certo, mi giungerà al più presto. Un
abbraccio, Diego”.
Le lettere, ricopiate tali e quali più volte, venivano inviate a
parenti, amici e, come malignava qualcuno, anche al sindaco, al parroco e al
farmacista del paese.
Dopo un paio di settimane, da Codroipo arrivavano le lettere di
risposta.
Diego entrava in camerata, si sedeva sul letto e, con movimenti
ostentati, apriva le buste con un tagliacarte che custodiva nell'armadietto.
Poi con l'indice e il pollice, a mo' di pinza, estraeva le banconote e le
riponeva nel portafoglio. Infine appallottolava busta e lettera e le buttava
nel cestino, senza leggerne il contenuto.
Esaurita la prima tornata di risposte, Diego si metteva di buona
lena a scrivere un'altra lettera, da ricopiare su più fogli e spedire ai
benefattori:
“Trascorrere la domenica in caserma è un'esperienza tristissima. I
miei compagni di corso il pomeriggio vanno al cinema e, la sera, a ballare. A
me basterebbe andare al cinema ma sono al verde, ho bisogno di soldi, al più
presto, prima che mi venga un esaurimento nervoso. Un abbraccio, Diego.”
Dopo un paio di settimane, dal Friuli arrivavano le risposte, in
buste generose.
La terza tornata di lettere pietose riguardava il tempo: finiva
l'estate, iniziava a far freddo, occorreva coprirsi di più ... e così via, con
pretesti più o meno credibili che facevano breccia nel cuore di parenti e
amici, prodighi nell'alleviare le sofferenze del giovane alpino, così lontano
da casa.
E ancora una volta arrivavano le risposte, in ricche buste.
Come al solito Diego tirava fuori il tagliacarte dall'armadietto e
con destrezza chirurgica prelevava i biglietti da cinquemila lire e li riponeva
nel portafoglio. Poi, appallottolata busta e lettera, con mira precisa lanciava
la pallina di carta nel cestino della spazzatura.
Un giorno un compagno di camerata, roso dall'invidia, rimproverò
Diego: “Ma non ti vergogni? Non solo non rispondi alle lettere per ringraziare
i tuoi parenti, ma neppure leggi le loro notizie!”.
“Monate!
Monate!” rispose Diego, già concentrato nell'inventare un nuovo motivo per
impietosire i suoi benefattori.
Solo alcuni anni dopo seppi che Diego avrebbe beneficiato
dell'esonero dalla leva se i suoi due fratelli maggiori avessero svolto il
servizio militare.
Quelle buste, molte delle quali di provenienza paterna e fraterna
erano quindi un ringraziamento all'alpino che aveva saldato un debito con la
patria per conto di tutta la sua famiglia.
43.
LA PRIMA NOTTE DI (NON) QUIETE
(Marco Fioroni)
Il titolo di questo film quasi coevo della nostra avventura, al di
la’ del senso letterale, aveva un significato sinistro: E’ con la morte la
prima notte di quiete perchè è la prima notte senza sogni.
E la prima notte alla SMALP non è stata di quiete, ma, fin troppo
piena di vita.
I sei mesi del corso sono un lasso di tempo che allora sembrò
abbastanza lungo, ma, incredibilmente corto per quante cose ci abbiamo messo
dentro, o, ci hanno fatto mettere.
E’ quando si prova a raccontarle che si ha modo di accorgersene.
Dicevamo che la prima notte alla Cesare Battisti fu parecchio
movimentata.
Il preludio della consegna dell’essenziale alla vita in caserma,
sarebbe stucchevole a raccontarsi, eccezion fatta per lo sbigottimento fra il
grottesco e il divertito sulle taglie sovrabbondanti o strette che quasi a
sorte avevano iniziato ad assegnarci.
Qualche divertimento era stato garantito dai più imbranati, non
abituati a vivere collettivamente e che mostravano strani pudori da educande.
Il divertimento aumentò, anche se meno apprezzabile per la
mancanza di luce quando, appunto, le luci si spensero, quasi all’improvviso,
dopo qualche squillo di tromba.
Allora fu tutto un urtarsi, andare a sbattere a destra e sinistra,
inciampare, scomodare tutti i santi e le madonneconosciuti, imprecazioni più o
meno colorite in quel caleidoscopio che era la nostra camerata, nella quale si
sarebbe poi scoperto che erano rappresentate quasi tutte le regioni d’Italia,
nonostante fossimo solo in 10.
Chi era facilmente preda del sonno si era già addormentato quando
cominciarono le prime scorribande dei cadetti del corso più anziano.
All’inizio furono solo delle sortite chiassose che svegliavano di
soprassalto chi aveva già preso sonno. Nelle inevitabili pause dovute ai
passaggi delle ronde che interrompevano le incursioni, vi era persino chi riusciva a russare.
Io, abituato a coricarmi a tarda notte, assistevo, insonne, in
silenzio e nel buio, fra il divertito e lo sconcertato, a tutti i tentativi ai
quali i cinque anni precedenti di collegio mi avevano abituato, di chi insonne
come me cercava, con originalità di stratagemmi, di far cessare il concerto di
chi russava.
Il vasto repertorio delle infondate convinzioni di riuscirci
sembrava appena aver funzionato con quello vicino alla porta, che all’angolo
opposto della camerata ne era partito un altro con tonalità diverse.
C’era chi chiamava il gatto, chi sibilava, chi sosteneva che nulla
era meglio del dentifricio, con il risultato che il disturbo di chi russava era
accresciuto da chi cercava di porvi rimedio e muovendosi nel buio,
inciampava,cadeva, imprecava, rovesciava oggetti, eventi cui poi cercava di
rimediare in un gioco a mosca cieca, tutto sommato divertente se non fosse che
il caldo di luglio era notevole e si era giunti alle tre.
Ogni tanto un fascio di luce aveva fatto intravvedere una sagoma,
probabilmente quella del caporale di giornata, venuto a vedere cosa succedeva.
La seconda scorribanda dei cadetti più anziani era finita
miseramente, tanto che avevano dovuto darsela a gambe per evitare la ronda,
quando uno di loro aveva fatto una caduta rovinosa per aver, nel buio, inciampato
in uno dei nostri acquattato a propinare il dentifricio a quello vicino alla
porta che di smetterla di russare non ci pensava proprio.
La mia branda era abbastanza lontana dalla porta quando stavo per
assopirmi e vidi alcune sagome avvicinarsi a uno dei letti più vicini alla
porta per tentare di “sbrandare” chi vi dormiva. Il mio vicino di branda che
fino a li era solo “Roberto” cui, poi avrei aggiunto anche Braggion, e che
probabilmente dormiva anche lui con un occhio solo per via del subbuglio, cadde
dalla branda, praticamente in piedi ed ebbe tutto il tempo di sparar fuori un
bel sonoro “putana to mare”.
Non ci fu bisogno di traduzione e ce n’era quanto bastava per
scatenare il finimondo, quindi, possiamo immaginare la reazione dei cadetti più
anziani, perchè, naturalmente, di loro si trattava.
Dapprima stabilirono che Roberto dovesse salire sugli armadi a
fare l’aquila, saltando da uno all’altro, poi, per mancanza di tempo fra i
passaggi della ronda, venne condonato in un certo numero di flessioni su una
sola mano, cui Roberto si sottopose superando brillantemente la prova, con loro
grande rabbia, anche grazie al buio, ma anche perchè in seguito ebbi modo di
vedere che Roberto, abile judoka, era un po’ un funambolo e quei tre o quattro
avrebbe potuto mangiarseli in un boccone, ma tutto rimase e finì nello scherzo
e dopo una mezz’oretta riuscimmo persino a prender sonno e a dormire sino a
mattina-
44.
PTHIRUS PUBIS
(Marco Fioroni)
Si diceva che tutto fosse riconducibile a “Bocca di rosa” una
figura che, in quel frangente temporale, si collocava fra quella materna e la
dea del sesso : una, ormai, attempata, ma, ancora molto piacente, signora che
si divideva fra la Cogne e le caserme Battisti e Testafuochi.
La progressione dell’infestazione era dovuta all’imbarazzo dei più
goffi e inesperti che vergognandosi del problema e non conoscendone l’unico
rimedio efficace, si inabissarono in un vortice di ridicolaggini, riuscendo
solo a diffondere maggiormente il contagio di quelle che, comunemente, si
chiaman piattole.
La caratteristica peculiare di questi parassiti è quella di
insinuarsi sotto pelle alla radice dei follicoli piliferi del pube,
principalmente, ma, anche di altre parti del corpo dove vi siano peli.
Pochi sapevano che il “fai da te” non risolveva nulla e che i
patetici tentativi per tener nascosta la cosa, una volta svelati, più o meno
volontariamente, scatenavano burle e ilarità sconfinate, finanche feroci e
rischiose nella diffusione di rimedi infondati e solo in grado di far danno
alla pelle.
Si cominciarono così a sentire, qua e la’ nelle camerate,
esalazioni alcooliche che, se non fosse stato per la denaturalizzazione,
potevano anche far pensare a festini e orge. Poco tempo e poi si passò a tutta
una gamma di odori che spaziavano dal gasolio alla nafta, al Kerosene e alla
benzina. Si scoprì poi che vi fu anche chi ricorse a trielina, acetone e
ammoniaca quando confessarono che le bestiole sembravano persino trarre
giovamento da questi trattamenti.
Vi fu chi si scorticò la pelle nei vari tentativi e chi si rimediò
delle ostinate dermatosi che finirono per costituire la spia del problema,
giacchè era tempo di addestramento al combattimento e “sbalzare” lungo il letto
della Dora era divenuta per loro una atroce tortura.
Difatti se si pensa quali sono le parti in gioco, quella infestata
e quella che strisciava sul terreno nel “passo del leopardo”è immediata
l’impossibilità di durare un pezzo.
Più o meno quando si giunse a una sorta di scoperta del “mal
comune ......” non fu “....mezzo gaudio”. Sospensione della libera uscita,
consegna per i finti malati che avevano denunciato patologie improbabili
sperando di debellare il problema prima di doverne confessare la imbarazzante
verità.
Le conseguenze pratiche riguardarono sani e infetti.
Consegna di qualsiasi indumento intimo, borghese o militare;
rasatura completa di ogni singolo pelo, ciglia escluse; sostituzione di tutta
la biancheria delle brande; docce igienizzanti stile campo di concentramento e,
soprattutto, MOM a volontà, il rimedio che tutti, poi, impararono essere
l’unico efficace.
Di quel periodo rimasero memorabili le adunate di controllo, per
il clima di caccia “all’untore” dei casi “infetti dormienti”
così come ne vedevi uno che si grattava, scattavano la
proscrizione e le delazioni.
Quella promiscuità goliardica che ci caratterizzava come gioventù
sana, subì un duro colpo dal quale si sarebbe ripresa solo quando i rigori
della stagione fredda, fecero sperare nella insuperabilità dello spessore di
stracci che indossavamo.
L’infestazione fu equanime e nulla potè il nonnismo difatti fu una
gara di numeri fra 63° e 64° corso che non ricordo chi si aggiudicò.
45.
IL COLONNELLO MORENA
(Marco Fioroni)
Forse non tutti sanno che il Colonnello Morena ora a riposo come
generale, è tuttora (2015) vispo e arzillo.
Posso garantire che la mia emozione vedendolo sul palco
dell’Adunata sezionale di Como, tenutasi ad Albavilla, è stata grande e
profonda, almeno quanto la sua maestosa, e marziale figura che nonostante l’età
considerevole che non ricordo, ci ha regalato un intervento oratorio
eccezionale per lucidità, equilibrio, simpatia ed arguzia. Un uomo
straordinario circondato dall’affetto, rispetto e stima che tutti gli hanno
tributato calorosamente e coralmente. Vive a Milano e partecipa ancora a molte
delle manifestazioni alpine.
Dobbiamo auspicare che questa nostra opera possa compiersi e
riuscire a fargli rivivere uno scampolo di giovinezza e di buonumore.
46.
IL CORO DEL 64 AUC
(Marco Fioroni)
Rebulla era il maestro / direttore del coro ed era veramente bravo,
tanto che riuscì a fare di noi, che non avevamo alcuna esperienza in proposito,
un coro.
Nei vari contesti nei quali ci siamo esibiti, abbiamo raccolto
pareri molto positivi anche quando questi erano qualificati.
La competenza e la pazienza di Rebulla erano considerevoli. Si
provava e si riprovava instancabilmente.
Il mio tono di voce mi aveva incluso nei “bassi” ed il nostro era
un coro in piena regola, con tutti i settori ai quali Rebulla assegnava la loro
parte specifica che poi sudava ad amalgamare e a bilanciare fra i singoli
volumi e le rispettive tonalità.
Le “uscite” del coro furono parecchie e quelle che maggiormente
ricordo furono a Villeneuve, a Milano e a Piacenza.
A Milano ci esibimmo in Piazza Duomo con un pubblico enorme e
veramente entusiasta del nostro repertorio e delle nostre interpretazioni. Se
non ricordo male le nostre esibizioni si inquadravano nel contesto delle
manifestazioni itineranti per la celebrazione del Centenario di fondazione del
Corpo degli Alpini.
Il repertorio era naturalmente quello classico dei canti degli
alpini che a conclusione del Corso incidemmo su musicassette che ebbero un
discreto successo.
Come ho già avuto modo di dire, è incredibile quante cose
siamo riusciti a farci stare nei sei mesi del Corso.
47.
ETERNO !
(Marco Fioroni)
Vi era chi sosteneva che esistesse da sempre, o, per lo meno,
dalla fondazione stessa della SMALP , così come altri garantivano che avrebbe
continuato ad esistere in un tramonto senza sera, in quanto era l’emblema
dell’eternità.
Perchè “ETERNO !” (troverete eterno quanto vi aspetta!) urlatoci
contro dai cadetti più anziani, era la maledizione “simpaticamente” augurataci,
come ad ogni nuovo corso di cadetti, quanto alla durezza della durata del
nostro addestramento.
L’emblema di questa “eternità” era un cane, ma, non un cane
qualunque : il cane “Congedo” la mascotte della SMALP.
Congedo era un meticcio di media taglia col manto marrone chiaro,
screziato di nero e dall’aspetto abbastanza buffo giacchè aveva zampette da
bassotto su un corpo tipo labrador a pelo lungo che, con piglio petulante, ogni
volta che un reparto usciva dalla caserma, lui si aggregava al primo e
qualunque ne fosse la destinazione, lo seguiva sino al rientro in caserma.
Come si è detto, l’età era sconosciuta, come se esistesse da
sempre, così come la sua presenza, permanente.
Non mancava di ricevere qualche scherzetto, ma, minimamente perchè
il suo contegno era quasi marziale, non indulgeva in confidenze con nessuno,
anzi, con aristocratico distacco e forse
anche, con non poca commiserazione, assisteva alle nostre varie vicissitudini,
spesso invidiato per la sua “vita da cani”.
Tutti erano li’ che sbanfavano sul percorso di guerra sotto il
solleone, o, sbalzando con il “passo del leopardo”e lui era la’ bello spaparanzato
all’ombra, con il contegno ineffabile di un generale in rivista delle
esercitazioni.
Anche nei trasferimenti e nelle marce più lunghe lui non poteva
mancare, con il dovuto contegno, come nelle cerimonie più solenni come i
giuramenti.
L’unica cosa mai appurata era se avesse predilezione per un
particolare reparto. Sembrava sempre aggregarsi al primo che lasciava la
Caserma.
Quando, casualmente, incocciai in un allievo che aveva appena
completato il 70° corso, lui mi assicurò che un cane rispondente a quella
descrizione, era ancora presente e partecipe di tutte le vicende quotidiane
degli allievi.
Congedo è ancora li’ anche se oggi scorta solo la nostra memoria.
48.
GLI ESCHIMESI AL PICCOLO SAN BERNARDO
(Marco Fioroni)
Non so a chi venne l’idea, o, se fosse, o meno, “istituzionale” ma
un igloo in piena regola, venne completato in un paio di serate.
Il campo invernale da allievi, tenutosi a La Thuile, comprendeva
alcune esercitazioni, in buona parte notturne, sulle pendici, brulle e innevate,
che guardavano verso il passo del Piccolo S. Bernardo.
Alcune unità operavano in quota sulle pendici che si paravano
davanti al cocuzzolo su cui stazionavamo, come fossero una lavagna
appositamente inclinata.
Per comprendere a fondo il contesto bisogna dire : che eravamo
intorno al 15 dicembre, a quota 2.188 m.s.l.m., che non chiesi mai la
temperatura, ma, che al rancio di mezzogiorno i maccheroni caldi restavano
attaccati, gelati, alla gavetta e il vino, nel gavettino che tenevi in mano, in
un continuo movimento e tremolio per il freddo intenso, faceva su il ghiaccio.
Non sapevi se invidiare il tuo turno operativo sulle pendici, o,
lo starsene a guardare gli altri quando toccava a loro perchè stare immobile a
guardare la lezione operativache ti veniva spiegata su quei pendii, era già mal
sopportabile, ma, attendere il raggiungimento e il dispiegamento dei vari
reparti in quota, andava oltre ogni peggiore immaginazione.
Fu così che in queste pause forzate, non so chi, decise di
costruire un igloo per scacciare il freddo e dare un senso all’attesa.
Le baionette del Garand erano ideali per la bisogna, la neve
sovrabbondava ed aveva la dovuta consistenza, pressata com’era, dai nostri
reparti che vi stazionavano da giorni.
La sua collocazione sarebbe stata quella dell’osservatorio che si
trovava sul cocuzzolo appena a monte della strada del passo che per la stagione
era chiusa al transito veicolare civile.
Preparato un piano adeguato si iniziò a tagliare i blocchi e
gradualmente a posizionarli con le dovute malizie di rastremazione affinchè,
avvicinandoci alla sommità, il tutto non finisse con il crollarci in testa.
Ma tutto funzionò alla perfezione e, non mancando la mano d’opera,
in due tappe tutto trovò compimento.
Mi pare di ricordare che, senza esagerare, riuscimmo ad entrarci
in quaranta.
Le condizioni di permanenza erano tali da indurre a non uscirne
più giacchè, riparati dall’aria gelida e con tanto “calore umano” profuso per
realizzarlo,ma, sopratutto, per “l’irraggiamento” di noi occupanti, si stava d’un
gran bene, così si decise una rotazione temporanea per trarre ciascuno un po’
di conforto in quella landa notturna desolata.
E’ un piacere che ricordo ancora con soddisfazione ogni qualvolta
mi capita di ritrovarmi in un contesto simile, quando
è inesorabile subire il freddo intenso.
49.
CONSEGUENZE CORPORALI DELL’ADDESTRAMENTO ALLA AEROCOOPERAZIONE
(Marco Fioroni)
Le esercitazioni pratiche per apprendere le modalità con le quali
chiedere e coordinare il fuoco di attacco, o, difesa dei caccia della
aeronautica era stato spettacolare.
Partiti di buon mattino dalla caserma, avevamo raggiunto le
pendici delle alture che chiudevano, verso nord-ovest la conca di Aosta.
Collocati a mezza costa, rilevati di un centinaio di metri rispetto al fondo
valle, avevamo assistito con grande interesse alle procedure e alle modalità
radio per guidare il fuoco di appoggio o copertura. Sorprendente anche se
tecnicamente scontata, l’impossibilità di individuare. visivamente, i caccia in
avvicinamento.
Pur sapendo da dove dovevano arrivare, la velocità supersonica, la
dimensione ed il profilo facevano si che solo in pochi casi ci si accorse che
un puntino che sembrava un moscerino ti era già passato improvvisamente sopra
la testa con un boato immane che per qualche minuto ti lasciava stordito. Era
uno spettacolo tecnologicamente avvincente e ti faceva considerare che se fossi
stato tu l’obiettivo e ti trovassi allo scoperto, gli eventuali tempi di
reazione per mettersi in salvo, sarebbero stati pressochè inesistenti o del
tutto affidati al caso.
La stagione autunnale era splendida e la calura quasi estiva,
tanto che la sete aveva presto cominciato a farsi sentire, così, fra una
esercitazione e l’altra, allontanandosi a gruppetti, si cercava di scoprire un
po’ d’acqua perchè le borracce erano ormai tutte vuote.
Nella mente c’erano le lance che sparavano l’acqua a decine di
metri con i loro zampilli di cui, da Aosta, vedevamo piena la montagna. Ma, non
li’.
Fu così che una pattuglia in esplorazione clandestina, scoprì a
non molta distanza, alcuni vigneti già vendemmiati, sui quali erano rimasti
molti grappoli, probabilmente non maturi al momento della prima vendemmia. Non
mancavano mandorli e meli. Ce n’era quanto bastava e, soprattutto appariva in
stato di abbandono, con i filari di vite in disordine, avviluppati da arbusti e infestanti e con tutto quel ben di
Dio, quasi certamente, lasciato a marcire.
Sete, fame, golosità, piacere della scoperta inattesa, fecero il
resto. Ognuno si dedicò a quanto preferiva, ma, comunque si provò di tutto.
L’uva fu la preferita e quasi tutti abbondarono e diffusero la notizia della
scoperta, così, alla spicciolata, in gran numero si contribuì a completare la
vendemmia.
Di acqua, come si è detto, non ve n’era , così, tutto venne
mangiato senza lavarlo. Difficile dire quando avesse piovuto l’ultima volta,
quel che è certo è che una stagione così assolata e senza precipitazioni, era
fuori dal comune.
Da luglio, mese del nostro arrivo, si era a ottobre, e non era
caduta una goccia d’acqua che peraltro non ci sarebbe sfuggita visto che le
attività esterne erano quotidiane.
Sta’ di fatto che, in capo a un’oretta, si scatenò un attacco di
dissenteria generalizzato. Chi era delicato di intestino, non la scampò e per i
successivi due giorni visse più nei vari servizi igienici che al di fuori di
essi. Per altri fu forse l’eccessiva
quantità trangugiata, pochi se la cavarono impunemente.
Non ci volle molto ai nostri comandanti per accorgersi di cosa
stava succedendo e quali ne erano le cause.
Insperabilmente la cosa suscitò in loro solo ilarità e non generò
provvedimenti del tipo, dieci percorsi di guerra o consegna per giorni ...
Probabilmente la visibile debilitazione di chi non aveva retto la prova, venne
ritenuta, già di per se’, punizione sufficiente.
Non molti giorni dopo trovammo servita a tavola dell’uva. Ricordo
che la cosa ebbe un’accoglienza inevitabilmente contradditoria. Chi era stato
male non ne sopportava la vista, con grande soddisfazione degli altri che si
mangiarono doppia razione.
50.
RIDERE FINO ALLE LACRIME
(Marco Fioroni)
Il tempo che si passava in camerata non era molto e la intensa
attività fisica quotidiana, spesso non lasciava molto spazio ad altro che al
sonno. Ciò non impediva che tutta una serie di vicende vivessero ben al di la’
del loro frangente giornaliero, variamente intersecandosi con gli echi delle
diverse sfere di affetti che ognuno di noi aveva temporaneamente lasciato per
la pausa del servizio militare.
La tipologia delle frequentazioni femminili aveva una gamma
pressochè infinita, spaziando dalla assoluta serietà dei più attempati, giù giù
fino a quella più scanzonata di chi era ancora un battitore libero a tutti gli
effetti.
L’oggetto preferito del divertimento era la corrispondenza in
partenza e in arrivo, incombenza cui partecipava tutta la camerata in una
reciprocità libera e disinvolta che non aveva segreti per nessuno. Le lettere
in partenza avevano il divertimento dell’invenzione, delle baggianate più
assurde e delle fandonie più roboanti e improbabili.
Le lettere in arrivo erano uno spasso come conseguenza di quello
che avevamo loro scritto.
E in questo senso posso affermare che la nostra camerata era
senz’altro unica e inarrivabile, vivendo di un terzetto che non aveva uguali :
un lucchese, Nicoli, un genovese, Valerio Poggi, un veneto Roberto Braggion.
Noi, gli altri sette, eravamo ottimi comprimari, ma non raggiungevamo mai i
loro livelli.
Buona parte delle pause nelle quali ciò era possibile, vivevano
dello scambio fra Nicoli e Braggion di invettive e battute al vetriolo con
insulti scherzosi, per il primo, tratti, come le sue barzellette, da un
infinito repertorio toscano, ornato di parolacce, persino bestemmie, fiorite e
colorite, ma, sempre dette senza intenzione, per pura citazione, del tipo
“abbiamo anche questa.....”.
Braggion aveva, naturalmente, il suo repertorio di repliche e fra
i due si interponeva, sempre ad effetto, Valerio Poggi, la cui arguzia era
superata solo dalla sua simpatia.
A fare quella unicità di cui parlavo, contribuiva la cultura e la
buona conoscenza del tedesco su cui Poggi poteva contare e che spiegherò quanto
fossero determinanti negli scherzi epistolari indirizzati al nostro pubblico
femminile.
Erano anche i tempi di “Alto gradimento” che con Arbore e la sua
corte, si ascoltava, tra una castroneria e l’altra, nella pausa dopo pranzo del
riposo pomeridiano, quando dovevi cercare di restare sveglio per non ritrovarti
come un sonnambulo alle attività che riprendevano nel pomeriggio.
Gli schiamazzi non erano ammessi per cui quando il livello delle
risate e delle diverse vicende era eccessivo, prima o poi c’era l’intervento di
qualche superiore accompagnato da qualche provvedimento disciplinare.
Uno degli eventi più spassosi ebbe a protagonista Nicoli.
Come era solito fare se ne era uscito con una delle sue che aveva
subito polarizzato l’attenzione di tutti. Era una storiella che non riuscirei a
ricordare, ma, se anche lo potessi, non renderei minimamente la “vis comica”
della recita di Nicoli. Con le lacrime agli occhi e in preda alle convulsioni
dal ridere, tanto da non essere in grado di risollevarci dal letto, nessuno si
accorse che alle nostre spalle, la porta si era aperta e nel suo vano
troneggiava la figura del temuto tenente Fidanza.
Nessuno fu, poi, in grado di dire da quanto tempo si trovasse li’,
probabimente non interveniva, a sua volta divertito da quell’insieme
assolutamente esilarante di nove persone intente a sbellicarsi dalle risate,
tanto da non capire più nulla.
Non ricordo più chi, ma, qualcuno si accorse e ammutolì, o meglio
cercò di ammutolirsi, ma, con gli occhi pieni di lacrime, qualche gesto che
doveva servire a mettere gli altri sull’avviso, impiegò il suo tempo, sinchè,
preso dalla sua narrazione rimase solo Nicoli a non aver percepito il pericolo
e quindi procedendo verso l’epilogo.
Fu a questo punto che rischiò di succedere il peggio perchè non
c’è nulla di più difficile che trattenere una risata quando il contesto
contribuisce al contrario, diffatti avrete provato che ridere a bocca chiusa
può far scappare qualcosa di molto simile a una pernacchia, e così avvenne
quando Nicoli completò la sua storiella, accorgendosi nel contempo, di chi
aveva alle spalle.
Mi rivedo a faccia in giù sul letto, nella speranza di non farmi
sentire, contorcermi in una risata afona, senza fine.
Ristabilitosi un silenzio da tomba, senza proferire parola, come
era arrivato, Fidanza, se ne andò. Siccome poi non vi furono provvedimenti, ci
piacque pensare che si fosse precipitato altrove per scoppiare a sua volta, in
una risata, non potendo farlo davanti a noi perchè la disciplina imponeva di
non fraternizzare con i subalterni.
Molte volte può capitare di rimpiangere il non aver conservato
qualcosa. Questo è uno di quei casi.
Non ci sarebbe stato possibile rientrare in possesso degli scritti
che inviavamo alle nostre amicizie femminili, ma, avremmo potuto conservare le
loro risposte che ricevemmo e dalle quali si traeva gran divertimento
collettivo. Dalle loro risposte, domande, preoccupazioni, consigli,
suggerimenti, tutti indotti dalle castronerie che ci inventavamo per loro, ce ne
sarebbe stato di che farne un libro divertentissimo. Si spaziava su un vasto
repertorio ; concordammo una finta delazione, indirizzata alle amicizie
femminili di un paio dei nostri, nella quale esternavamo le preoccupazioni che
dicevamo di nutrire per la loro virilità, insidiata da profferte omosessuali di
una non ben precisata figura che si aggirava in caserma e che minacciava di
avere successo per la mancanza della componente femminile.
Vi erano risposte serie, con propositi gustosi, per rimediare a un
simile problema, altre lasciavano intendere, con suggerimenti più o meno
piccanti che stessero rendendo la pariglia ai nostri scherzi. Così come fosse
il divertimento era assicurato.
Un successo notevole riscosse il repertorio che Valerio Poggi
sfoderò con alcuni scampoli tratti dal “Viaggio in Italia” di Goethe, che lui
conosceva a memoria e che, inframmezzati ad arte nei nostri scritti
costituirono la dannazione delle nostre amiche. Era bastato far creder loro che
per motivi di sicurezza e di servizio dovevamo criptare i nostri messaggi,
costringendole così a lunghe e ardue sedute di traduzione. Ma, anche ciò non
costituiva la fine della fatica, perchè, poi, si diceva loro che il vero
significato doveva essere decrittato.In realtà, era semplicemente quello letterale, spesso, a nulla pertinente,
ma, loro non lo sapevano e ciò bastava a farle arrovellare inutilmente.
Si fosse trattato di un testo inglese, tante ne masticavano, ma,
il tedesco era ostico. Il divertimento durò finchè cominciammo a ricevere scritti
indecifrabili, non era alcuna lingua, poteva sembrare esperanto, ma non lo era.
Semplicemente : avevano mangiato la foglia e ci stavano rendendo la pariglia.
51.
INCURSIONI NOTTURNE
(Marco Fioroni)
Fra le poche mansioni concretamente utili, affidate agli allievi
ufficiali, vi era il servizio di guardia all’eliporto di Pollein, località
ubicata alla periferia sud ovest di Aosta.
La rotazione dei turni di guardia riguardava soprattutto le ore
notturne. Durante la mia permanenza alla Scuola ci finii due volte e una di
queste fu una notte molto movimentata.
Dopo esserci disposti secondo le consegne, trascorsi i primi turni
di guardia, nel cuore della notte, le varie sentinelle dei percorsi perimetrali
vennero attaccate da numerose persone disseminate alla spicciolata lungo tutto
il perimetro, all’esterno della recinzione e ai margini della rada e bassa
vegetazione che circondava l’eliporto.
Servendosi di fionde, colpivano le sentinelle con pallettoni di
piombo. Una sortita, fuori dalla recinzione, nel buio, con la necessità di non
lasciare sguarnito l’eliporto, quindi con un numero esiguo di partecipanti alla
battuta, venne subito esclusa. La situazione venne segnalata al comando che
inviò alcuni mezzi dei Carabinieri, ma, gli attaccanti si dileguarono per poi
ricomparire quando stava per albeggiare. Non si è mai potuto stabilire
esattamente di chi si trattasse. Gli unici elementi, magari finiti li’ per
caso, si diceva riconducessero a un gruppuscolo anarco- insurrezionalista.
Qualcosa che avvalorava l’azione organizzata, anche se solo di
disturbo, o, dimostrativa fu il ritrovamento di alcuni brandelli di carta
facenti parte di un articolo apparso sulla stampa e che trattava della
eversione organizzata che sarebbe poi esplosa nei successivi “anni di piombo”.
Allora non facevano ancora notizia questi eventi e, probabilmente,
non vi era alcun nesso.
Ricordo che questo ritrovamento avvenne, diversi giorni dopo
quella notte, ad opera nostra e casualmente.
Nella zona prospiciente la Dora e non molto lontano da Pollein
eravamo di casa perchè li’ si svolgeva l’addestramento al combattimento,
secondo i vari schemi e le varie tattiche allora fondate sulla guerra di Corea
e del Vietnam.
Così come fosse, per la nostra formazione di comandanti di plotone
assaltatori, passavamo qualche ora al giorno a strisciare con il “passo del
leopardo”e a “sbalzare”.
Così, qualcuno trovò quei brandelli di carta e io invece scoprii
l’esistenza della rucola.
Durante le varie esercitazioni con la faccia nell’erba percepivo
sempre questo odore acre, o, quantomeno equivoco dato che, per me, comasco,
quel tipo di insalata era sconosciuto.
A illuminarmi fu il solito Roberto Braggion che da bravo veneto
era in grado di apprezzarla, tanto che per dimostrarmelo si mise a mangiane un
ciuffo. Potenza degli anticorpi e della gioventù; era da quando giungemmo ad
Aosta che ci strusciavamo e camminavamo sopra, con tutti gli annessi e connessi
di queste operazioni.
Devo dire che in breve feci anche varie altre scoperte culinarie.
La più traumatizzante fu l’incontro con la “bagna cauda” o meglio,
con i postumi legati al suo consumo.
Anche in questo caso, la nostra camerata aveva la sua
particolarità che si chiamava Cocchi. Questo nostro simpatico collega aveva la
bella abitudine, trovandosi vicino come
torinese, di rientrare dai permessi domenicali, a silenzio suonato e con
noi profondamente addormentati.
Ricordo che la prima volta che ciò accadde, al risveglio
percepimmo questa acre atmosfera senza comprendere esattamente di cosa si
trattasse e da dove provenisse. Qualche scherzo degli anziani ? Qualche
diavoleria dell’addestramento NBC sfuggita al controllo ? Sembrava quest’ultima
l’ipotesi più probabile perchè ciò che sentivamo era troppo violento,ma, poteva
sembrare aglio, e appunto si diceva che i gas nervini avessero quell’odore.
Bastava però uscire dalla nostra camerata per andare a lavarsi ai
servizi igienici collettivi, per sentir tornare respirabile l’aria. Ma, non si
era ancora a nulla, perchè era il rientro ad essere quasi impossibile dopo aver
respirato l’aria pulita. Sembrava impossibile aver superato la notte in quella
camera a gas. La fortuna voleva che iniziando subito dopo le attività esterne,
l’aria della camerata aveva il tempo di ricambiarsi e di tornare nuovamente
respirabile. Si fece l’abitudine, così, molti lunedì mattina celebrarono il
trionfo della “bagna cauda”.
Devo dire, ad onor del vero, che furono due ottime scoperte
cui, in seguito, avrei tributato il
giusto merito, rispetto umano, per le narici altrui, a parte. Buona la rucola,
strepitosa la “bagna cauda”.
Quanto al rispetto umano e la “bagna cauda” non posso dimenticare
l’esperienza del Maggiore Veronelli, Aiutante di Stato Maggiore alla SMALP.
Quel giorno eravamo schierati al piede della palestra di roccia per la prima
arrampicata sulle vie sino al quinto grado, quando lo vedemmo arrivare in
divisa d’ordinanza.
Ricevuto che ebbe il saluto del reparto, si diresse verso la
parete rocciosa che, ai più, incuteva qualche timore, e con i mocassini e il
cappello alpino in testa, come un gatto, in meno di un minuto, salì fino alla
sommità, in arrampicata libera, senza sicurezza. La sua arrampicata aveva la
scioltezza di chi si stesse muovendo nel salotto di casa.
Ora toccava a noi. La mia squadra fu la prima. Al piede della
parete ci spiegò che non c’era motivo di dover correre dei rischi visto che
stavamo imparando, pertanto, saremmo saliti con l’imbracatura e con alcuni di
noi a fare sicurezza con le funi, in modo tale che in caso di caduta saremmo
rimasti appesi come salami, ma, senza danni.
Ci spiegò come dovevamo indossare l’imbracatura e collocare le
funi e per farlo si accostò a uno di noi per accomodare il tutto come era
necessario.
Non potrò mai dimenticare l’espressione buffa e schifata del suo
volto e le parole che, quasi in apnea, disse al mio compagno:”Figliuolo in
cordata con te, o mi butto di sotto io, o ci butto te”
La bagna cauda aveva colpito ancora.
52.
Da quel giorno, soddisfatti i numeri richiesti
dall’antico proverbio della cultura popolare italiana, non si verificarono in
quella camerata ulteriori episodi strappa lacrime ed i ragazzi poterono
nuovamente recarsi con sufficiente tranquillità al ritiro della corrispondenza.
53.
Acqua, pardon grappa passata.
52.
CARO AMORE, TI SCRIVO!
(Paolo Moneta)
Appena raggiunta la SMALP, tra tutte le
incombenze ed assegnazioni che contraddistinsero quei giorni, fu anche
comunicato ai ragazzi l’esatto indirizzo che avrebbe dovuto essere indicato
sull’intestazione di tutta la corrispondenza in arrivo.
In particolare, per favorirne un più
rapido smaltimento, andavano specificati la qualifica (AUC) ed il numero della
compagnia di appartenenza.
La distribuzione della posta avveniva al
termine del pranzo di mezzogiorno, all’interno della palazzina degli allievi.
Il rituale era sempre il medesimo: un caporal
maggiore, intorno alle 12.30, spuntava dalla fureria con l’attesissimo pacco di
missive e veniva di colpo attorniato dalla speranzosa massa degli allievi. Poi
declamava i nomi dei fortunati con flemmatica suspense e contestualmente consegnava
loro l’ambitissimo premio.
La prima reazione istintiva dei baciati
dalla sorte consisteva nel girare rapidamente la missiva per controllarne il
mittente. Scopertone il nome, il fortunato allievo manifestava il livello della
sua soddisfazione con tre diversi comportamenti, ormai perfettamente
codificati.
Se riponeva in tasca la lettera con fare
noncurante e continuava tranquillamente a chiacchierare con i compagni, lo
scrivente non poteva essere che un famigliare.
Se si comportava in modo più o meno
analogo, ma accompagnava con un sorriso la lettura del nome del mittente,
probabilmente era un caro amico che si era ricordato del collega partito per
fare il soldato.
Se invece il leggero sorriso si allargava
e veniva accompagnato prima da un evidente sgranamento degli occhi e poi da una
rapido scatto verso il proprio posto branda, non vi era alcun dubbio: la
lettera veniva dalla morosa!
N.B.:
non si facciano, nel merito, inutili illazioni, accostando la ‘morosa’ al
‘posto branda’. Nella comunità della caserma, la privacy non esisteva. Ed il
proprio sgangherato lettino, in una camerata condivisa con altri nove ragazzi,
rappresentava l’unica collocazione in cui, con un notevole sforzo di buona
volontà, si riusciva a restare un po’ soli con se stessi.
Nerio Albertoni era un ragazzo d’oro.
Educato, riservato, discreto. A chi gli chiedeva da che città venisse, lui non
rispondeva ‘Cittadella’, ma preferiva dire che abitava vicino a ‘Bassano del
Grappa’, così da non mettere in difficoltà chi non sapesse dove fosse il suo
paese natale.
In quel primo pomeriggio di agosto, alla
consueta distribuzione della posta, era stato tra i primi ad essere nominati.
Rigirò tra le mani l’incartamento appena ricevuto e schizzò più veloce di
Mennea verso la sua camerata, la numero 1.
Con la solita discrezione che accompagnava
i giovanotti di quell’età, i compagni di stanza, non appena videro il trafelato
Nerio sdraiarsi sul letto, giusto per favorire quel minimo di intimità che il
ragazzo cercava di conquistare, intonarono il consueto ‘OOOHHHHHH’,
naturalmente in crescendo. Esclamazione che sarebbe cessata solo all’apertura
della missiva, per trasformarsi poi in assoluto silenzio, con lo sguardo di
tutti gli astanti rivolto sfacciatamente verso il ‘fortunato malcapitato’.
Nerio, che ormai aveva già rinunciato alla
desiderata riservatezza, aprì la busta e si immerse nella lettura.
Poi, d’un tratto, la sua espressione, in
un primo tempo gioiosa e felice, cominciò a trasformarsi.
Si fece prima serio, poi preoccupato,
quindi addolorato.
Un piccolo raspino di gola anticipò di un
attimo la prima lacrimuccia.
Anche i compagni, che scherzosamente non
avevano ancora smesso di puntarlo con gli occhi, compresero il suo piccolo
dramma. La sua dolce metà gli stava scrivendo che nei suoi sentimenti si era
insinuata una piccola crepa (magari aveva pure, la piccola crepa, un nome ed un
cognome) e che necessitava di una lunga pausa di riflessione, da sempre la miglior
menzogna per anticipare una definitiva rottura.
Trascorsero soltanto due giorni e questa
volta il destinatario di un nuovo scritto fu Francesco Castelli. Il torinese Francesco
era un po’ il Super Man della camerata. Alto, magro, aitante, bello, tutto
muscoli. Di ragazze, lui, avrebbe dovuto averne a manciate e la fortunata che
se lo era accaparrato mai e poi mai avrebbe solo potuto pensare di
abbandonarlo. Purtroppo si verificò l’esatto contrario. Francesco, appena
terminò la lettura, rimase impassibile per qualche secondo, poi, nervosamente,
stracciò ed appallottolò quel foglio di carta portatore di cattive notizie e lo
gettò con un perfetto tiro da tre punti nel lontano cestino. Quindi, tra il
seccato e l’indifferente, nascose la testa nel suo confortevole cuscino.
‘Non
c’e due senza tre’ è un antico proverbio della cultura popolare italiana. La
sua nascita è influenzata dal fatto che ‘tre’ è considerato il numero perfetto.
Tre sono le persone della Santissima Trinità, tre sono le dimensioni del mondo
in cui viviamo. E tre furono anche le perfide fanciulle che osarono sbarazzarsi
di tre valorosi e promettenti allievi ufficiali che albergavano nella camerata
numero 1.
Il
termine ‘perfide’, in questo contesto, è il risultato di una severissima censura
imposta dalla redazione. Si lascia alla razionale fantasia dei lettori la
definizione originale di questi miseri personaggi di natura femminile. Costoro,
mentre il loro amato si esercitava sotto un sole cocente e truccato da soldato
a fare il passo del leopardo strisciando sotto un reticolato di filo spinato a
Mont Fleury, se la spassavano sul litorale tirrenico ed adriatico, indossando
un risicato bikini più vedo che non vedo e muovendosi sinuosamente sul telo
mare per perfezionare l’ambita tintarella e per sollecitare la curiosità dei
bell’imbusti che ronzavano attorno. E poi scrivevano che necessitavano di un
momento di ponderazione…!
Ormai, almeno per i ragazzi del primo
stanzone, la consegna della posta, da momento di gioia, stava trasformandosi in
un vero e proprio incubo.
“Bozzo Mirco”, recitò con enfasi il
sergente Gard, con in mano il pacchetto della corrispondenza giornaliera.
Mirco, ligure di Lavagna, era un ragazzo
‘per bene’. Tranquillo, simpatico, un po’ fatalista. Solo una settimana prima
di partire per Aosta si era ‘fidanzato’ con una nuova fiamma, di nome Madi.
C’era stato solo qualche scambio di bacetti ma non ancora la promessa
dell’amore … Ma purtroppo, come gli amici Albertoni e Castelli, anche Mirco
soggiornava nell’ormai scalognata camerata numero 1.
Fu il terzo condannato dalla pausa di
riflessione!
53.
UNA BOTTIGLIA DI GRAPPA ALLA PERA
(Sandro Bazurro)
Era il periodo della mietitura
del grano, quando si sparse la voce che anche alla Scuola si potesse usufruire
di licenza per lavori agricoli; considerate le scarse prospettive di rivedere a
tempi brevi la propria casa, gli amici e la morosa, alcuni addussero questa
motivazione per perorare la propria istanza.
Le licenze agricole, da sempre
esistite nell'esercito italiano, erano concesse in periodi e per motivi ben
definiti, come la mietitura delle granaglie o la vendemmia dell'uva. Per avere
diritto ad esse bisognava far figurare che la famiglia viveva sul lavoro della
propria campagna od essere braccianti agricoli. Spesso erano gli stessi consorzi
agricoli a richiedere la presenza del militare. In altri casi erano invece i
famigliari a chiedere la licenza agricola per il proprio parente, facendo
addirittura accompagnare tale richiesta da una lettera del Sindaco del paese,
il quale testimoniava la particolare esigenza.
Fatto sta che qualcuno, facendola
in barba alla ferrea disciplina delle italiche Scuole Militari, riuscì a
partire in licenza, seppur per un breve periodo. Tra questi il fuciliere
Giuliano Secchi della camerata n. 8.
Al ritorno per addolcire
l'invidia dei colleghi i presunti agricoltori portarono da casa, ai meno
fortunati, beni in natura, da condividere nelle lunghe serate in caserma.
Non si ricorda se in quella, od
in altra occasione, l'amico Giuliano portò una magnifica bottiglia di
grappa con pera williams all'interno, celandola accuratamente nel proprio
armadietto.
La manovra non sfuggì agli
attenti compagni di camerata, che pensavano volesse sottrarla al bene comune,
mentre invece il medesimo la sera stessa ne dissigillò il contenuto,
centellinandolo nei gavettini dei presenti.
Ad onore del vero ne bevvero
tutti con avidità ma anche con moderazione ed a più riprese venne offerta
l'agognata libagione, ovviamente a discrezione del proprietario, irremovibile
anche alla successiva richiesta di qualche spudorato compagno per un presunto
problema di digestione.
Ma un giorno oscuro l'allievo
Secchi, complice l'immancabile fretta della vita alla Scuola, comandato a
svolgere un servizio di caserma, dimenticò l'armadietto socchiuso, un minimo
spiraglio dal quale si intravedeva l'oggetto del desiderio della camerata.
Non si sa come, non si sa perché,
fatto sta che la galeotta bottiglia venne prelevata ed il prezioso nettare andò
a riempire il gavettino dei presenti, escluso naturalmente il legittimo
proprietario in quanto assente. Nell'euforia del momento qualcuno addirittura
chiese: Giuliano, possiamo? nessuna risposta e quindi per il famoso detto che
chi tace acconsente, si pensò di brindare anche alla sua salute.
Dopo ripetuti brindisi, la
bottiglia venne rimessa al suo posto precisamente e devotamente, pensando che
il fattaccio passasse inosservato, ancorché il livello fosse paurosamente
calato.
Ora, non sappiamo se da buon
precisino quale era il collega, o forse dubbioso circa la rettitudine dei
suoi compagni di camerata, fatto sta che il primitivo livello del liquido nella
bottiglia, era stato segnato.
Obiettivamente la mancanza era
evidente.
Al ritorno rinvenuto l'armadietto aperto ed
effettuata una breve ricognizione sugli effetti personali custoditi, Giuliano
scoprì l'ammanco, mentre i presenti fingevano di essere distratti ed impegnati
in altre faccende, pur tenendone d'occhio la reazione.
In verità il medesimo un pochino
si adirò con loro, ma per poco in verità, perché ben presto il suo solito
sorriso sornione, fece capolino dallo sguardo cupo, tacito segnale che il
perdono aveva preso il sopravvento.
54.
FINALMENTE STEN!
(Giuliano Levrero)
E venne il temuto momento degli
esami di fine corso che avrebbero deciso le sorti di tutti noi.
Dopo tanti sacrifici, vessazioni
di ogni tipo e tentativo costante di annullamento della personalità di ognuno
di noi durati sei lunghi mesi, gli esami ci avrebbero
permesso la possibilità di conseguire l'anelato grado di Sotto Tenente.
Eravamo decisamente 'sulle spine'
ed abbastanza nervosi.
Dopo la prova scritta, di cui non
ricordo assolutamente nulla, venne il giorno dell'orale che durò circa mezz'ora
per ognuno di noi.
Se ben ricordo ero stato meno teso all'esame di laurea e all'esame di
abilitazione alla professione conseguiti l'anno
precedente!
La commissione esaminatrice era
composta di tre membri: Presidente era il Colonnello Verunelli, Comandante
delle due Compagnie AUC.
Ogni membro della Commissione
aveva a disposizione una pallina bianca ed una nera con le quali dare un
giudizio positivo (bianca) o negativo (nera) a seconda dell'andamento
dell'interrogazione che spaziava su tutte le materie studiate, a fatica,
durante i sei mesi precedenti.
Finita l'interrogazione le tre
palline, in modo celato, erano collocate tramite un foro in una scatoletta
dotata di cassetto da cui successivamente si estraevano.
Il giudizio era dato all'istante
e poteva essere del tutto positivo (tre bianche), del tutto negativo (tre nere)
oppure mediocre; ovviamente il 'verdetto' comprendeva anche l'esito della prova scritta.
Ricordo chiaramente
l'interrogazione di “Topografia”, di “Arte Militare”, di “Armi e Tiro” e di
“Trasmissioni”, ma la memoria viene meno sulle altre domande, comunque riuscii
ad ottenere tre palline bianche ...evvaiii!
Fummo promossi tutti tranne uno.
Ne fummo meravigliati e stupiti; ricordo che commentammo il fatto con amarezza
perché durante il Corso e all'esame si era comportato come tutti noi!
Fatto sta che il poveretto, causa
lo shock, rimase in camera piangendo per tutto il tempo sino al termine del
corso.
Non è dato sapere la sua
destinazione, ma non di certo al mio Battaglione “Aosta”.
Terminato il corso (era poco
prima di Natale), ottenemmo l'agognata 'ordinaria' che probabilmente si
protrasse qualche giorno in più per dar modo ai nostri colleghi del 63° di
terminare il loro servizio di Sergentato AUC e di insediarsi al Reparto prima di
noi.
Finalmente un po' di riposo in
famiglia e con la propria fidanzata.
Non
ricordo la mia graduatoria, ma fui assegnato alla Taurinense - 4° Reggimento di
stanza a Torino.
Una mattina a casa un carabiniere
mi consegnò un dispaccio in cui mi si avvisava di recarmi presso il Comando di
Stazione per comunicazioni che mi riguardavano.
Compresi subito di cosa si
trattasse e mi recai immediatamente in caserma ove fui accolto dal Maresciallo
Comandante che, sorridendo compiaciuto, mi porse una notifica del Comando di
Reggimento – Caserma Monte Bianco di Torino. La apersi con curiosità e
soddisfazione: mi si comunicava di recarmi il tale giorno alla tale ora presso
l'Ufficio del Comandante Colonnello Forneris per il Giuramento quale Ufficiale
e per la destinazione al Reparto. Congedandomi, il Maresciallo mi strinse la
mano e mi disse: <auguri Signor Tenente!> … sentirsi chiamare
“Tenente”… mi sentivo un po' 'importante'.
Fu così che il tale giorno alla
tale ora (era di pomeriggio) mi presentai al Comando della “Monte Bianco” a
Torino: i futuri colleghi Sten assegnati al 4° Reggimento erano in corridoio al
primo piano della caserma nei pressi dell'ufficio del Comandante; ci salutammo
con affetto e con una certa eccitazione nella speranza di essere assegnati al
Reparto desiderato.
Non ricordo i nomi di tutti i
presenti.
Speravo vivamente di poter
tornare ad Aosta, al Battaglione nella Caserma Testafochi.
(come inciso: ad Aosta erano già
stati assegnati alla nostra Scuola Militare alcuni colleghi risultati i più
idonei e meritevoli).
Fumo ricevuti nell'ufficio del
Comandante e ci schierammo sull'attenti e perfettamente inquadrati con la
nostra 'diagonale' , cappello, sciarpa, camicia e cravatta in perfetto ordine e
senza pieghe, scarpe luccicanti.
Dopo la presentazione individuale
ed il discorso del Colonnello, ad uno ad uno giurammo secondo il rito e
ritornammo ai nostri posti.
Il Colonnello assegnò ad ognuno
la destinazione con l'ordine di presentazione immediata al reparto; avvisò però
che, se nell'ambito della stessa specializzazione qualcuno di noi avesse voluto
cambiare destinazione con qualcun altro disponibile, non ci sarebbero stati
problemi di sorta.
Di seguito, dopo i saluti anche
alla bandiera, uscimmo in corridoio.
Si formarono alcuni gruppetti per
commentare le destinazioni mentre altri compagni passeggiavano lentamente
assorti nei loro pensieri.
Ero stato assegnato al
Battaglione “Susa” di stanza nella Caserma Berardi di Pinerolo, ma non ero
tanto soddisfatto; avrei preferito tornare ad Aosta.
Casualmente (e fortunatamente) mi
era capitato di sentire che Ernesto Brociero era stato destinato ad Aosta e mi
era parso non fosse così contento, per cui mi avvicinai e gli chiesi la sua
disponibilità al cambio: accettò di buon grado. Tornammo dal Colonnello Forneris che fece modificare le destinazioni; non posso ricordare
se altri seguirono la nostra mossa.
In quel periodo abitavo a Torino
con i genitori; per raggiungere Aosta
(allora avevo la mia bella GT 1300 junior dormiente a casa mia a Novi) in
precedenza in caserma mi ero messo d'accordo con Michele Casini e Roberto
Salati, che erano venuti a Torino in macchina da Milano per prestare giuramento
ed erano stati assegnati al mio stesso battaglione.
Arrivati alla Testafochi ci
presentammo al Corpo di Guardia: l'Ufficiale di Picchetto ci accompagnò al
circolo Ufficiali ove tutti gli Sten (cioè i “vecchi” del 62° ed i nostri
“fratelli maggiori” del 63°) erano in 'trepida attesa' di conoscere i nuovi
'polli' da spennare.
Eravamo in sette: oltre il
sottoscritto, Michele Casini, Mario Lorenzi, Alfredo Marchelli, Roberto Salati,
Roberto Tesio, Giuseppe Tropenscovino.
Tutti,
tranne noi 'poveretti', sapevano già a quale Compagnia ognuno dei nuovi
arrivati era stato assegnato.
Il Circolo comprendeva un lungo
corridoio d'entrata che divideva due zone: la sinistra con il bar, cui seguiva
la cucina ed in fondo i servizi igienici; la destra con l'ampia sala lettura
cui seguiva la grande sala mensa.
Ovviamente fummo 'ricevuti' al
bar ove ci fecero presentare uno per uno ad alta voce; capitò che
nell'imbarazzo a qualcuno scappò di presentarsi con: “Allie... Sottotenente
...”, per cui ad ogni stupidaggine
'sparata' seguiva, quale punizione, una bevuta o una 'pinciata' o qualcosa
d'altro che si inventavano sul momento (non ci
avevano lasciati spogliare ed eravamo con il 'castorino' … un caldo boia).
I nostri “vecchi” si erano messi
in combutta con gli alpini del centralino posto al primo piano della palazzina
comando vicino alla maggiorità; ad un certo punto ci ordinarono: <appena
sentirete squillare il telefono in fondo al corridoio dovrete ad uno ad uno
'schizzare con il passo del leopardo'
(con il 'castorino' ed il cappello indossati) sino laggiù, alzare la
cornetta e presentarvi a gran voce perché così distanti sentiamo poco!; se
l'ordine sarà stato eseguito male o la voce non sarà chiara, sarà ripetuto il
tutto!!>; qualche volta 'dovette' succedere e lucidammo quindi con il
'castorino' nuovo il bel pavimento del corridoio.
Avevamo comunque il sentore che
qualcosa non quadrasse …. ma non riuscivamo ancora a capire cosa.
Il Battaglione “Aosta” in quel
tempo era operativo a tutti gli effetti per cui i nostri “vecchi” del 62°
iniziarono a farci un quadro allucinante della vita nelle cinque Compagnie,
mentre i 'fratelli maggiori' del 63° annuivano con grande deferenza: Comandanti
tremendi, punizioni continue, fatiche immani, servizi continui, rischi di ogni
tipo ….
Subito, disorientati, rimanemmo a
bocca aperta ed occhi spalancati guardandoci supìti negli occhi, poi pian piano
capimmo.....
Ci facevano domande e ad ogni
minimo tentennamento o sbaglio dovevamo sottometterci ad una goliardica
punizione che in ogni caso non fu mai eccessiva o malevola, ma abbastanza
comica ed accettabile, compreso il 'bacio alla mula'... hem!!...qui non mi
dilungo; 'dulcis in fundo' ci fecero saltare dalla finestra del bar che dava
sul piazzale e correre sotto l'alzabandiera ad 'aquilare'.
Alla fine di tutto si svelarono e
comprendemmo ciò che ci era parso un pò ... strano: alcuni “vecchi” si erano
cambiati di ruolo con i baristi e viceversa; si fece tutti una grande risata
con altre bevute e pacche sulle spalle.
Il giorno successivo ognuno di
noi prese possesso delle proprie mansioni in
Compagnia.
….Ma questi sono altri ricordi.
55.
QUADRI DI UNA ESPOSIZIONE...
(Vinicio Callegari)
Comandante ad interim di
compagnia....
Qualche patema d‘animo leggendo i
compiti a cui era preposto il Comandante. Esistevano nei reparti una “cassetta
blindata” nella quale vi si trovavano sia i “codici per gli allarmi NATO” sia
altre cose come “l’elenco dei segnalati” per reati di opinione (o per
iscrizione a qualche partito politico) oppure per reati comuni contro il
patrimonio o penali di vario tipo. Era chiaro che per i segnalati per reati
veniva ‘vivamente sconsigliato di provvedere a incarichi di particolare
importanza’.
Pieno di zelo e di sana curiosità
mi ero deciso a spulciare quella lista dei dannati ma, guarda caso, cosa mi ero
trovato? Fra gli incarichi da non assegnare assolutamente da me dipendeva anche
il postino di Battaglione, l’incaricato dell’armeria di compagnia ed il
magazziniere. Tutti questi baldi alpini si erano macchiati di marachelle più o
meno “vivaci” ragion per cui decido di inviarli in licenza e di sostituirli con
altrettanti titolati naioni, con laurea o senza ma con un profilo professionale
confaciente con l’incarico.
Purtroppo dopo neanche un mese ho
dovuto ricredermi delle scelte operate. La posta arrivava “a sbalzi”, dall’armeria
era sparita una pistola ... (poi recuperata, ma quanti sudori freddi), ed il
magazzino era diventato lo spaccio gratuito dei magazzinieri delle altre
compagnie (prestami...che dopo riporto ... etc. etc.).
Reintegrati gli originali ed
“imperfetti” (secondo gli alti comandi) incaricati il servizio postale ritornò
ad essere puntuale, l’armeria uno specchio ed il magazzino con dotazione al
completo. SIC.
I muli della CCS.
L’estate del 72 stava passando in
fretta e bisognava prepararsi per il prossimo campo invernale. Anche i muli
della CCS (a servizio della 127a Compagnia mortai da 120 del mio amico
Viarengo) dovevano iniziare gli allenamenti per cui predisposi la prima uscita
di sgambamento accompagnata oltre che dal Sergente salmerista anche dal
Veterinario di Battaglione.
Questi era un ragazzone
bolognese, gioviale, laureato in veterinaria e Stenente.
Dopo l’adunata la teora dei muli
prese la porta carraia e si avviò verso il sito designato il cui nome era ed è
“Maso Pineto”. Si trattava di una passeggiata di circa un paio d’ore seguita da
sosta e rientro nel primo pomeriggio.
Ricordo che mi trovavo davanti
l’infermeria per parlare con lo Sten. Spalti Medico di Battaglione, padovano,
simpatico camerata quando vidi il cancello della carraia aprirsi e i muli
rientrare verso la salmeria. A passo lento veniva verso di noi il Veterinario,
tenendosi un fazzoletto premuto sulla bocca. Man mano che si avvicinava noi due
cominciammo a notare che il fazzoletto bianco aveva cambiato colore.
Immediatamente ricoverato, antidolorifici e di corsa all’ospedale cittadino.
Era successo che una bizzoza mula, la Delfina, famosa perche riusciva a
scalciare anche di lato aveva accusato un malessere addominale e lo zelante
veterinario era riuscito soltanto in parte a schivare il calcio che però gli
aveva portato via sette denti.
Non l’ho più rivisto e mi
piacerebbe tanto incontrarlo ora.
Corso di sopravvivenza ...
1) Il primo incarico che
ricevetti al mio arrivo in Battaglione fu quello di organizzare il trasporto di
due CPM di legna per una casermetta a Varna (BZ). Avrei dovuto comandare un
plotoncino di alpini per caricare a mano la legna presso un deposito vicino
alla caserma e scaricarla dove convenuto. Boh...che fare? Vedo in piazzale due
camion con autisti e 4 alpini in uniforme da lavoro. Capperi mi
dico...l’Aiutante Maggiore oltre che dare l’ordine mi ha procurato tutto il
necessario. Mi avvicino e do gli ordini. Vedo gli occhi degli alpini sgranarsi,
mi dicono timidamente che hanno un altro ordine ma io non sento ragioni e si
va. Rientro per ora di rancio e vengo preso per la collottola dal maggiore:
quegli automezi erano destinato a trasporto munizioni e dovevano recarsi in
polveriera... Però quella volta fu tacitamente ammirato il mio senso
dell’arrangiarsi (spesi comunque mezzo stipendio al circolo per cancellare la
cosa).
2) Ma il secondo e ben più
importante incarico fu quello di comandare una squadra di terzo ciclo (quasi
congedanti quindi) per un “corso di sopravvivenza”.
Si trattava di effettuare una
traversata dal punto A al punto B identificati nelle cartine IGM nei dintorni
di Bressanone, muovendoci solo nottetempo, non dovevamo essere notati da
nessuno, dormire all’addiaccio o in truna e con solo n° 2 razioni K !!
Il territorio era coperto da un
fitto manto di neve, muoversi di notte non era per nulla agevole, freddo
intenso, evitare strade statali, provinciali, comunali, vicinali, mulattiere e
sentieri frequentati cioe semplicemente nel bosco.
La squadra: io, un sergente del
32mo, un RT, un infermiere, un cap. magg. 3 alpini.
Portati con AR e CL in zona
operazioni ci defilammo velocemente, era l’imbrunire. Ricordo la fatica di
camminare nella neve profonda e farinosa anche se allenato e con le “ciaspe”. Dopo
qualche ora raggiungemmo il primo punto previsto dall’itinerario e ci
accampammo. Io divorai quasi completamente il contenuto della prima razione.
Scavammo delle tane preferendo piccoli pendii e al mattino si era data la fine
alla razione. Venne la sera e si ripartì verso il secondo punto identificato
sulla carta. Avremmo dovuto stare fuori 6 giorni e 5 notti per arrivare a completare
il tracciato. Alle 18,00 appuntamento radio per rapporto con la base. Con la
seconda notte anche la seconda razione era quasi terminata quasi per tutti. Io
mi chiedevo cosa fare in caso di...e gli occhi dei miei cercavano di leggere
qualcosa dei miei pensieri.
Ci muovemmo verso il terzo punto,
dopo aver di norma cancellato le tracce dello stanziamento e verso l’una di
notte, ricordo una splendida luna che illuminava bene la zona ma col cielo
stellato il freddo bruciava la faccia. Non avevo più niente con me, il sergente
un paio di cioccolate, chi una scatoletta di carne ma 8 ragazzi giovani e
affamati oltre che infreddoliti avevano bisogno di ben altro. Fu così che....
La terza sera vidi una luce che
filtrava tra le piante del bosco e finchè con fermezza ordinavo ai ragazzi, con
cui si era stabilito un certo rapporto cameratesco, di predisporre le tane per
il riposo, chiamai il caporale che era un altoatesino e quindi bilingue e gli
chiesi cosa ne pensava di raggiungere quella struttura che si intravvedeve e di
chiedere un po’ di cibo. Sacrificai parte del denaro che mi ero portato da casa
perchè lo stipendio era ancoa lontano. Dopo un paio d’ore questi rientrò con
pane, burro, formaggi, vino e frutta. Evviva da parte di tutti. Lui disse che
il maso aveva notato la nostra presenza (che asini che siamo stati ...) e potevano
dare ospitalità nel fienile, bastava non fumare. Beh si trattava di un’ora di
camminata e mai ci si è mossi così celermente.
Alla mattina facemmo colazione
con pane fresco, burro, marmellata e latte appena munto. Pagai (poco) pù che
volentieri e rimanemmo li fino a sera, sotto lo sguardo curioso dei marmocchi
che diosà cosa frullava nel loro cervello nel vedere una marmaglia puzzolente
(vero) con barbe lunghe e coi fucili.
Partimmo all’imbrunire quindi ma
io avevo le idee chiarissime in testa: studiando il percorso avevo notato che
con una piccola deviazione ci saremmo avvicinati ad un altro maso.
Naturalmente nei rapporti via
radio, fra scariche e vuoti, facevo presente che a parte il freddo e la carenza
di generi alimentari, non vi erano preoccupanti situazioni sanitarie e di
sicurezza.
Arrivammo a notte inoltrata al
quaro punto, avanscoperta del caporale lanzichenecco e voilà fienile caldo con
desserts. Passò il giorno oziando e già pregustavo l’ultimo tragitto con
ennesimo maso da occupare ma .... alle 18,00 il collegamento radio non fu il
solito. Arrivò l’ordine di partenza immediata per raggiungere il punto C
identificato nella tavoletta IGM per rientro al reparto.
Molto probabile che qualcuno
avesse mangiato la foglia e cioè come fanno sti prodi alpini a restare senza
viveri e camminare per oltre 3 giorni ?
Trovai l’AR per me ed il
sergenteed il CL per i ragazzi.
Arrivati in caserma al buio ci
venne a salutare il Colonnello a cui presentati la forza. Poi mi chiese di fare
un rapporto dettagliato di questo corso all’indomani.
Con molta faccia tosta mi
presenta in Comando, fui ricevuto dal Colonello e dall’aiutante maggiore e dal
mio comandante di compagnia allora Ten. Arnaldo Soleri (ora generale a 2
stelle), feci il mio rapporto nel silenzio di tomba. Il commento finale del mio
comandante di compagnia fu:”Tenente la vedo molto deperita....”. Per poco non
scoppiai in una sonora risata.
Epilogo. Due giorni dopo durante
l’adunata dell’alzabandiera fui chiamato assieme agli altri che avevano
partecipato a questa avventura e ci fu consegnato “il fazzoletto giallo” da
mettere sul collo sotto la camicia come segno distintivo.
Compagni di corso al Bolzano.
Viarengo, con cui dividevo la
stanza e le scorazzate in auro con la sua FIAT 850 Coupè. La caserma non aveva
alloggi per ufficiali e tutti si dormiva o in albergo oppure in qualche stanza
in affitto.
Monti con cui dividevo i tour in
moto (vedi foto, quello sono io).
Unterberger, compagno di laute
cene e bevute che mi ha insegnato come si degusta il “pero” che si trova dentro
la grappa di pere di una nota distilleria altoatesina....
Pfeifer con il quale ho condiviso
il reparto ma che è sempre stato forza assente, spertuto in mezzo alle nevi con
i suoi esploratori.
Di tutto ciò ho un ricordo caldo
per le emozioni e l’amicizia che mi è stata regalata.
56.
57.
58.
59.
“…allora Tenente, cosa vogliamo fare? Redigere verbale ed esporre denuncia alle autorità, o…?”.
Così si rivolgevano il guardiapesca e il messo comunale al comandante del distaccamento di Saltusio in Val Passiria, Felice Piasini, un caldo pomeriggio di fine luglio. I due se ne stavano all’ingresso della casermetta con due sacchetti di plastica rigonfi e gocciolanti e, all’invito del tenente ad accomodarsi, proposero che, per non sporcare, era meglio andare sul retro e fare due chiacchiere.
Aperti i sacchetti, il comandante, scuotendo il capo, capì subito di che si trattava. I suoi naioni ne avevano combinata un’altra.
Le ispezioni alle opere di difesa si svolgevano al mattino o al pomeriggio.
Nel tragitto tra una postazione e l’altra, non si poteva resistere alla tentazione di fare un giretto nei boschi, in cerca di funghi, che poi venivano cucinati col risotto o impanati dall’ ex ciabattino bresciano, promosso cuoco sul campo!
Al pomeriggio si preferiva andare sulla sponda opposta, che dava a nord, più fresca, ma si doveva passare per forza dal torrente. E, nonostante le raccomandazioni, la pattuglia si toglieva scarponi e mimetica e si rinfrescava o si metteva a prendere il sole sui massi levigati dall’acqua.
Qualcuno, un po’ più attivo, cercava di acchiappare con mani e bastoni qualche trota, ma in genere senza successo.
Quel giorno, fortuna volle, trovarono in una pozza isolata, vicino al letto principale del torrente un gran numero di trote rimaste là intrappolate. Prenderle era diventato un gioco.
Così lo schiamazzo festoso dei baldi pescatori richiamò l’attenzione degli indigeni, che, gelosi delle loro cose e rispettosi della legge, avvisarono chi di dovere.
Il resto è noto.
Svanito ormai il sogno di gustare le famose “Forellen” del Passirio, al comandante non rimase che optare per la soluzione più vantaggiosa: “regalare”, seguendo il consiglio delle guardie, le trote alla Casa di Riposo di Rifiano, il paese vicino, e chiudere lì la faccenda.
62.
56.
LA RECLUTA CON IL BAMBINO
(Luciano
Ivaldi)
Al CAR arrivò una nuova infornata di reclute. Fra i giovani che
affollavano il piazzale, ne notai uno al fianco di una ragazza che teneva un
bimbo in braccio. Mi avvicinai. Indossavano abiti sgualciti, capelli unti, lo
sguardo di chi è cresciuto troppo in fretta. Il bambino, ad occhio, aveva un
paio di mesi, non di più.
“Chi sei?” domandai al ragazzo. Mi mostrò la cartolina precetto. “Di
chi è il bimbo?” chiesi. “E' mio, mio figlio”, rispose. “E lei è tua moglie?”
aggiunsi guardando la ragazza. “No, non siamo sposati” rispose chinando il capo
per celare l'imbarazzo.
Sapevo che i padri con moglie e figli a carico avevano diritto
all'esonero dalla leva. Il caso che avevo di fronte, tuttavia, era formalmente
differente e siccome sotto naia la forma è sostanza, chiesi lumi al Comando. Al
telefono, un ufficiale, doveva essere un maggiore, sentenziò: “mogli, la
circolare parla di mogli, non di ragazze madri!”. E il bimbo? Ci pensasse la
famiglia, i nonni, gli zii ... le caserme non sono asili nido!
Ritornai dal ragazzo e abbozzai: “saluta la tua compagna e il tuo
bambino. Potranno venire a trovarti tutte le volte che vorranno”. “Faccio il
muratore, se resto qui e non lavoro, come fanno a mangiare” bisbigliò chinando
un'altra volta il capo. “Non avete genitori in grado di aiutarvi?” obiettai.
“Ci hanno sbattuti fuori casa”, fu la risposta che mi lasciò senza parole.
Venivano da un paese del cuneese, a volte si faceva così, da quelle parti e
anche altrove, per emendare la vergogna di un'incauta, prematura notte d'amore.
Fu allora che mi venne un'idea: concedere una licenza al ragazzo e
affidargli una lettera da consegnare ai Carabinieri del paese. Nella missiva,
dopo aver descritto il fatto, avrei chiesto di intercedere presso il sindaco
per celebrare in tutta fretta il matrimonio. Il giovane avrebbe così ottenuto
l'esonero dalla leva.
Ne parlai con Capitan Burdese che si tenne fuori: “Ivaldi, faccia
come meglio crede”. Capii al volo che non era contrario. Padre di una figlia,
sapeva cosa significa essere genitore.
Spiegai il piano ai due giovani. La ragazza mi guardò con
disincanto. Stavo mandando a rotoli il più bel sogno della sua vita: un
matrimonio in chiesa, l'abito bianco, i fiori sull'altare, l'Ave Maria, i
chicchi di riso lanciati in aria, il bouquet alle amiche, le foto da incollare
sull'album di famiglia....
A corto di tempo e di quattrini, intravedendo una via d'uscita, il
ragazzo annuì: “se basta un matrimonio in municipio...”. “Basta e avanza”,
risposi ostentando sicurezza per fugare ogni ripensamento.
Dettai la lettera ad un furiere e la consegnai al giovane papà che
mai sarebbe diventato alpino. Aveva altre responsabilità, le incombenze e i
trastulli della naia andavano lasciati ai coetanei con i grilli in testa.
“Che Dio vi assista”, sospirai accompagnando con lo sguardo i tre
sventurati fino al crocevia che portava alla stazione.
Dopo una decina di giorni ricevetti un fonogramma dai Carabinieri.
I documenti erano pronti, bisognava pazientare alcuni giorni per rispettare i
tempi tecnici e poi si sarebbe celebrato il matrimonio. A quel punto la pratica
di esonero sarebbe stata inoltrata al Ministero.
Non ne seppi più nulla. I mesi passarono in fretta, la vita di
caserma dirottò altrove la mia mente. Un pomeriggio l'attendente (allora
potevamo disporne) bussò alla porta per dirmi che ero atteso in portineria.
Scesi lo scalone due gradini alla volta, entrai nell'androne e vidi un ragazzo
e una ragazza che, all'istante, non riconobbi. “Tenente, si ricorda di noi? Siamo
quelli del bambino, del matrimonio ...”.
Li abbracciai. Indossavano abiti
dignitosi, capelli in ordine, sorriso allegro. Chiesi notizie del bimbo.
Cresceva bene, per l'occasione l'avevano affidato ai nonni. La famiglia si era
ricomposta. Il tempo, ancora una volta, aveva rimarginato le ferite.57.
IL CALVARIODI ENRICO CASALEGNO
(Alberto Orecchia)
Evelino Mattelig e Franco Zanin, impegnati nella laboriosa ricerca dei componenti del nostro Corso per organizzarne un ritrovo, avevano appreso da Alessandro Cerrato che uno di noi, Enrico Casalegno, era stato aggredito nel 1998 da una rara e invalidantissima malattia. Già il suo nome esplicava la pena che comportava ai suoi sottoposti: la sindrome di Locked-In, cioè di chi si sente "chiuso dentro se stesso". Enrico infatti non aveva alcun movimento motorio, praticamente era paralizzato, ma era consapevolmente vigile e riusciva solo ad esprimersi verbalmente con enorme fatica. Quella malattia degenerativa concedeva al malato un periodo di sopravvivenza molto limitato, superato solo in pochi casi al mondo. Enrico, se ricordo bene, era uno di quelle eccezioni. Nessuna cura era ancora riuscita a debellare quel rapace interiore che divorava inesorabilmente le sue malcapitate vittime. In quegli anni la ricerca medica di farmaci adeguati procedeva a passi lentissimi e infruttuosi. Forse le industrie farmaceutiche non ritenevano abbastanza remunerativo lo sviluppo di medicinali destinati ad un numero di pazienti così ristretto. Un giro di telefonate riunì un nostro gruppetto. Andammo quindi a San Raffaele Cimena a fare visita al nostro compagno per portargli un poco di conforto. La moglie di Enrico ci accolse con grande affabilità e ci introdusse al suo capezzale. Encomiabile la dedizione della donna nell'accudire amorevolmente il marito in quelle povere condizioni con tanta instancabile determinazione. Lui stava percorrendo lentamente un'altra tappa della sua incredibile Via Crucis, avendo riacquistato solo da poco tempo l'uso stentato della parola. Finalmente allora riusciva a comunicare a voce con il mondo che lo circondava, anche se in modo faticosissimo. Quante e quali dolorose peripezie aveva già dovuto affrontare! Lui ci accolse con un sorriso spiazzante, disteso in quel letto di dolore. Mattelig, Zanin,Tosolini, Bugatti, più abili a nascondere il loro intimo dispiacere al suo cospetto, cercarono di coinvolgerlo scherzosamente nei vecchi ricordi della Smalp. Il rivangare quelle situazioni del passato fu per lui fonte di momentanea felicità, avendole condivise quando era ancora immune da quella pena. La nostra visita ottenne gli effetti auspicati di solidarietà. Sempre supportato nell'esprimersi dalla moglie, Enrico ci congedò, con voce flebile ed un sorriso disarmante sulle labbra, dicendoci: "Oggi sono molto contento: mi ha fatto grande piacere rivivere con voi certi episodi di Aosta. La vita é fatta di emozioni e io oggi sono tanto felice perché ne ho vissuta una grande grazie a voi e vi ringrazio di cuore!". La sua esternazione ci commosse. In quegli attimi si era sentito alleggerito del peso della croce che stava portando! Non si può vedere soffrire una persona che ha il sorriso sulle labbra senza rimanerne colpiti nell'intimo. Tutti noi, con gli occhi lucidi che cercammo malamente di nascondere, lo salutammo con l'impegno di ritornare a fargli visita. Che persona era Enrico nel suo dolore! Dopo il suo commiato rinvangammo l'accaduto seduti a tavola nel vicino ristorante; eravamo segnatamente felici di aver momentaneamente alleviato la sofferenza inverosimile di quel nostro compagno rasserenando, anche se solo per pochi attimi, la sua giornata. Ancora oggi che Enrico non c'è più lo ricordo sempre nelle mie preghiere.
ALPINO A TUTTI I COSTI – GENNAIO 1972
(Piergiorgio Marguerettaz)
Per il servizio di prima nomina
fui assegnato al Secondo Reggimento Alpini, il ‘Doi’, avente funzioni di Centro
Addestramento Reclute.
Mi presentai con i miei colleghi
sten del 64° alla caserma Cesare Battisti, sede del comando, a Cuneo. Eravamo un bel gruppo: oltre al sottoscritto
ricordo Sandro Bazurro, Piero Borro, Valerio Brunetto, Gianni Buffa, Enrico
Casalegno, Sandro Cerrato, Luciano Ivaldi, Paolo Lupani, Paolo Masnata,
Maurizio Moro, Adriano Peracchia, Gianni Pasquino, Aldo Perron (se ho
dimenticato qualcuno spero si faccia vivo ..........)
Fui assegnato al Battaglione
Orobica, Compagni Edolo, Caserma Ignazio Vian in località San Rocco Castagnaretta,
periferia di Cuneo (allora un polmone verde circondato da una belle campagna).
Il Battaglione Orobica era così
chiamato in quanto il suo bacino di reclutamento erano le Alpi Orobie. Le
compagnie portavano i nomi dei battaglioni costituenti la Brigata Orobica, quindi:
Edolo, Morbegno, Tirano, Cam. Orobica.
Dopo circa due settimane di
attesa, finalmente, cominciarono ad arrivare le reclute ed il nostro primo impegno
fu quello di accoglierle in Caserma. La selezione iniziava con l'identificazione
quindi doccia, parrucchiere, visita medica, vestizione, attribuzione della
compagnia.
Dal mattino fino a notte
inoltrata (ben dopo l'arrivo dell'ultimo treno alla stazione di Cuneo dove
andavamo a prenderli), la caserma era un ribollire frenetico di giovani di
diverse provenienze, tutti spaesati, compresi quelli che facevano gli spavaldi.
Molti, prima di arrendersi
definitivamente, mettevano in atto un ultimo tentativo per evitare la “naja”
accampando le più diverse e fantasiose scuse: malattie improvvise, strane
documentazioni sanitarie attestanti imperfezioni fisiche tali da mettere in
dubbio l'idoneità a svolgere il servizio militare che chissà come la visita di
leva non aveva riscontrato, impegni di lavoro inderogabili, genitori soli, fratelli
da accudire ecc........
Fu pertanto una sorpresa quando
lo sten. Medico mi venne a chiamare per uno strano caso.
Stava infatti visitando un
ragazzo con cicatrici in varie parti del corpo e, cosa ancor più grave, una
gamba più corta dell'altra. Il ragazzo però si guardava bene dallo sfruttare
questa situazione come valido motivo per essere subito rimandato a casa. Se ne stava col capo chino senza proferire
parola, rispondendo a monosillabi alle domande del medico.
Ovviamente la cosa andava chiarita
al più presto.
Dopo molti tentativi, messi in
atto prima con le buone maniere e poi con qualche sollecitazione più brusca,
finalmente riuscimmo, a notte ormai fonda, a scoprire l'arcano. Il ragazzo,
proveniente da una sperduta frazione delle valli valtellinesi, subito dopo la
visita di leva, cui era risultato abile e quindi arruolato, era stato vittima
di un incidente d'auto che gli aveva causato quelle ferite. Dimesso
dall'ospedale, si era ben guardato dall'informare il distretto di competenza,
per cui al momento di ricevere la cartolina precetto si era presentato
regolarmente al C.A.R. A questo punto
scoppiò in un pianto dirotto chiedendoci di chiudere non uno ma due occhi e di
tenerlo in caserma, dove poteva, a differenza di casa , mangiare regolari pasti . “Vede sig. tenente,
alcuni miei compaesani, che sono stati qui prima di me, mi hanno raccontato che
in caserma si mangia carne anche due volte al giorno mentre a casa mia faccio
la fame”. Per alcuni lunghi minuti in infermeria ci fu un silenzio totale.
Prolungammo di proposito la
selezione del ragazzo per tenerlo qualche giorno in caserma in modo che potesse
usufruire della mensa.........
Naturalmente poi dovemmo
informare il comandante di compagnia che a sua volta ne parlò col maggiore
comandante ma non ci fu niente da fare: fu riformato per sopravvenute
imperfezioni fisiche. Il caso naturalmente divenne di pubblico dominio in
caserma.
In questo frangente ebbi modo di conoscere direttamente cosa
significa essere “Alpino”.
Venne organizzata un colletta spontanea , cui partecipò tutta
la caserma ,dai comandanti agli alpini . Fu raccolta una bella somma di denaro
che il Maggiore comandante del Battaglione consegnò al povero alpino mancato
sotto forma di “prestito a fondo perso”con l'abbraccio ideale di tutta la
Famiglia Alpina.
Fu con grande dispiacere che ,dopo altri dieci giorni di “soggiorno”a San Rocco ,lo
accompagnammo in stazione a prendere il treno che lo avrebbe riportato a casa.59.
FORELLEN AUS DEM PASSEIERTAL
(Felice Piasini)“…allora Tenente, cosa vogliamo fare? Redigere verbale ed esporre denuncia alle autorità, o…?”.
Così si rivolgevano il guardiapesca e il messo comunale al comandante del distaccamento di Saltusio in Val Passiria, Felice Piasini, un caldo pomeriggio di fine luglio. I due se ne stavano all’ingresso della casermetta con due sacchetti di plastica rigonfi e gocciolanti e, all’invito del tenente ad accomodarsi, proposero che, per non sporcare, era meglio andare sul retro e fare due chiacchiere.
Aperti i sacchetti, il comandante, scuotendo il capo, capì subito di che si trattava. I suoi naioni ne avevano combinata un’altra.
Le ispezioni alle opere di difesa si svolgevano al mattino o al pomeriggio.
Nel tragitto tra una postazione e l’altra, non si poteva resistere alla tentazione di fare un giretto nei boschi, in cerca di funghi, che poi venivano cucinati col risotto o impanati dall’ ex ciabattino bresciano, promosso cuoco sul campo!
Al pomeriggio si preferiva andare sulla sponda opposta, che dava a nord, più fresca, ma si doveva passare per forza dal torrente. E, nonostante le raccomandazioni, la pattuglia si toglieva scarponi e mimetica e si rinfrescava o si metteva a prendere il sole sui massi levigati dall’acqua.
Qualcuno, un po’ più attivo, cercava di acchiappare con mani e bastoni qualche trota, ma in genere senza successo.
Quel giorno, fortuna volle, trovarono in una pozza isolata, vicino al letto principale del torrente un gran numero di trote rimaste là intrappolate. Prenderle era diventato un gioco.
Così lo schiamazzo festoso dei baldi pescatori richiamò l’attenzione degli indigeni, che, gelosi delle loro cose e rispettosi della legge, avvisarono chi di dovere.
Il resto è noto.
Svanito ormai il sogno di gustare le famose “Forellen” del Passirio, al comandante non rimase che optare per la soluzione più vantaggiosa: “regalare”, seguendo il consiglio delle guardie, le trote alla Casa di Riposo di Rifiano, il paese vicino, e chiudere lì la faccenda.
60.
COMODO!
COMODO!
(Felice
Piasini)
La
divisa in disordine, l’atteggiamento non proprio militare dei soliti imbecilli,
sorpresi a fare autostop, non dovevano essere stati particolarmente graditi a
un Generale di Merano a spasso con la moglie su per la Val Passiria, in una
domenica d’agosto. Quindi, lavata di capo gerarchica a cascata: Generale, Ten.
Colonnello, Capitano responsabile dei distaccamenti e Tenente, comandante dello
stesso. Lunedì mattina squilla l’apparecchio di collegamento tra Vipiteno, sede
del Battaglione e la casermetta di Saltusio. E’ il Ten Colonnello che si
informa, tra il sornione e l’ironico, sulla vita del distaccamento. Domande ben
precise, relative ad altrettante consegne, il più delle volte “formali”, la
maggior parte delle quali non rispettate, come l’alzabandiera fra l’altro, ma
note a tutto il sistema. Insomma, forse era troppo e si doveva cercare di
mettere un po’ d’ordine e disciplina, in una “guarnigione” abbandonata a sé
stessa a pochi passi dal confine nemico. E, solito more, cioè all’italiana, il
comandante, Sten Felice Piasini, viene avvisato della visita “a sorpresa”,
fissata per il venerdì successivo. Settimana di fuoco per tutti. Si fa lavare e
stirare la bandiera da una signora che abita di fronte. Pulizie generali. Si
mette il grasso alle carrucole e si provano e riprovano. Si esercitano adunate
e schieramento della “forza”fino alla nausea. Venerdì mattina, cinque minuti
prima dell’ora fissata dal regolamento, spuntano su dalla salita che porta al
distaccamento due penne bianche. Sono il Ten Col. Vittone, comandante del
Valchiese, il Maggiore, seguiti da un capitano e dal maresciallo. Ci siamo!
Vittone dice al comandante del distaccamento di procedere, come da prassi, al
rituale dell’alzabandiera. Gli alpini escono dalla casermetta, si schierano e
il caporale corre davanti al Colonnello. Scatta sull’attenti, alza fiero il
braccio destro all’altezza della visiera del cappello e comincia, con palese
emozione: “Cacà..cacà…cacacà…” . Avrebbe dovuto presentarsi: “Caporale Casazza
M.” e poi presentare la forza del distaccamento. A sbloccare la situazione ci
pensa un calmo e bonario: “Comodo! comodo!” del Colonnello, un piemontese dalla
corporatura imponente, intransigente ma anche comprensibile, vista la buona
volontà del caporale, un biondino della Lomellina, ubbidiente e sempre
disponibile, buono come il pane.
61.
UN
ALZABANDIERA TRAVAGLIATO
(Alberto
Orecchia)
Ero
da poco approdato a Feltre, Ufficiale di prima nomina, assegnato alla 64ma
Compagnia dell'omonimo Battaglione. Una sera, girovagando alla scoperta dei
locali nei dintorni, in un bar di Pedavena impattai con piacevole stupore in un
mio concittadino, il sergente Caddeo Sergio, di Genova Sampierdarena, in
servizio di ronda esterna. Inevitabile l'accenno a quelle lontane amate sponde
che tanto ci accomunavano. Ero al Battaglione solo da pochi giorni e già
tornava a fare breccia nel mio cuore la nostalgia dei luoghi e degli affetti
lasciati a malincuore per quel posto così lontano! Ma era impossibile usufruire
già di una licenza. Sprovvisto di un veicolo in loco, per una fugace scorreria
avrei dovuto affidarmi esclusivamente a trenini e treni. Quella distanza
chilometrica da coprire in un tempo estremamente limitato era un pesante
deterrente per quel mio intento. Severe sanzioni erano inoltre previste per chi
si recava oltre i confini del Presidio senza autorizzazione. La riuscita
indenne di quell'estenuante viaggio era dunque pura utopia! Non avevo scampo!
Sergio però mi confidò di essere un esperto collaudato di quei colpi di mano e
mi prospettò una sua nuova escursione fuori porta. Aveva un Maggiolone
Volkswagen verdone, ottimo cavallo di troia per sfondare quel perimetro
forzato. Quelle quattro ruote erano dunque la panacea del mio impellente nuovo
tormento! Senza esitazione accettai i rischi di quell'imprevista chance
offertami. Dopo sole due settimane, al primo sabato pomeriggio esenti entrambi
dai servizi di compagnia, iniziò la toccata e fuga verso la nostra amata
Genova. E allora vai! Feltre, Cittadella, Padova, con lui che al volante
fischiettava all'ossessione il motivetto della quinta sinfonia di Beethoven,
sua cabala collaudata per la riuscita indenne dei raid. Arrivati velocemente a
Padova, via sul primo treno per Milano e da lì su quello per Genova. Quando il
convoglio oltrepassò i Giovi sentii già aria di casa. Finalmente sotto la
Lanterna! Ad attenderci sui binari ritrovammo le nostre morose in trepidazione
per quelle risicate ore da trascorrere insieme. Proprio vero quel vecchio
proverbio che recita "Tira più un pelo di donna che una coppia di
buoi"! Rientrammo a Feltre al mattino del lunedì, giusto in tempo per presenziare
all'Alzabandiera. Con Sergio quale sottufficiale d'ispezione svolsi anche dei
servizi di picchetto. Di uno ho un ricordo particolare per le vicissitudini
affrontate. Era una gelida mattina di fine inverno e mi apprestavo a quel
compito già svolto in altre occasioni deciso a portarlo a termine senza guai
osservando a menadito le consegne sino al cambio del giorno successivo. Tante
erano le incombenze che comportava. La Zannettelli era una caserma che ospitava
entrambi gli schieramenti col cappello alpino, il Battaglione Feltre ed il
Gruppo Agordo. Da tempo un capitano degli artiglieri nostri dirimpettai in
caserma, un personaggio particolarmente pedante con tutti i subalterni, mal
sopportato per i suoi metodi dagli stessi suoi uomini, era solito eseguire il
compito di capitano d'ispezione con un'acredine smisurata verso tutta la
guardia comandata, ancor più se composta da alpini. Già più volte si era
scontrato caratterialmente anche con il mio comandante di compagnia, suo pari
grado, ricevendone in cambio colorite rimostranze verbali. E quella sera era di
servizio! Con Sergio, che mi affiancava, mi premurai quindi di istruire il
caporale maggiore capoposto e la muta della guardia sulle consegne da osservare
durante la notte. La guardia montante alla caserma era stata assegnata agli
alpini della mia stessa compagnia. Quei ragazzi facevano parte di uno scaglione
da poco arrivato dal BAR piemontese della Cadore ed in quel periodo di nuovo
ambientamento erano stati sottoposti ad un duro addestramento atto a farli
entrare nel vivo del loro servizio di leva. Alla sera tutti gli alpini e gli
artiglieri rientrarono alla spicciolata dopo la loro libera uscita. All'ora
prestabilita feci chiudere il portone principale e richiamai il capo muta della
guardia rimarcandogli le consegne. Il piantone di guardia, osservando dallo
spioncino chiunque si fosse presentato, aveva compito tassativo di informarne
Sergio che mi avrebbe rintracciato ovunque fossi stato. Celermente avrei
provveduto ad identificare personalmente il visitatore per concedergli
l'eventuale ingresso in caserma. Tutti temevamo quel capitano d'ispezione che
era uso fare improvvisi blitz notturni per coglierci in fallo. Era ovvio che se
si fosse presentato il comandante di Battaglione o un qualsiasi altro ufficiale
superiore avrei dovuto farli entrare senza esitazione. Ma altri, senza più che
valida giustificazione, sarebbero rimasti inesorabilmente fuori. Compii i miei
giri di controllo interno alla caserma, alle armerie, alle camerate, un giro
anche alle salmerie: tutto a posto. Rientrai al corpo di guardia, ormai era
tarda notte. Accusai una leggera stanchezza e decisi di buttarmi sulla branda
nell'attigua saletta a me riservata. Avrei dovuto riposare con un occhio solo
chiuso, sdraiato completamente vestito, con gli scarponi che mi stringevano i
piedi, il cappotto, il cinturone e la pistola! Accennai a chiudere gli occhi ma
ero impedito da quel pesante fardello. Memore di altri servizi di picchetto
passati insonni, decisi di trasgredire alle consegne per concedermi una
defatigante dormita. Mi liberai allora della fascia azzurra, del cappotto, del
cinturone e degli scarponi per abbandonarmi agiatamente anche solo per pochi
minuti nelle braccia di Morfeo. Finalmente mi colse un profondo sonno ristoratore.
Sapevo di essere punibile se scoperto, ma pensai di essere esente da sorprese,
tutelato dalle disposizioni impartite alla guardia e confidando della
complicità di Sergio. Invece... Quella stessa sera gli ufficiali della mia
compagnia avevano invitato a cena il nostro capitano. Beati loro, pensai,
saranno a fare bisboccia ed io sono qui di servizio! Ma forse per gli effetti
della loro abbondante libagione o per semplice goliardia quel gruppo decise di
giocarmi un tiro mancino, rompendomi le scatole in piena notte. L'alpino di
guardia al portone sentì bussare e aprì lo spioncino. Ma non era il capitano
d'ispezione! Riconobbe invece quei visi che aveva innanzi: erano gli ufficiali
della sua compagnia e soprattutto era con loro anche il suo e nostro capitano!
Impietrito da quella presenza dimenticò la perentoria consegna e passivamente
aprì la porticina a quel gruppo un pò alticcio che invase il corpo di guardia.
Sprofondato nel mio sonno ristoratore non avvertii quanto mi sta succedendo
intorno. Uno Sten. attuò un malizioso scherzo a mie spese che avrebbe potuto rivelarsi oltremodo pesante: con un
colpo di mano fece veloce irruzione nella mia stanza e trovatomi addormentato
si appropriò furtivamente della mia fascia azzurra e della mia pistola. Con
quei trofei se ne uscì dalla caserma ostentando le sue prede e osannando
rumorosamente la sua vittoria. Mi destai per quello schiamazzo e con immenso
dissapore mi accorsi del furto patito. Mi rivestii velocemente. Quel gruppetto
di colleghi era fuori dal portone e l'autore di quella marachella, ebbro oltre
ogni limite, indossata la fascia sui suoi abiti borghesi stava scorrazzando sù
e giù nel viale antistante la caserma inforcando il suo ciclomotore Ciao. Era
un nostro "padre" del 63° che di lì a poco si sarebbe congedato.
Abitava nelle immediate vicinanze, fortunato o divinamente super raccomandato
per quella insolita assegnazione logistica. Uscii e cercai invano di
rincorrerlo supplicandolo di restituirmi il maltolto. Presagi di nefaste
sventure fecero prepotentemente breccia nella mia mente al pensiero delle
successive conseguenze penali se non fossi riuscito a recuperare quegli
indispensabili accessori. Niente da fare: quello sparì nella notte ed io,
imprecando, rimasi solo con le mie inquietudini. Era già quasi mattina; poco
dopo avrei dovuto presenziare all'Adunata con la successiva Alzabandiera ed ero
ancora in ambasce per quelle privazioni! Fortunatamente un altro Sten. Era già
arrivato di buona lena in caserma e grazie a lui, mia ancora di salvezza, posi
fine momentanea a quell'impaccio. Mi procurò la sua fascia e si recò nel mio
alloggio, una villetta nelle vicinanze della caserma, dove recuperò una
pistola-giocattolo, una Jaguarmatic, che avevo precedentemente acquistato
perché riproduzione molto similare della pesante Beretta di ordinanza. Con
quella nella fondina e con quell'azzurro rimediato ero pronto per iniziare la
mattinata, pur con il martellante pensiero del recupero dell'arma sottrattami,
da riconsegnare in armeria. Per mia fortuna la notte aveva portato consiglio a
quel ladruncolo rinsavito che forse impietosito dalle mie paure decise di
riconsegnarmi il tutto solo all'ultimo momento, prima dell'Adunata. Decadeva
così il mio palesato timore di dover finire come novello Silvio Pellico a
guardare i muri del carcere militare di Peschiera. Ripresi il mio servizio
rinfrancato: Adunata, Alzabandiera e successiva presentazione della forza
presente in caserma all'arrivo del comandante di Battaglione. Tutto filò
liscio, anzi, quasi tutto. Finalmente smontato dal turno, ritornai dopo qualche
ora alla mia compagnia. Il mio "team" di colleghi ufficiali mi
aspettava al varco in fureria pronto con gesso e lavagna a rimpinguare
abbondantemente il nostro 'bottigliometro'. Cosparso il capo di cenere per l'accaduto,
accettai poi l'inevitabile cazziatone del mio capitano. Sarebbe stato Inutile
rimarcargli la sua partecipazione altamente condizionante a quella combriccola
di buontemponi. Quella notte agitata vissuta balordamente nell'ansia foriera di
una punizione biblica mi servì da lezione e successivamente svolsi sempre con
la dovuta diligenza i compiti propri del mio ruolo. Certamente non è edificante
raccontare tale malefatta. Ma credo che simili 'cappelle', forse peggiori, le
abbiano combinate tanti di noi. Non credo che il nostro servizio militare sia
stato tutto costellato da episodi da libro Cuore e allora chi è senza peccato
scagli la prima pietra! Ho riportato quanto accadutomi per sottolineare come
talvolta tante persone che reputiamo 'amici' si rivelino in realtà i peggiori
infingardi della nostra vita.
62.
ARRIVEDERCI AMICI
(Giuliano Levrero)
Comandavo un plotone di
assaltatori alla 42^ Compagnia del Battaglione Aosta alla Caserma Testafochi di
Aosta; Mario Lorenzi, mio compagno di camera (alloggiavamo in una camera della
Compagnia allestita appositamente dal nostro comandante per gli Ufficiali),
comandava l'altro plotone.
La Compagnia era comandata dal
Capitano Francesco Albarosa, mentre addetto alla contabilità era il Maresciallo
Capo Giancarlo Zampa.
Gli ultimi mesi di servizio
divenni comandante di Compagnia in quanto il Capitano, Lorenzi, Tesio ed altri
furono aggregati al “Susa” nel Battaglione Logistico in partenza per la
Norvegia sede delle manovre della NATO; con il sottoscritto erano rimasti
Traversone del 65° e Vissà del 66°.
Di seguito la Compagnia fu
destinata a trasformarsi in “Compagnia Sperimentale Addestramento Reclute”, per
cui il nuovo Comandante di Battaglione Ten. Col. Piero Monsutti, succeduto a
Cesare Di Dato, mi diede la consegna, tra l'altro, di: riordinare e rinnovare
tutti gli ambienti della Compagnia per ospitare i 'borghesi' che sarebbero
giunti in 'collegio'; di selezionare un numero preciso di alpini al fine di tenere
loro il corso per la nomina a caporale; di aggregare il resto della Compagnia
(cosa molto ingrata perché, tra l'altro, i miei alpini erano 'i vecchi') alle
altre quattro Compagnie al fine di 'liberare' le camerate e poter eseguire i
lavori.
Si può immaginare con quale
spirito quel giorno dovetti adunare gli alpini sul piazzale per dar loro la
'bella' notizia e quali fossero state le reazioni, seppur composte, ed i
commenti.
In quel periodo giunsero al
Battaglione gli ACS divenuti Sergenti.
Alla 42^, tra gli altri, giunsero
i Sergenti Michele Candiani e Fabrizio Legrenzi, due bravi ed intelligenti
ragazzi con cui strinsi buona amicizia.
Finiti i lavori in tempo utile
iniziarono ad arrivare i 'borghesi' e, tra alterne vicende legate alla
disciplina della nuova vita comunitaria, giunse il momento di passare le
consegne 'per terminato servizio di prima nomina' a Guido Traversone in quanto
il Capitano Albarosa era ancora trattenuto in Norvegia.
Era la fine di settembre 1972.
Allora abitavo con i miei
genitori a Torino ed ero rimasto amico di un collega del 62° Corso che abitava
non molto distante da me: Franco Garabello che aveva comandato il Plotone
Comando e Servizi della 42^.
Ogni tanto trascorrevamo qualche
ora passeggiando per Torino ricordando anche qualche aneddoto o particolare di
quel bel periodo passato l'anno precedente.
Un giorno di maggio 1973 pensammo
di tornare ad Aosta per rivivere l'atmosfera della nostra vecchia caserma e
salutare il nostro Capitano, gli Ufficiali rimasti e qualche altro amico.
Franco prese l'iniziativa e
telefonò in caserma per concordare il giorno adatto per il pranzo al Circolo;
Albarosa che era 'Capo Calotta' ne fu molto contento e tutto fu organizzato.
Dopo alcuni giorni una mattina,
era il 16 di maggio 1973, uscito di casa incontrai mio padre che, scuro in
volto, mi disse <leggi cos'è successo> porgendomi il giornale “La
Gazzetta del Popolo”; lo apersi: “Elicottero cade ad Aosta: bruciati vivi sette
militari – La sciagura causata dall'improvviso arresto del turbomotore”; sotto
il titolo, le foto di due Ufficiali ed un Sottufficiale, poi un lungo articolo
che subito non lessi, ma continuai a sfogliare sulla pagina della Valle: “La
Valle in lutto per i suoi soldati – I sette militari morti carbonizzati
nell'elicottero precipitato a Pollein”.
Mi sentii girare la testa.
Sotto il titolo, le fotografie:
il Capitano pilota Elia, il Tenente copilota Arata, il Sergente Candiani, il
Sergente Maggiore Galliano meccanico, il Sergente Legrenzi, Il Maresciallo Capo
Zampa, Il Capitano Albarosa. Ancora sotto, la foto di ciò che rimaneva
dell'elicottero: un troncone di coda...... Ero impietrito.
Sconvolto cercai subito Franco
che era già al corrente e contattammo quei pochi di cui avevamo il recapito;
telefonammo poi in caserma per avere ulteriori notizie più precise riguardo le
esequie.
I feretri avvolti nel tricolore
furono allineate nella cappella del Castello Gen. Cantore sede del Comando e
vegliati da due militari del Battaglione e da due allievi della Scuola.
Il diciassette, giovedì, la
mattina alle ore dieci erano previste le esequie.
Arrivammo puntuali e presenziammo
al corteo funebre ed alla messa in Cattedrale: fu straziante.
Abbracciammo poi la vedova del
Maresciallo Zampa e la giovane moglie del nostro Capitano che ci accolse con
ammirevole, tragica compostezza e mitezza.
Già conoscevo la Signora
Francesca: una persona minuta, molto sensibile e mite, ma forte e con grande
spirito. Conoscevo anche i tre piccolini: Umberto, Stefano e Gabriele.
Il Capitano Albarosa aveva
trentadue anni, cinque più di me.
Lo avevo conosciuto come persona
tranquilla, molto obbiettiva, pratica e di grande buon senso; non lo vidi mai
infuriarsi; le eventuali disattenzioni, mancanze o altro erano sempre gestite
intelligentemente con fermezza, senza alterigia o presunzione, facendo capire
ai subalterni dove si era sbagliato; non ricordo punizioni.
Il Maresciallo Capo Zampa, di
quarant'anni, aveva anch'egli tre bambini; era un ottimo Sottufficiale molto
competente nell'amministrazione della Compagnia, attento e attivo; era anche
istruttore di sci e campione militare di tennis.
Il Sergente Legrenzi, di ventisei
anni, era perito tessile ed avrebbe terminato il servizio a giugno.
Il Sergente Candiani aveva
ventitré anni, studiava medicina a Pavia e sarebbe tornato a casa a luglio.
Di loro due divenni amico anche
per le loro qualità anche umane e mi dettero un notevole aiuto nella conduzione
delle operazioni di addestramento delle reclute.
Usciti dalla Chiesa salutammo
tutti gli Ufficiali e Sottufficiali di nostra vecchia conoscenza e ci fermammo
a parlare con il Maresciallo Usai, Comandante del Minuto Mantenimento di
Battaglione, che fu tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro: ci chiarì
ancora scioccato le condizioni in cui trovò i corpi ancora imbrigliati con le
cinture di sicurezza … e qui mi fermo.
Successivamente ci recammo, con
il Maresciallo che ci volle accompagnare, a Pollein e constatammo. La zona era
transennata e piantonata. Era rimasto un breve troncone di coda; tutto il resto
era bruciato o carbonizzato dall'enorme quantità di cherosene.
Il Maresciallo Usai ci riferì ciò
che gli fu chiarito da chi vide personalmente l'evolversi della tragedia e
dagli addetti dell'aeroporto di Aosta che seguivano per radio l'elicottero.
I sette tornavano da una
ricognizione nel Vallone di Orgere ove dopo poche settimane si sarebbero svolte
esercitazioni.
L'elicottero, normalmente e senza
alcun problema, seguiva il suo tracciato di avvicinamento all'eliporto
costeggiando il monte; poco prima di virare per raggiungere l'eliporto oramai
vicino il turboreattore improvvisamente si bloccò quindi il pilota tentò
l'autorotazione per attutire la caduta, ma le pale si stavano lentamente
fermando mentre il velivolo scendeva inesorabilmente di quota: erano oramai
molto bassi. Si trovarono di fronte cavi dell'alta tensione e poco dopo due
case, quindi il pilota fu costretto ad inclinare l'elicottero per oltrepassare
i due ostacoli; riuscì nella manovra, ma il mezzo si impennò precipitando,
impattò con la coda sul campo in declivio coltivato, si rovesciò ed esplose
istantaneamente bruciando tutto il cherosene. Per l'equipaggio non c'era più
scampo: i soccorritori trovarono i resti carbonizzati ancora imbrigliati alle
cinghie di sicurezza.
La moglie del Maresciallo Zampa
mi inviò un ricordo con la foto del marito ed il ringraziamento.
La moglie del mio Comandante
Albarosa mi inviò un pieghevole con la foto che riprendeva la bella famiglia
felice in campagna: all'interno aveva inserito un foglio piegato in quattro con
una preghiera scritta dal marito: “La preghiera di un soldato per i figli” che
qui ho piacere di ricordare:
Cari ricordi che tengo tra le
cose importanti di quell'intenso periodo e che rimangono indelebili.
64.
63.
DUE
UFFICIALI E UNA FIAT 124 SPORT SPIDER
(Sandro
Bazurro)
Era
il giugno del 1972 e le Compagnie del Secondo Reggimento Alpini di Cuneo si
preparavano al giuramento delle reclute del secondo contingente, previsto per i
primi di luglio.
Come
ogni anno, il 2 giugno si celebrava a Roma la festa della Repubblica Italiana
con la solenne parata militare lungo la via dei Fori Imperiali.
Per
l'occasione il Secondo Alpini inviò un reparto con la bandiera di guerra
portata con grande fierezza dal sottotenente Aldo Perron, alfiere del
Reggimento; l'ufficiale, molto rappresentativo e motivato era stato subito
scelto tra i giovani subalterni del Comando.
Tutta
questa premessa riguarda ovviamente i compiti istituzionali del reparto, ma la
cosa che più interessa in questa memoria, è che il tenente Perron possedeva una
Fiat 124 Sport Spider, magnifica, bianca, carburatore doppio corpo, vettura
sportiva 2+2 posti, 2000 cc. rombanti, invidia di tutta la caserma, tenuta come
un bambino.
Orbene,
dovendo quindi assentarsi, per i motivi sopraesposti, l'alfiere Perron fu
costretto ad affidare, anche se per un breve periodo la sua creatura; la scelta
cadde sul suo fido commilitone sottotenente Sandro Bazurro, con il compito di
sorvegliarla, curarne la manutenzione ed usarla, raccomandando ovviamente, con
le dovute cautele.
Sandro
conscio della grande responsabilità e della fiducia attribuita, pensò di
parcheggiarla diligentemente a fianco della propria 600, posizionandole
entrambe a portata di vista e controllandole periodicamente.
Inizialmente
l'intenzione era quella di avviare il motore saltuariamente, in modo che non si
scaricasse la batteria, e così fece per un po’; poi un giorno mentre effettuava
l'operazione di ricarica, si accorse che il rombo del potente motore aveva
attirato l'attenzione di alcune leggiadre passanti, cosa mai avvenuta per la
medesima operazione, effettuata con la propria Fiat 600.
Pensò
allora di fare un giro attorno alla caserma, a passo d'uomo, fino al
distributore di benzina più vicino, imprecando per il fatto che il commilitone
avesse lasciato poco carburante nel serbatoio, forse presagendo le intenzioni
dell'amico.
Passando
nei pressi del portone centrale incontrò l'amico e collega sottotenente
Maurizio Moro, il quale sovente, quando libero da impegni di servizio e di
...cuore, accompagnava Sandro nelle scorribande serali alla fabbrica di abiti
Vestebene, ubicata lungo la provinciale via Genova, all'ingresso di Cuneo.
Sembrerebbe
superfluo precisare che alla Vestebene erano impiegate decine di ragazze, che
come un fiume defluivano dai cancelli della fabbrica alla fine del turno, nel
tardo pomeriggio, per avviarsi a piedi verso il centro città o aspettando la
corriera che le avrebbe condotte in uno di quell'infinità di paesini, sparsi
nella Provincia Granda.
Quello
era il territorio di caccia di tanti Alpini della Cesare Battisti.
Come
rinunciare all'occasione così ghiotta di mettersi in evidenza con una simile
vettura, tenuto conto che i due ufficiali erano soliti presentarsi o con la 600
di Sandro o la 500 di Maurizio.
Fatto
sta che, rabboccato il serbatoio con ben 5.000 lire, partirono con il vento in
fronte ed il sole che rifletteva gli ultimi raggi nello specchietto
retrovisore. Arrivarono giusto in tempo per avvicinare le ultime uscite dai
cancelli, che il caso volle si infilassero subito sulla corriera nel frattempo
sopraggiunta.
Restarono
mollemente appoggiati all'auto ancora per un po' di tempo, tanto per gustare
gli sguardi di ammirazione di qualcuno e di invidia di qualcun altro, poi
decisero di proseguire lungo la provinciale, nella speranza di avere miglior
fortuna.
Giunti
all'altezza dell'incrocio per Roata Canale e Roata Civalleri pensarono di
deviare, sperando di trovare la scorciatoia per Boves anche perché si era fatta
l'ora di mettere qualcosa nello stomaco.
La
strada era un po' sconnessa e Sandro l'affrontò con grande cautela, conscio di
doversi arruolare nella legione Straniera, qualora qualcosa fosse capitato
all'ammiraglia che stava guidando.
Ad
un tratto sulla banchina di destra si materializzarono due snelle figure, che
speditamente si dirigevano verso l'abitato.
Dapprima
le superarono decisamente, avendo comunque il tempo di apprezzarne i fini
lineamenti, quindi con uno sguardo d'intesa, senza proferir verbo, ai due amici
sembrò doveroso offrire loro un passaggio, considerato che il sole era da tempo
scomparso all'orizzonte e l'imbrunire stava sopravanzando speditamente.
Le
ragazze accettarono senza tentennamenti, anche perché avevano perduto l'ultima
corsa della corriera ed ai due ufficiali restò sempre il dubbio se tale
repentina decisione fosse merito delle stellette dorate che stavano bene in
evidenza sulle spalline, o del potente mezzo di trasporto sul quale stavano
mollemente seduti.
Le
due splendide ragazze erano di Roata Canale e lavoravano presso uno studio
professionale di Cuneo.
Se
non fosse stato che i due avevano entrambi il cuore impegnato in storie
affettive molto profonde, si sarebbe potuta configurare la netta volontà di
approfittare della circostanza, per approfondire la conoscenza delle due
giovani.
L'arrivo
in paese ebbe un successo enorme ed un'eco altrettanto sonora, considerato che
le due ragazze nulla facevano per minimizzare il fatto a parenti ed amici.
Comunque
i due ufficiali oltre i ringraziamenti rimediarono anche un abbondante spuntino
con pane salame e formaggio, che divorarono letteralmente sotto un pergolato
meraviglioso, non senza perdere d'occhio due ragazzini assai intraprendenti,
che impossessatisi dei loro copricapi si pavoneggiavano, marciando nella corte
polverosa.
Ma
come si sa, da cosa nasce cosa, ed i due trovandosi a loro agio in
quell'ambiente sereno, lo elessero a meta fissa per le loro passeggiate serali.
Una
sera di quelle, giungendo nei pressi del grande casale, notarono parcheggiata
nella corte una Alfa Romeo Giulia dei Carabinieri.
Si
avvicinarono e chiesero al militare che stava a bordo che cosa fosse successo.
In
quel mentre, un altro carabiniere stava scendendo la scala esterna che
conduceva ai piani superiori, accompagnato da una delle due ragazze, che ivi
abitavano, visibilmente in grande imbarazzo.
I
due ufficiali che per l'occasione non indossavano la divisa, rivolsero la
stessa domanda al nuovo arrivato; egli per tutta risposta chiese con fare
brusco i documenti ai due allibiti tenentini che immaginando quanto stava
succedendo, palesarono il loro grado, esibendo contemporaneamente i rispettivi
tesserini di riconoscimento.
Il
capo pattuglia annotò i loro dati su di un taccuino e con fare altezzoso, a
voce alta e ferma, badando bene di essere udito dalla piccola folla che nel
frattempo si era radunata, sentenziò che per il momento la cosa sarebbe finita
lì, demandando a successivi non ben precisati provvedimenti.
Fu
allora che Sandro chiese al medesimo di declinare le proprie generalità e quale
giustificazione potesse avere un tale comportamento. Venne risposto
evidentemente solo alla prima domanda: “capo pattuglia carabiniere scelto
“XXXXXXX” in servizio di pattuglia sul territorio”.
Fu
così che a Maurizio sfuggì un “va là che vi scelgono bene”, la frase biascicata
non passò inosservata dallo “scelto” che, rosso in viso, intimò loro un “potete
andare” che non ammetteva repliche.
La
situazione era chiara: lo “scelto” era in realtà un uomo geloso che si trovava
in quel sito per “pattugliare” la morosa ed era sua intenzione scoraggiare gli
eventuali presunti rivali.
Sandro
e Maurizio facendo ricorso a tutto il loro buon senso, salutarono i presenti,
tutti visibilmente in imbarazzo per l'increscioso fatto, considerato il buon
rapporto che si era instaurato tra di loro e con grande apparente tranquillità,
abbandonarono rombando il luogo della disfida.
Il
giorno successivo il caso venne portato a conoscenza dei superiori e se ne
interessò direttamente il Comandante di Battaglione. Un tale ingiustificato
comportamento nei confronti dei due ufficiali, venne ritenuto all'unanimità,
assolutamente inaudito.
Nel
frattempo anche lo “scelto” subodorando le possibili complicanze della vicenda,
aveva relazionato al suo superiore e da lì fino ad arrivare al comandante della
Tenenza. Costui, assiduo frequentatore del circolo ufficiali della Cesare
Battisti, persona di grande buon senso, portò le sue scuse personali e quelle
dello “zelante” e focoso militare ai due ufficiali ed a tutta la calotta. Lo
accompagnava una grande figura di carabiniere, il maggiore Tuttobene, in visita
al Reparto ed ospite del Comando del Secondo Alpini.
Per
la cronaca il colonnello Tuttobene medaglia d'oro al valor civile alla memoria,
verrà assassinato insieme con il suo autista a Genova, il 25 gennaio 1980, in
un attentato rivendicato dalla colonna Berardi delle brigate rosse.
La
cosa finì lì senza infamia né lode, né vinti né vincitori, le motivazioni e le
scuse si sprecarono da entrambe le parti in causa, e come nelle migliori
tradizioni alpine con un paio di buone bevute, offerte ovviamente dalla
Benemerita.
Nel
frattempo il tenente Perron era rientrato dalla missione a Roma e riprese
possesso della potente vettura, ignara causa di tutto questo; i due giovani
ufficiali, Sandro e Maurizio, ritornarono alle vecchie abitudini, ad onor del
vero con molto minore successo … e le due ragazze ... beh! vennero più volte
notate a passare e sbirciare dentro la caserma attraverso il portone centrale,
ma furono ignorate con grande eleganza.
Ed
i nostri due baldi tutori della legge, probabilmente, istruiti a dovere dai
loro superiori, spinsero altrove il loro turno di pattuglia del territorio,
lasciando la tutela della morosa ai momenti liberi dal servizio.
Per
fortuna all'oscuro di tutta la vicenda, restarono le rispettive fidanzate di
Sandro e Maurizio, che un mese più tardi vennero invitate dal Comandante di
Reggimento ad assistere alla cerimonia di Giuramento, applaudendo con calore la
sfilata dei due tenentini, in testa ai loro reparti.
C'è
da chiedersi se analogo comportamento avrebbero tenuto qualora informate
dell'increscioso fatto capitato ai loro belli ufficiali, ma mai lo seppero né
mai lo sapranno, se non leggendo queste memorie, ma ormai è passato così tanto
tempo....
64.
LA VITA A FORNI AVOLTRI
(Mirco Bozzo)
Dopo la licenza di fine
corso, a Gennaio 1972, Bruno Brachet, Valerio Poggi ed il sottoscritto,
raggiungemmo la nostra destinazione presso l'8° rgt Alpini ed accorpati all'11^
compagnia, btg. Mondovì a Forni Avoltri, Friuli.
Passati pochi giorni,
incominciò il campo invernale (10 gg fisso + 20 mobile)
Per il campo fisso fu
scelta un'altura sopra il paese. Effettuammo le consuete esercitazioni,
alloggiando in una malga (Casera Tuglia), messa a nostra disposizione dagli
allevatori che la utilizzavano per il ricovero del bestiame, condotto al
pascolo, nel periodo estivo.
Avremmo dovuto ricevere
i rifornimenti trasportati dai muli della compagnia, ma il sentiero era
sommerso da una consistente nevicata. Fu subito trovata una opportuna alternativa:
le marmitte con il vitto e tutto il necessario giornaliero, furono
caricati sulle spalle dei robusti conducenti muli ed ogni giorno ricevemmo il
vitto caldo, grazie a questi volenterosi alpini, trasformati in (nel senso
migliore del termine) animali da soma.
Un breve, ma
significativo inciso, ci ricorda la dura vita degli abitanti della zona.
Campo estivo a Forni di
Sopra (20 gg fisso + 30 mobile).
Durante uno dei vari
trasferimenti in montagna, facemmo sosta presso una stalla-caseificio in alta
quota dove acquistammo dell'ottimo formaggio e ricotta affumicata prodotti in
loco.
Ci disponemmo a
consumare la ricotta sbucciandola accuratamente (era scura dal fumo). Ci
raggiunsero alcuni bambini, parenti degli allevatori, che condividevano il
lavoro e l'alloggiamento rurale con i congiunti. I ragazzini raccolsero con sapienza
i nostri avanzi e si affrettarono a divorarli. Capimmo che quel formaggio non
andava sprecato. Donammo loro, con commozione, il cioccolato a nostra
disposizione.
65.
65.
LAVAGGIO STRADA
(Giuliano Levrero)
Fine febbraio 1972.
Quell'inverno di Aosta era già
ben conosciuto da tutti noi per le abbondanti nevicate ed il gelo sopportati
durante i precedenti servizi di guardia di novembre e dicembre alla Scuola, e
per le ultime nevicate di gennaio e febbraio.
Io e Lorenzi eravamo ancora
convalescenti da una potente bronchite che ci aveva costretti al ricovero, con
contorno di iniezioni di antibiotici, per diversi giorni in infermeria della
Testafochi di Aosta.
Ironia della sorte: eravamo nella
stessa Compagnia, la 42^; comandavamo due plotoni di assaltatori vicini in
occasione dello schieramento della Compagnia e di marce; dormivamo vicini di
letto nella stessa camera allestita in Compagnia per gli Ufficiali; ora anche
in infermeria eravamo nella stessa camera e vicini di letto ….. sotto sotto ci
sarà mai stato qualcosa?... mah.
Terminata comunque la malattia
una mattina il Capitano Albarosa mi convocò nel suo ufficio per disposizioni
giuntegli dal Comando di Battaglione; ero impensierito e nel contempo curioso:
cosa ci sarà di così importante ed urgente?
Mi fece accomodare alla scrivania
del suo studio e mi avvisò che ero stato comandato per scegliere e scortare
alpini che fossero già istruttori di sci, o comunque allievi maestri, a Cogne perché
là avevano bisogno di gente che si occupasse delle piste di Fondo.
Onestamente gli chiarii (ma non
ce ne era bisogno avendolo già lui constatato di persona) che sugli sci da
fondo me la cavavo appena sufficientemente, quindi non ero il soggetto 'ad
hoc'.
Mi rispose che così era stato
stabilito e che comunque avrei avuto il solo compito di accompagnarli e
riportarli sani e salvi la sera in Caserma, nel mentre avrei dovuto tenere i
contatti con le Autorità locali; tutto questo per una decina di giorni.
Al solo il pensiero di starmene
fuori 'collegio' per dieci giorni che prevedevo di pacchia, e in più a Cogne,
dentro di me saltai di gioia; finalmente si poteva 'respirare' un po'.
Al
Battaglione “Aosta” 'soggiornavano' molti valdostani; ne conoscevo alcuni già
istruttori di fondo per cui ne scelsi una dozzina tra i migliori.
A Cogne si sarebbero svolti dal 7
all'11 marzo i “Campionati italiani assoluti femminili di fondo”
e di seguito il “Campionato italiano giovani maschile e femminile di
fondo” il cui logo ho piacere di allegare (oramai vecchio ricordo).
La 'levataccia' era comunque
sempre alla stessa anche per noi, che credevamo in quel momento 'particolare e
magico' di essere del tutto dispensati dalle formalità e completamente autonomi
essendo noi 'gli eletti' che avrebbero dovuto occuparsi di 'cose ben diverse'
dalla vita terrena e quotidiana di caserma!
Difatti: sveglia tragica,
battaglione schierato sul piazzale, alzabandiera, plotoni e squadre incolonnati
e destinati ai propri servizi, ecc.
Un ACL era già fermo vicino alla
porta carraia e tutti i giorni, subito dopo l'alzabandiera, ci portava a
destinazione e la sera ci riportava 'a casa'.
Fu comunque una vera pacchia
indimenticabile per tutti noi benché facesse un freddo allucinante.
Il primo giorno, giunti presto a
Cogne sulla Piazza principale di fronte al Comune, una piccola folla ci stava
già aspettando. Erano le autorità del paese: Sindaco, Assessore, Vigile,
Autorità della Valle, Pro Loco, Ente Parco, Istruttori di Fondo, Responsabili
delle piste ed altri.
Fummo accolti con il naturale e
consueto calore bonario della gente di montagna che è consapevole e rispetta i
valori delle cose.
I responsabili delle piste
spiegarono quali fossero le incombenze da svolgere sotto la loro guida e, dopo
una salutare e robusta colazione offerta, i miei alpini furono divisi in
piccoli gruppi che si incamminarono per
i vicini prati di Sant'Orso e per altri siti in cui battere le piste, con gli
accordi di essere tutti presenti a mezzogiorno per il pranzo.
Io 'poveretto' rimasi (tutto)
solo sulla Piazza, ma continuamente 'vigilato e
scortato' da qualcuno che si sentiva in dovere
di 'offrirmi qualcosa' nel solito bar di fronte al Municipio: il “Café du
Centre”.
Non
potevo assolutamente staccarmi di lì, passeggiare o fare qualche giro per il
paese: ero sempre avvistato, pedinato e bloccato; d'altra parte non potevo
nemmeno rifiutare l'offerta di 'bere qualcosa in compagnia': qualcuno avrebbe
potuto offendersi!
Questa
situazione si protrasse tragicamente per dieci giorni sia la mattina, sia il
pomeriggio, tranne le poche volte che dovevo, necessariamente ma
temporaneamente, recarmi in qualche ufficio; ma gli uffici erano tutti sempre
troppo vicini al bar, di fronte!
A
mezzogiorno i miei tornavano stanchi e con una fame che quasi si
materializzava, mentre io, poco affamato per la mattinata passata al bar e per
nulla stanco, tendevo a temporeggiare.
Eravamo
ospitati in un ottimo ristorante lì vicino in Via Limnea Boreaslis, che
purtroppo attualmente è stato trasformato in Residence: ”Au vieux Grenier” e
che in seguito rivisitai qualche volta con mia moglie.
Il
pomeriggio le stesse ardue attività sia per gli alpini, sia per il
sottoscritto.
La sera
all'imbrunire verso le 17,30, dopo aver salutato tutti previo l'ultimo 'giro'
di grappa, si tornava in caserma.
Probabilmente
sarà stato il grande freddo ad aiutarmi, ma non sono mai riuscito a capacitarmi
come abbia potuto non prendermi qualche solenne sbornia con tutto quel “popò”
di alcool ingurgitato durante la giornata.
Trascorsero
velocemente quindi, come già detto, i dieci giorni di spensieratezza e allegria
e venne il momento di tornare definitivamente in 'collegio' dagli altri; oramai
le piste per il Fondo erano tutte tracciate: non c'era più bisogno di noi.
Il
pomeriggio dell'ultimo giorno le autorità locali decisero di festeggiare con i
miei alpini il lavoro eseguito con grande successo e perizia; mentre io ero
rimasto sempre 'solo' sulla piazza, anzi nel bar, con le rimanenti autorità che
si avvicendavano.
Giunta
l'ora di tornare (l'ACL era puntualmente pronto come sempre sulla piazza a
fianco del Municipio) vidi in distanza avvicinarsi lentamente e a fatica come
si arrampicasse su qualche erto sentiero, con fare tra il sinuoso e lo scomposto,
un gruppetto di alpini canterini e vocianti che occupava tutta la strada.
Alcuni
erano sbronzi al punto giusto, ma non mi preoccupai molto in quanto la festa di
ringraziamento era stata meritata egregiamente da tutti loro.
Le
autorità ringraziandoci calorosamente ci riempirono di depliants, vetrofanie,
portachiavi, ecc. a ricordo dell'evento che si sarebbe svolto i giorni
successivi.... e si fece l'ultima bevuta!
Riuscii
a fatica a far caricare, quasi come sacchi di cemento, i più sbronzi sul camion
mentre gli altri, i più 'savi', riuscirono a fatica a guadagnare il loro posto
sul cassone dell'ACL.
Ad
operazione terminata ci mettemmo in cammino stanchi, (alticci è un eufemismo),
ma tranquilli e contenti.
Fortunatamente
l'autista era lucido.
Dall'abitacolo
di guida si sentiva cantare, vociare, ridere e pareva che comunque tutto
procedesse normalmente; poi finalmente arrivammo sul piazzale della Testafochi.
Con il
freddo la combriccola era quasi del tutto rinsavita e su di morale ed i funi
dell'alcool si erano dispersi e lasciati lungo la strada.
Chiesi
“come va? Tutto bene?”. I più savi avvicinandosi mi riferirono ridendo che
molti di loro lungo il viaggio avevano 'lavato' tutta la strada da Cogne
ad Aosta. Quindi non avevano 'lasciato e disperso' solo i fumi dell'alcool
lungo il cammino!!!!
Sorrisi,
una pacca sulla spalla ad ognuno, e ci salutammo calorosamente entusiasti per
l'ospitalità ricevuta.
66.
66.
OSTERIA PAPA’ MARCEL
(Sandro Bazurro)
Come ho già avuto modo di dire,
al mio arrivo alla Scuola Militare Alpina, conoscevo ben poco della città di
Aosta.
Per fortuna, già dopo qualche
giorno venni invitato da un nostro istruttore, caporal maggiore ACS, grazie ad
un amico comune, ad effettuare il turno di “ronda” durante l'orario di libera
uscita.
Fu così che oltre a scoprire le
strade di Aosta, ebbi modo di prendere conoscenza delle sale cinematografiche e
delle osterie, luoghi abitualmente frequentati, nelle ore libertà, dagli
allievi della Cesare Battisti e dagli alpini della Testa Fochi.
A quel tempo ad Aosta giravano
per la città, nelle ore serali, due “ronde”, una della scuola Allievi Ufficiali
e Sottufficiali e l'altra del battaglione Aosta, pattuglie di militari guidate
da un sottufficiale o da un graduato di truppa, al fine di controllare che i
militari in libera uscita si comportassero correttamente.
Fu così che scoprii l'osteria Papà
Marcel, anche se non ne divenni mai un cliente abituale.
Ubicata nel centro storico di
Aosta in rue Croix de Ville, da decenni era il naturale ritrovo di tanti
alpini.
Una tipica piola, osteria,
in dialetto piemontese, una scura stanza con un bancone, una attigua saletta
con tavoli di legno, intarsiati da generazioni di alpini con il coltellino
tattico e sui muri tante firme, dediche, frasi tra il serio ed il faceto, che
testimoniavano spesso la tristezza per la baita lontana, la morosa, il lavoro
forzatamente abbandonato per servire la patria.
L'oste, il baffuto papà Marcel,
baffoni portati ad onor del labbro, forse a compenso della calvizie incipiente,
a volte sfoggiava un supertirato cappello alpino; qualcuno mi disse che in
realtà non era mai stato alpino, ma cosa importava, era un brav’uomo e questo
bastava per avvicinarlo e confessargli il proprio stato d'animo, come ad uno di
casa.
Gli alpini lo adoravano, e quando
la cena non era stata ottima ed abbondante, si compensava con un super panino
pancetta e peperoni, e poi il frizzantino per mandarlo giù e perchè no, il
mitico giro di caffè valdostano, bevuto dal beccuccio della “coppa
dell'amicizia”, chiamata da taluni erroneamente “grolla”, che è invece un altro
tipo di calice, alto e stretto.
Quando libero dal servizio,
superato il controllo per la libera uscita, riuscivo a varcare indenne il
portone della Cesare Battisti, ovviamente munito di fazzoletto regolamentare,
sessanta centimetri di carta igienica in un taschino e pettine griffato esercito
italiano nell'altra, mi recavo solitamente al caffè “Crestani”, dove
restavo assorto nei miei pensieri per una buona mezz'ora, gustando un ottimo
caffè con panna, poi passavo dalla vecchia piola di Marcel e se l'ambiente mi
sembrava di mio gradimento entravo per una sosta di un'oretta e lì qualche sorso di caffè valdostano ci
scappava sempre.
Una sera ero al caffè Crestani,
particolarmente giù di morale, e complice il bel tramonto, mi venne una grande
nostalgia di casa. Su un tovagliolo, mentre riflettevo, iniziai a disegnare un
tramonto sul mare, poi aggiunsi la spiaggia ed un uomo tranquillamente
allungato su una sedia a sdraio. Era ciò che ricordavo dell'ultimo giorno da
borghese, prima della partenza per la Scuola Militare.
Ad un tratto mi parve di essere osservato;
seduta ad un tavolino ad un livello leggermente più in alto, una ragazza stava
sbirciando incuriosita ciò che avevo disegnato.
Visto che mi ero accorto di lei,
mi sorrise, si scusò per aver spiato il mio disegno, giustificando la sua
curiosità per il fatto che le era parso strano che stando di fronte alle
montagne, un alpino disegnasse un tramonto sul mare.
Le spiegai brevemente il motivo
di quel disegno ed iniziammo a parlare. Lei viveva a Monaco di Baviera ed era
ad Aosta in visita alla nonna, amava il disegno e frequentava una scuola
d'arte.
Parlammo per un bel po', mentre
l'orologio della torre civica scandiva le ore e poi ad un certo punto si alzò
per accomiatarsi, dicendomi che per lei era ora di rientrare.
La casa della nonna era in Rue Trottechien,
sulla strada per la piola di Papà Marcel: mi offersi di accompagnarla ed
accettò di buon grado.
Mi salutò cordialmente, ma ebbi
l'impressione che quel “arrivederci a domani” celasse la volontà di approfondire
quella conoscenza fugace.
Proseguii la mia strada verso
Papà Marcel, assorto nei miei pensieri: quell'incontro non era stato certamente
rilassante.
Mi soffermai sull'uscio, ne
intravidi quello sguardo confortante sopra i simpatici baffoni, accompagnato
dal cenno della mano che mi invitava ad entrare.
Marcel aveva la grande capacità
di capire le situazioni, senza nulla chiedere e, mettere quella parola buona
che ti aspettavi di sentirti dire.
Un giro di coppa dell'amicizia e
mi sentii subito meglio.
Sull'uscio mi disse: “Me la devi proprio
far conoscere la tua morosa, deve essere proprio speciale”.
Ancora una volta aveva colto nel
segno.
Non ebbi mai occasione di
fargliela conoscere, la mia morosa, durante la permanenza ad Aosta.
Smisi di frequentare il caffè
Crestani per un po' di tempo, non era proprio il caso di complicarmi
ulteriormente le vita, per quello ci pensavano già i nostri superiori.
Anche questo è naia.
Ritornai ad Aosta anni dopo, in
viaggio di nozze, e tra le tante cose da condividere con mia moglie, non poteva
mancare l'osteria papà Marcel, ed i suoi panini.
Obiettivamente non credo mi abbia
subito riconosciuto, ma inquadrato certamente sì: ero uno dei suoi alpini.
Ora Papà Marcel non è più dietro
il bancone, in rue Croix de Ville, è andato avanti il 2 gennaio 2010, e forse
lassù nel Paradiso di Cantore, aspetta che quei ragazzi di tanti anni fa
arrivino ansimando e smoccolando con lo zaino affardellato, nell'ultima
faticosa salita, per accoglierli con il suo sguardo buono e ristorarli con
quell'ottimo frizzantino.
67.
67.
VODKA A LA THUILE
(Franco Ferrario)
La notte era profonda e spettrale,
nel nero assoluto del cielo brillavano tonnellate di stelle.
La luna, che illuminava pallidamente
il silenzio abissale della conca innevata de La Thuile, il cui aspetto appariva
sinistro perfino alla luce del giorno, esaltava quello scenario insieme tetro e
affascinante.
Di fianco alla caserma Monte
Bianco una brutta spigolosa costruzione sembrava un’astronave aliena appena giunta
dalla cintura di Orione.
Era invece ‘fortunatamente’ solo un
fabbricato, adibito a residence, in stile moderno nettamente contrastante con
il contesto architettonico dell’antico borgo; per sovrappiù era adornato da lampade
e faretti che irradiavano una inquietante luce bluastra la quale contribuiva a
rendere l’atmosfera di quella notte di dicembre 1971 maledettamente più siderale.
Erano circa le due; l’allievo
ufficiale Franco Ferrario stava diligentemente svolgendo il suo turno di sentinella
percorrendo il cortile della caserma tra alte mura di neve e superfici ghiacciate.
Ad un certo punto vide comparire,
uscito da una palazzina, uno degli alpini esploratori di stanza alla Monte
Bianco, che attraversò lo spiazzo per raggiungere l’edificio del corpo di
guardia.
Notò Franco e gli porse una
bottiglia: “Tié’! Bevi!”
“Cos’è?”
“Bevi!”
Quasi costretto, pur sospettoso, bevve
alcuni sorsi.
“Grazie,” restituendo la
bottiglia, “ma è acqua?”
“Veramente è vodka, è il freddo
bestiale che la fa sembrare acqua”.
Come era apparso, così scomparve.
Franco, astemio (o da considerarsi
ormai ex?), rimase ad interrogarsi sulle strane proprietà alchemiche e termodinamiche
testé direttamente sperimentate.
Nel frattempo aveva infatti con
stupore realizzato di non avere più freddo.
L’autonomia termica coprì
abbondantemente il periodo del turno di guardia.
68.
NONNISMO
(Sandro
Bazurro)
Era l'Agosto della calda
estate del 1971 e gli Allievi del 63° Corso AUC, terminati i primi cinque mesi
di addestramento, stavano per essere nominati Sergenti AUC ed inviati ai
Battaglioni operativi per gli ulteriori tre mesi di passione, prima
dell'ottenimento dell'agognata stelletta.
In effetti il 63° Corso
fu l'ultimo che prevedeva il sergentato AUC, prima della nomina ad ufficiale,
mentre il nostro 64° Corso, prevedeva la nomina diretta al grado di sottotenente,
dopo sei mesi di Scuola Militare.
Questa novità, già di per
sé poco gradita dagli allievi del 63° Corso, andò ad incrementare, se mai ce ne
fosse stato bisogno, l'atavica voglia di mantenere vive le antiche regole,
ovviamente non scritte e le tradizioni del rispetto per la gerarchia acquisita
con l'anzianità, in una mistura di goliardia e nonnismo naione, che portava a
festeggiare le varie ricorrenze dell'iter militare con scherzi vari, pressioni,
ricatti, nei confronti dei giovani
colleghi, che peraltro presto l'avrebbero sperimentati a loro volta sui nuovi
arrivati.
Tutti gli allievi del 64°
Corso, ovvero quello dei ‘giovani’ della Prima Compagnia per intenderci,
aspettavano quindi con trepidazione e malcelato timore ciò che si vociferava
avvenisse in tali occasioni.
Taluni scherzi, quali
gavettoni ed abbondante spreco di
dentifricio e schiuma da barba, scherzi veramente bonari in realtà,
erano già stati sperimentati all'arrivo alla Scuola, però qui si parlava di
cose terribili, gente ‘sbrandata’ in pieno sonno, che aveva riportato traumi
gravi, lucido da scarpe passato senza parsimonia sui visi assonnati, orecchie e
capelli compresi, e poi si sa radio naia ingigantiva a dismisura quanto tutti
legittimamente temevano e quanto veniva insinuato dalle mezze frasi fatte
circolare dagli stessi persecutori, per portare il terrore tra le fila della
Compagnia antagonista.
Era in questo clima che
tutta la Prima Compagnia e quindi anche la mia camerata, la numero otto, si preparavano ad affrontare l'evento; i consigli
si sprecavano, c'era chi contava sull'amicizia di qualche ‘vecchio’, meglio se
tra i più rappresentativi del Corso, per
essere risparmiato, chi studiava a tavolino contromisure da adottare e non
sapendo di preciso il momento dell'attacco, si progettavano turni di guardia,
che ovviamente finivano miseramente verso la mezzanotte, quando stanchi della
lunga giornata di esercitazioni tutti crollavano in un sonno ristoratore, tanto
profondo quanto traditore.
Fu però che grazie ad una
subdola delazione, gli allievi della camerata numero otto, ma penso anche tutti
gli altri allievi della Prima Compagnia, vennero a sapere quale sarebbe stata
la notte fatidica, durante la quale i ‘vecchi’ avrebbero portato il loro
attacco agli ‘indifesi’, si fa per dire, ‘giovani’ del 64°corso.
Rapidamente venne fatto
un consiglio di camerata, e non ricordo più chi in particolare, ma senz'altro
uno stratega degno delle migliori tradizioni, suggerì una tattica tanto antica
quanto efficace, largamente sperimentata nel mondo animale: la tanatosi
ovvero il fingersi già morti per evitare l'attacco e le inevitabili letali
conseguenze.
Altro paragone, assai
calzante per l'adottata contromisura, potrebbe essere quello dell'abbiamo
già dato.
In pratica dopo il
contrappello serale, tutti ci preparammo regolarmente per la notte, chi in
ciabatte e pigiama, chi in mutande e canottiera e così via; poi rapidamente
rovesciammo i letti e drizzammo le brande contro i muri ed in quel parapiglia
di coperte, lenzuola, cuscini attendemmo con rassegnazione ed atteggiamento di
circostanza, l'arrivo degli incursori della Seconda Compagnia, che non
tardarono, annunciati dal vociare delle camerate che via via visitavano.
Arrivati alla nostra,
restarono stupiti dello sconquasso che si presentava ai loro occhi e di ciò che
altri ipotetici squadroni di allievi erano riusciti a combinare in così breve
tempo, precedendoli nell'operazione; quindi complimentandosi tra loro per la
lezione impartita, visibilmente soddisfatti, proseguirono oltre.
Passato il pericolo ed atteso
congruo tempo, al fine di scongiurare l'eventualità che ulteriori ripensamenti
e conseguenti incursioni si verificassero, tutto venne rimesso a posto
nell'ordine più perfetto con un'efficienza ed una tempistica degna di nota.
L'arrivo della ronda
degli istruttori, che nel frattempo attirata dai rumori dell'evento
verificatosi, si era attivata con la consueta solerzia, pur lasciando il tempo
affinché gli annunciati eventi seguissero il loro corso, trovò la camerata
numero otto perfettamente in ordine e gli allievi raggomitolati nelle loro brande
tranquillamente addormentati; ma chi avesse meglio illuminato l'ambiente,
avrebbe notato sui loro volti apparentemente tra le braccia di Morfeo, un
beffardo sorriso di vittoria.
69.
73.
IL FORTE DI BARD
(Giorgio Buizza)
69.
IMPOSSIBILE DIMENTICARE IL PERIODO DI NAIA …
(Marcellino Bortolomiol)
Cari Compagni del 64° Corso AUC,
mi è impossibile dimenticare il periodo di naia: il
12 luglio 1971 mi sono laureato in economia a Cà Foscari con tesi sull’economista
e Premio Nobel Markovitz (Efficient diversificator of investments).
Serata e nottata al ristorante “Alla Cima” di
Valdobbiadene con abbondante libagioni ed innaffio di prosecco Bortolomiol o
meglio quasi una doccia con amici e parenti.
A mezzanotte saluto tutti e partenza per prendere
il treno da Padova per arrivare ad Aosta poco prima di mezzogiorno del 13
luglio con fermata a Chivasso, calpestato sul corridoio da ragazzi in gita.
Treno strapieno e il sottoscritto mezzo “sbronzo” e con sonno da recuperare
dalle notti precedenti, si è ritrovato alla stazione di Aosta “mi sembra” in
ritardo, con i commilitoni in jeep pronti a portarmi in caserma. Tralascio
l’arrivo, il taglio della chioma e quant’altro a voi ben voto.
Il pomeriggio subito a lezione in prima fila dopo
che il capitano aveva rimarcato al sottoscritto il fatto che gli altri già da
10 giorni erano attenti scolari e sapevano tutto sul tiro, sulle armi etc.
Ricordo il periodo da allievo ufficiale
abbastanza con simpatia perché pur di fronte a materie nuove, la conoscenza dei
compagni “d’arma” mi faceva dimenticare velocemente lo studio dell’economia e
del diritto e le attività fisiche e le pesanti marce con arrivo nel percorso di
guerra mi conducevano a sogni tranquilli anche se in camerata c’erano vari tipi
di musica.
Ricordo con grande piacere il nostro coro a cui
ho anche partecipato dopo che avevo lasciato in Veneto sia il Coro Monte Cesen
di Paolo Bon che il Tre Pini di Gianni Malatesta.
La giornata che ha marcato il più bel ricordo del
periodo è stata quella del giuramento: mi ha raggiunto ad Aosta mio fratello
Giovanni (promettente rocciatore) vestito da marinaio, scelto per le sue scuole
tecniche (con 24 mesi di naia da passare) e la bellissima foto fatta assieme
sul piazzale della Caserma di Aosta.
Essere stato scelto tra i sei allievi ufficiali
esploratori è stato un momento memorabile ed impegnativo considerato il “breck
ground” di qualche collega.
Dopo le prime marce ed ascensioni ho visto che le
mie doti di sciatore e rocciatore erano state ben comprovate nei dieci anni di pratica
in montagna con i vari CAI di Feltre, Bassano e Conegliano.
Alfredo Marchelli ha tentato più volte a
staccarci in salita ma eravamo sempre “alle costole” anche se con il fiato corto.
Colleghi esploratori, mantengo un bellissimo ricordo di quel periodo: al corso
di roccia al Castello, alle esercitazioni sugli sci a La Thuile, al percorso di
sci alpinismo sul Colle San Carlo con pernottamento sugli igloo con notte
insonne ma indimenticabile.
L’arrivo in caserma al 7° Alpini battaglione
Feltre è stato per me un regalo: a 20 km da casa tra le vette Feltrine, e alla
Caserma di Belluno e di Pieve di Cadore in mezzo alle Dolomiti.
Con il gruppetto di esploratori abbiamo battuto
le piste per la gara del mondo di sci a Cortina, e preparato con corde fisse
ascensioni al Cimon della Pala (San Martino di Castrozza) sotto una nevicata di
luglio e dopo aver pernottato in quattro nel bivacco Fiamme Gialle per ben due
notti di bufera di neve.
Le stupende discese dagli elicotteri dal Col
Margherita sul Passo San Pellegrino con sci ai piedi in divisa bianca!!
Siamo stati fortunati tutti noi del 64° corso perché
nel nostro anno cadeva il 1° centenario della fondazione degli Alpini: aver
portato il gagliardetto dalle Dolomiti bellunesi, e superando il Monte Peralba
(sorgente del Piave) raggiungere le vette del Friuli con il generale in attesa
è stato grandioso! I tempi di percorrenza erano anche previsti percorrenze
quasi di corsa.
Tralascio la vivace vita militare da sottotenente
esploratore quasi sempre tra rocce e nevi e/o percorsi di montagna, con poca
caserma.
Non posso dimenticare però il periodo invernale
trascorso a L’Aquila. L’intero battaglione Feltre con muli, centinaia di
alpini, camionette, camion su una lunghissima tradotta partiva da Feltre ed
arrivava alla Caserma de L’Aquila per essere vicino a Roma (per rischio di sommosse
politiche) prima della primavera del 1972, su richiesta credo, dell’allora
Ministro Andreotti (così si diceva).
Attraversare la Piana di Campo Felice con i muli
(gli alpini avevano scavato un varco alto 2 metri di circa 3 km sulla neve!)
paesetti come Ovindoli, Roccaraso, sulla Maiella innevata, e sul Gran Sasso.
Sono percorsi che non si possono cancellare dalla
mente. Nella settimana in cui dovevamo attrezzare la salita al Corno Piccolo
del Gran Sasso, (dormivamo nei tunnel di cemento umido di Campo Imperatore, ex
roccaforte del duce) si partiva al mattino alle cinque col buio fino a raggiungere
l’inizio del lungo costone di neve da attraversare per portare in vetta la
compagnia artiglieri tra nevi e rocce.
Una mattina verso le 8.30 – 9.00 nell’attraversamento
abbiamo tagliato la costa innevata non mantenendo le distanze e di conseguenza
il peso ha fatto partire una slavina.
Eravamo in 10: sette alpini esploratori, il
capitano in coda, il sergente in testa ed il sottoscritto in mezzo.
Noi cinque centrali fummo coperti dalla neve della
valanga che intanto cresceva e dopo un volo nello strapiombo di decine di metri
fummo sommersi dalla massa nevosa. I quattro a fianco, due per parte, del
sottoscritto furono buttati lateralmente ed io in centro continuavo a scendere
sul plateau.
Mi ricordai di nuotare per emergere, e così
riuscii a vedere un grumo di rocce sporgere dalla neve prima di iniziare il
pericoloso canalone tra gli impervi spuntoni, mi ci buttai a capofitto,
perdendo la pelle delle mani, riuscii a tenere la testa bassa finché tutta la
neve mi passò sopra, resistetti, urlai e mi salvai. Nello stesso giorno in
Trentino 7 alpinisti furono sommersi da una valanga: non ricordo quanti si
salvarono!
Fui soccorso e recuperato e rientrai alla roccaforte
di Campo Imperatore. Fui medicato alle mani. Gli altri, hanno avuto piccole
escoriazioni ma niente di grave.
Il generale voleva dopo due giorni sorvolare con l’elicottero
il Gran Sasso e godere la vista della compagnia con armi al seguito in cima al
Corno Piccolo!
Nonostante tutto il giorno dopo ritornavo a
completare il lavoro con gli altri esploratori mettendo delle corde fisse.
Il giorno successivo infine la compagnia con i pezzi
degli obici e delle mitragliatrici raggiunse la vetta del Corno Piccolo; uno
spettacolo, ma con immensa fatica e grande fu il contributo dei miei
esploratori.
Tralascio le imprecazioni degli alpini e dei
gloriosi esploratori che dovettero portarsi in spalla pezzi di mortaio e
quant’altro. La montagna fu conquistata!!
Fui congedato il 30 settembre 1972.
Il primo ottobre domenica ero a Milano per
iniziare il 2 ottobre il lavoro di revisione nella Peat Marwick Mitchell &
Co società internazionale, era una delle Big Nine dell’audit. Dalla caserma al lavoro
in 24 ore: addio alla vita di montagna dopo 15 splendidi mesi.
Ne serbo ancora un bel ricordo!
Vi ringrazio ancora tutti, perché leggendo le
vostre mail ho ripercorso quel periodo di intensa vita alpina e mi sono sentito
in dovere di riportare qualche frammento di quel percorso.
Non so se potrò esserci alla prossima adunata a
causa di un impedimento.
Ci saremo tutti, lo spero, all’adunata del 2017 a
Treviso.
Vi aspetto!
Marcellino Bortolomiol
70.
70.
LA TRADOTTA
(Sandro Bazurro)
Il Secondo Reggimento
Alpini, CAR, venne costituito il primo luglio 1963 e successivamente inquadrato
nella Brigata Alpina Taurinense, con sede e Comando a Cuneo. Lo stesso CAR
verrà sciolto, a seguito della ristrutturazione dell'Esercito, il 31 ottobre
1974.
Era composto dai
Battaglioni Cadore, Orobica, Tridentina e Taurinense.
Operativamente venne
suddiviso tra le Caserme Cesare Battisti di Cuneo con il Comando Reggimento, la
Giovanni Cerutti di Boves sede dei reparti della Cadore, la Caserma Raffaele
Trevisan di Bra, la Caserma Giuseppe Galliano di Ceva, con la Compagnia Pieve
di Cadore, la Caserma Giuseppe Galliano di Mondovì Piazza, la Caserma Ignazio
Vian di San Rocco Castagnaretta ( CN), con i reparti dell'Orobica, la Caserma Trossarelli di Savigliano con i
reparti dell'artiglieria da montagna Taurinense.
Nella caserma Cesare
Battisti di Cuneo oltre il Comando di Reggimento, c'erano le Compagnie Trento,
Bolzano, Bassano e CAM (Compagnia Artiglieri da Montagna) Tridentina.
Al termine del ciclo di
addestramento di circa due mesi e mezzo, le reclute venivano accompagnate ai
vari Reggimenti di destinazione, solo una piccola aliquota restava al Secondo
Reggimento, per il cosiddetto CAR avanzato. Alcuni di costoro, tra i più
motivati, potevano aspirare a diventare caporali istruttori e passare così nel
Quadro Permanente del CAR.
Come ho già avuto modo di
narrare in altra memoria, al mio arrivo al Reggimento di destinazione, il “doi”
di Cuneo, (il suo motto: “Vigilantes”), l'11 di gennaio del 1972, venni
assegnato alla Compagnia Artiglieri da Montagna Tridentina, ed il primo
contingente reclute iniziò ad affluire in Caserma il 18 gennaio seguente.
Al mio plotone, il
quarto, vennero assegnate 88 reclute, non so come fosse per gli altri giovani
tenentini, ma a me sembravano un numero enorme; questa bellissima prima
esperienza da istruttore era destinata a terminare con il finire del primo
ciclo di addestramento, e quindi l'invio ai Reparti di destinazione.
La CAM Tridentina
preparava la maggior parte degli alpini per il gruppo Asiago della Brigata
Tridentina, con sede a Dobbiaco (Toblach), Caserma Piave, ma ne “perdevamo”
molti durante il percorso, destinati in altre caserme, a Bressanone e Brunico
ad esempio. Il collega Moro Maurizio, sottotenente della Compagnia Trento,
ricorda perfettamente che la sua Compagnia formava alpini con destinazione
Monguelfo (Welsberg), Dobbiaco, San Candido (Innichen).
La partenza per i Reparti
di destinazione, tra una concitazione incredibile, avveniva solitamente di
sera, in quanto considerato il percorso da effettuare e la velocità della
“Tradotta”, si viaggiava tutta la notte, per giungere all'alba ai primi Punti
di smistamento.
Il percorso della
tradotta era a grandi linee il seguente: Partenza Cuneo stazione di Cuneo
Altipiano, Fossano, Savigliano, Torino,
Milano, Brescia, Verona, dove venivano staccati i locomotori elettrici e
venivano attaccate due locomotive a vapore e poi via sbuffando, verso Trento,
Bolzano (Bozen), Bressanone (Brixen), Fortezza (Franzensfeste), con deviazione
a Vipiteno ( Sterzing), oppure verso Brunico (Bruneck), Monguelfo (Welsberg),
Dobbiaco (Toblach), ed infine capolinea San Candido (Innichen).
La partenza, dunque: dopo
un affrettato rancio, tutti inquadrati ci avviavamo verso la stazione di Cuneo,
carichi oltremisura con zaini, borsa valigia, borsa da viaggio ed a volte
qualche pacchetto ben nascosto o tollerato, di generi di conforto, che non
avevano trovato spazio nel corredo di ordinanza.
Un vociare incredibile
caratterizzava la partenza, incontenibile ed inarrestabile nonostante gli
sforzi degli addetti all'accompagnamento; presto questo vociare si sarebbe
affievolito, complice la notte da passare seduti sulle dure panchine di legno
dei vagoni, fino a scemare naturalmente ed inesorabilmente alla vista dei
luoghi ove i giovani alpini avrebbero trascorso lunghi, lunghissimi mesi di
naia vera, complice anche il comparire della stazione di destinazione lungo la
cui banchina si potevano scorgere i “vecchi” dal cappello abbuferato e lo
sguardo truce che li attendevano, per accompagnarli ai nuovi Reparti.
Praticamente la
“Tradotta” effettuava solo scali tecnici, durante i quali nessuno poteva
scendere o salire dai vagoni, possiamo quindi immaginare cosa succedeva
all'interno, in quel lasso di tempo di almeno tredici e più ore di viaggio.
Gli ufficiali addetti
all'accompagnamento viaggiavano in “prima” classe sulle vecchie panchine
rivestite di velluto, in uso fino alla fine degli anni ottanta, che comunque
erano scomodissime e sembravano fatte apposta per tenere svegli.
Ricordo che a tarda sera,
mentre mi stavo appisolando, venni
chiamato da un caporale del mio plotone per un problema che si era presentato;
mi alzai insonnolito e mi recai nello scompartimento assegnato al reparto, per vedere di che cosa
si trattasse; in realtà un gruppetto di toscani, peraltro recidivi, avevano
riempito due gavette di cipolla finemente tritata con l'aggiunta di tonno e
fagioli, il tutto condito con molto sale ed abbondante olio e mi invitarono a
dividere con loro quella che chiamarono “l'ultima cena”. Ovviamente non poteva
mancare il vino e fu così che dopo una solenne mangiata di quell'insano intruglio
e parecchi brindisi tornai barcollante, ma si trattava dell'incedere incerto e
scomposto dovuto al percorso tortuoso del treno, verso il mio scompartimento e
mi sedetti senza fare il minimo rumore, badando a non svegliare nessuno. Beh!
per fortuna il treno era pieno di rumori, cigolii, sferragliamenti, e
casualmente ci trovavamo vicini al servizio igienico; fatto sta che ad una
certa ora ed era ancora buio, uno dei colleghi che dividevano con me lo
scompartimento, bofonchiando spalancò la porta inveendo contro la scarsa
pulizia dei vagoni ferroviari causa dell'olezzo di cipolla che indubbiamente
proveniva dai consunti rivestimenti delle panchine e dal locale igienico
attiguo. Io ovviamente finsi di dormire, cercando di reprimere i sordi rumori
che inesorabilmente salivano e scendevano dal mio povero stomaco.
A parte questo piccolo
inciso, tutto funzionò a meraviglia ed arrivammo all'alba verso le prime
stazioni di destinazione, dove gli alpini via via scendevano a piccoli gruppi,
guardandosi attorno spaesati, spesso alzando gli occhi verso le montagne
innevate, avviandosi a piedi inquadrati o salendo rapidamente sui camion che li
attendevano, non senza volgere un ultimo sguardo verso i loro compagni che
forse non avrebbero più o almeno per un bel po' di tempo, rivisti.
Arrivammo infine a
Dobbiaco, che era la mia destinazione, mentre altri proseguivano per il
capolinea finale San Candido. Era il 27 Marzo dell'anno 1972.
L'amico Sottotenente Moro
Maurizio, arrivato a quella destinazione, ricorda che li aspettava un “vecchio”
caporale cappello abbuferato su una capigliatura ed una barba decisamente fuori
ordinanza, che volutamente o naturalmente faceva paura solo a vedersi. Uno dei
più coraggiosi giovani alpini guardando i monti innevati, ostentando baldanzosa
ancorché prudente sicurezza, osò rivolgersi a lui con un “.... e noi
dovremmo salire lassù, e magari con i muli ???” “Certamente”
rispose costui, senza volgere lo sguardo,” sì ci sono i muli e voi
andrete e li porterete là, problemi non ce ne sono, tranne che a volte occorre
scolpire nel ghiaccio con la piccozza i gradini per il mulo, quando rischia di
scivolare!” Quei poveri ragazzi ammutolirono e raccolti da terra i loro
bagagli, a testa bassa seguirono il capobranco: anche per quella decina di
alpini era iniziata la naia vera.
A Dobbiaco, alla Caserma
Piave sede del Gruppo Asiago, il cui motto “Tasi e Tira” la diceva lunga sulla
gloriosa storia di quegli artiglieri, la consegna delle reclute al Reparto
avvenne con le poche formalità di rito. Il Comandante mi consegnò il foglio di
ritorno con la data in bianco e mi disse: tenente se desidera farci compagnia
per altri due giorni è il benvenuto, ma penso che come tanti suoi colleghi non
vedrà l'ora di rivedere i suoi cari, si regoli Lei di conseguenza.
Ovviamente corsi a
prendere il primo treno per il ritorno, mi pare fosse verso mezzogiorno, il
tempo per un panino e scrivere due cartoline. Sul treno incontrai il Tenente
Moro che di ritorno da San Candido aveva avuto la mia stessa idea, eravamo
felici, avevamo due giorni di libertà tutti per noi e per fare una sorpresa a
casa e ...cosa che non guastava affatto, ci spettavano dodici mila lire di
diaria in più da spendere.
Arrivai a Genova con
l'ultimo treno e riuscii a salire sull'ultimo autobus, che mi avrebbe
avvicinato almeno un po' di più a casa, (ormai a quell'ora non c'erano più
mezzi per il mio paese) e poi dal capolinea su a piedi per sei chilometri fino
alla casa sulla sommità della collina.
Comunque, pensai, ben
poca cosa rispetto alle marce sfiancanti che aspettavano i miei alpini nei
nuovi Reparti di assegnazione!
71.
71.
LA
PARTENZA
(Michele
Casini)
La
mattina di giovedì 1° luglio 1971 a Milano fa caldo. Michele Casini e Roberto
Salati si incontrano al Distretto Militare di Via Mascheroni, ciascuno con la
cartolina gialla in mano, così come altri giovani che devono prestare il loro
servizio militare. I due non si conoscono, ma apprendendo che in giornata
devono presentarsi alla caserma Cesare Battisti di Aosta per iniziare il corso
Allievi Ufficiali presso la Scuola Militare Alpina cominciano a fraternizzare
senza neppure immaginare il rapporto di grande amicizia che li legherà in
futuro. Scambiano quattro chiacchiere e si danno appuntamento in Stazione
Centrale per prendere un treno in partenza per Torino intorno a mezzogiorno.
Roberto, previdente, ha già la valigetta pronta e comunica a Michele che,
essendo già sposato ha salutato la moglie a casa preferendo evitare nuovi
saluti che, data la situazione, creerebbero solo ulteriore sofferenza. Michele
di tutta fretta va a casa per prendere la propria valigetta, già pronta, e
raggiungere la Stazione Centrale dove, insieme a Naila che nel 1973 diventerà
sua moglie, si incontra nuovamente con Roberto. Sul marciapiedi del binario
dove è in partenza il treno per Torino arriva una giovane donna che vedendo
Roberto lo abbraccia e bacia appassionatamente. Michele e Naila, già informata
che Roberto è sposato, si guardano e al momento rimangono un po’ sorpresi
dall’atteggiamento dei due. Immediatamente Roberto presenta la giovane donna
come sua moglie Marinella e, quindi, si spiega l’arcano. Infatti Marinella,
saputo l’orario di partenza del treno, è corsa in stazione, accompagnata dalla
mamma Alice, per un nuovo saluto a Roberto. Saliti sul treno Roberto e Michele
sistemano il proprio ridotto bagaglio e si affacciano al finestrino per un
ultimo saluto a Marinella e Naila. Michele fa una battuta che vuole solo
sdrammatizzare la situazione e dice: “coraggio che fra un anno mancheranno ancora
tre mesi”. Marinella in futuro più volte dirà a Michele che in quel momento lo
ha odiato profondamente per la “feroce” battuta. A Santhià avviene il cambio di
treno e si sale su quello che arriverà direttamente ad Aosta. Su questo secondo
treno ci sono, sempre provenienti da Milano, Massimo Flematti, Maurizio Grassi
e Paolo Moneta. Tutti fanno presto a comprendere la comune destinazione (è
sufficiente valutare l’età, la capigliatura già organizzata e un atteggiamento
di dubbio per il prossimo destino). Prima che il treno giunga a destinazione i
cinque si propongono, una volta arrivati, di fare un “giro largo” per andare in
caserma, cogliendo così l’occasione di attraversare il centro della città.
All’apertura delle porte del treno e discesi i pochi gradini il programma viene
immediatamente modificato in quanto un sottufficiale ed un graduato invitano
(si fa per dire) i nuovi arrivati a trasferirsi sul cassone di un camion
militare che li porterà alla loro destinazione. Il percorso dura qualche minuto
in quanto la distanza della stazione ferroviaria dalla caserma è breve e, una
volta raggiunta la porta carraia i cinque nuovi allievi vengono fatti scendere
ed entrare nel cortile; uno degli allievi di guardia del 63° corso (precedente
a quello che frequenteranno Roberto, Michele, Massimo, Maurizio e Paolo) al
momento dell’ingresso dice “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”. In fondo un
incoraggiamento beneaugurante non si nega a nessuno!!! I nuovi cinque amici vengono condotti nel
corridoio dove si aprono le camerate e, considerato che sono arrivati come
primi allievi del corso, prendono il proprio posto nella camerata n. 1 nei
primi cinque letti (lato destro); questo fino alla nuova distribuzione delle
camerate a seguito della suddivisione degli allievi in base alla specialità
assegnata. Da quel giorno inizia l’avventura del corso allievi ufficiali che
durerà fino al successivo mese di dicembre. Dopo la fine del corso Roberto e
Michele, acquisito il grado di Sottotenente, vengono destinati al Battaglione Aosta
presso la caserma Testafochi (Roberto alla 41° compagnia fucilieri e Michele
alla 134° compagnia mortai). L’amicizia tra Roberto e Michele, nella quale
restano coinvolte le rispettive mogli, durerà fino all’agosto 2009 quando
Roberto “andrà avanti” e rimarrà immutata anche dopo.
72.
IL
SILENZIO
(Michele
Casini)
Alla
caserma Testafochi del Battaglione Aosta una sera di primavera 1972 c’è un po’
di fermento dovuto al fatto che i Sottotenenti del 62° corso AUC il giorno dopo
andranno a casa in quanto il loro periodo di servizio militare (15 mesi) è
terminato. Sono passati pochi minuti dopo le 23 ed è già suonato il silenzio a
conclusione della giornata, Michele Casini, Sottotenente della 134° compagnia
mortai, decide di fare un regalo ai “nonni” congedanti e, facendosi aprire
dalla guardia di turno il portone della “carraia”, porta la propria macchina al
centro del cortile della caserma. Apre completamente le due portiere dove sono
collocati gli altoparlanti e inserisce un nastro Super 8 (chi li ricorda?) con
le suonate del celeberrimo trombettista Nini Rosso. Posiziona il nastro sul
“silenzio” e a tutto volume inizia la riproduzione. È completamente buio e, appena il suono
prende voce, il silenzio all’interno della caserma è assoluto. Tutti quelli che
sono all’interno si avvicinano alle finestre e ascoltano il silenzio cosiddetto
“fuori ordinanza”. È un momento di grande emozione che coinvolge i partenti ed
anche, ovviamente, chi resta. L’ufficiale di picchetto quella sera non è un
Sottotenente di complemento, come solito, ma un tenente. Infatti nelle ultime
settimane sono arrivati in caserma dei tenenti provenienti dalla Scuola di
Applicazione per fare un po’ di esperienza al Battaglione anche come Ufficiali
di Picchetto. Al termine del brano musicale Michele riporta l’automobile fuori
dalla caserma e rientrando l’Ufficiale di Picchetto lo informa che il
Comandante del Battaglione (Ten. Col. Cesare Di Dato) lo ha chiamato in merito
al “fuori programma” per avere spiegazioni comunque rinviate al mattino
successivo. Michele tranquillizza il Tenente dichiarando che l’indomani avrebbe
informato il Comandante della propria responsabilità. Regolarmente il mattino
successivo Michele, con colpo di tacco perfetto, entra al Circolo Ufficiali
salutando i Colleghi ed il Comandante dichiarandosi responsabile del “silenzio”
della sera precedente e, considerato che si è trattato solo di un regalo,
apprezzato in verità da tutti, si dichiara disponibile a fare ammenda con un
brindisi a suo carico. La proposta viene accolta positivamente da tutti,
compreso il Ten. Col. Cesare di Dato, ottimo Comandante e gentleman.
Gli
strani casi della vita faranno sì che Michele Casini e Cesare Di Dato, dopo
oltre 30 anni, si frequenteranno ancora per qualche anno. Questo perché Michele
tra il maggio 2005 ed il 2011 sarà Consigliere Nazionale dell’Associazione
Nazionale Alpini con il ruolo di Tesoriere Nazionale; per qualche anno, nello
stesso periodo, Cesare Di Dato frequenterà le riunioni del Consiglio Nazionale
in qualità di Direttore del mensile “L’Alpino”.
73.
IL FORTE DI BARD
(Giorgio Buizza)
Allora il forte di Bard
ospitava il deposito di munizioni dove anche la Smalp si riforniva
periodicamente, in vista di esercitazioni al poligono o di altre esercitazioni
a fuoco.
Personalmente non sono mai
andato a Bard durante il 64° corso, ma credo che qualche allievo abbia partecipato
a qualche trasporto di munizioni insieme ad un ufficiale o un sottufficiale.
A Bard operava in quel periodo
una delle rare figure femminili inquadrate nell’Esercito Italiano: per la sua
unicità, per la sua figura e per il suo ruolo era soprannominata “la
marescialla”; risiedeva a Hone (dove risiede tuttora) e grazie al suo titolo di
ragioniera, in mancanza di altro personale maschile qualificato, era stata
assunta dall’Esercito e faceva la spola quotidiana tra la sua casa di Hone e
l’ufficio al Forte di Bard. Controllava
la movimentazione delle munizioni e teneva il registro di carico e scarico e
svolgeva quindi un compito di grande responsabilità.
La sua presenza ingentiliva
quel luogo cupo e inaccessibile che era allora il Forte di Bard.
La signora Giacomina B.- coniugata
G.- , è originaria di Lecco, da dove si
è trasferita in gioventù per seguire il papà minatore, operaio nelle gallerie
delle centrali idroelettriche; vive a Hone, è mamma di tre figlie, tutte
coniugate e nonna di numerosi nipoti. Recentemente ha raggiunto il grado di
“bisnonna”.
La ricordo qui anche perché è
la cugina di Manuela B., rimasta lecchese, che è diventata mia moglie nel 1978.
Nel 1971 non frequentavo
Manuela e non potevo prevedere che in futuro avrei avuto un motivo in più per
tornare di frequente in Valle d’Aosta. Il mondo a volte si rivela molto piccolo
e provoca cortocircuiti imprevedibili.
Giacomina ricorda con un po’
di nostalgia i tempi del suo incarico alla polveriera dove ha continuato a lavorare
fino all’età della pensione, tiene in alta considerazione lo Spirito Alpino, e
cita con un certo compiacimento il suo ruolo, che anche le figlie bonariamente
le riconoscono, di “marescialla”.
Coloro che nel 1971 sono stati
al Forte di Bard e ricordano la sua presenza possono avere il piacere di
incontrarla per risvegliare reciproci ricordi di gioventù.
Da allora le presenze
femminili nell’Esercito sono entrate nella norma e non fanno più notizia. Oltre
alle marescialle ci saranno, immagino, anche le capitane e le colonnelle.
Oggi il Forte di Bard, grazie
ad un accurato restauro, è diventato sede di grandi eventi di alto livello
culturale (mostre, convegni) nonché sede museale permanente, vivace e attraente,
per giovani ed adulti. Per i “vecchietti” è stata costruita anche la funicolare
di accesso. Merita sicuramente una visita.
74.
GLI ALPINI VANNO AL MARE
(Piergiorgio Marguerettaz)
74.
GLI ALPINI VANNO AL MARE
(Piergiorgio Marguerettaz)
Come ho avuto modo di
raccontare in un'altra memoria, l'11 gennaio 1972 sono stato assegnato al
Secondo Reggimento Alpini con sede a Cuneo. Qui sono stato destinato al
Battaglione Orobica, Compagnia Edolo, Caserma Ignazio Vian, San Rocco
Castagnaretta.
I plotoni alle nostre
dipendenze erano costituiti, come ha avuto modo di spiegare l'amico Sten.
Sandro Bazurro, da un numero molto più elevato di alpini rispetto allo standard
dei reparti, circa 80 soldati. Veramente impegnativo trasformare dei giovani
borghesi, spesso insofferenti alla vita militare della leva obbligatori, in
soldati. Comunque è stata una esperienza molto gratificante in quanto oltre che
soldati abbiamo iniziato a farne degli Alpini, operazione perfezionata poi dai
nostri colleghi presso i reparti operativi.
Al termine del periodo di
addestramento, a fine marzo, gli alpini venivano inviati ai battaglioni cui
erano destinati.
Non tutti in quanto circa
una sessantina veniva trattenuto in forza al “Doi” per svolgere, al termine del
corso della durata di 2 mesi, il compito di Caporale Istruttore delle reclute.
Insieme ad altri colleghi
Sten fui comandato alla caserma Cesare Battisti, sede del corso, per
partecipare allo svolgimento dello stesso.
Il comandante era il cap.
Camusso della compagnia Trento (quella del nostro collega Sten. Maurizio
Moro)
Il corso ebbe inizio ai
primi di aprile 1972.
Verso fine mese ci venne
comunicato che, a seguito dello svolgimento delle Elezioni Politiche anticipate
(le prime della storia repubblicana) il plotone degli allievi caporali era
stato comandato per il servizio di guardia ai seggi elettorali. La nostra
destinazione sarebbe stata la Liguria, in particolare la provincia di Imperia.
Fu così che venerdì 5
maggio 1972, di buon mattino, il corso caporali partì dalla stazione
ferroviaria di Cuneo con destinazione Imperia.
Il corso annoverava tra
le sue fila un discreto numero di altoatesini di lingua tedesca, con buona
conoscenza dell'italiano, allo scopo di avere dei graduati istruttori in grado
di fare da interpreti nei confronti delle reclute che dicevano di non conoscere
l'italiano o che, ed erano sempre numerose, facevano fatica a farsi capire.
Naturalmente non erano
molto contenti di essere stati trattenuti in Piemonte per tutta la durata del
servizio militare al contrario dei loro compaesani ritornati in alto Adige e
manifestavano questo malessere con mugugni continui. Tra questi spiccava
l'alpino Pfeifer, proveniente dalla compagnia dello Sten Aldo Perron (la
Bolzano).
Il ragazzo per
sottolineare il suo malumore per essere stato trattenuto si era chiuso a riccio
e partecipava a tutte le attività in maniera critica e scontrosa e a nulla
servivano i vari tentativi di noi istruttori per sciogliere questa corazza.
Sarà stato per
l'atmosfera allegra e goliardica che si respirava negli scompartimenti, nei
quali, grazie anche alla bonaria tolleranza del cap. Camusso, si era instaurata
una complicità alpina, fatto sta che ad un certo punto Pfeifer si sciolse e
cominciò parlare, scherzare ridere con tutti.
Poi, aperto il finestrino
dalla parte del vagone rivolta verso il mare, sporgendosi con mezzo busto fuori,
informava il mondo che “gli alpini vanno al mare”, con il suo marcato accento
tedesco. Finalmente si era aperto: ci confessò poi che era la prima volta che
vedeva il mare. Sicuramente il paesaggio
e lo iodio della Liguria ci stavano dando una mano.
Durante il viaggio il
Capitano ci informò che quella sera avremmo alloggiato presso la caserma Pietro
Crespi sede del 89° reggimento Fanteria Salerno. I primi commenti furono
ironici nei confronti dei “buffaioli” e subito dopo si manifestò lo spirito di
corpo sotto forma di voglia di far vedere ai buffaioli di quale pasta sono
fatti gli alpini.
Detto fatto: il tragitto
dalla stazione fino alla caserma, comprensivo, su richiesta degli stessi
allievi, di tre giri del grande cortile interno, fu percorso con un perfetto
inquadramento, come se fossimo alla parata del 2 giugno ai fori imperiali.
Ricordo ancora la
soddisfazione del capitano Camusso quando al Circolo Ufficiali oltre ai
convenevoli di rito ricevemmo i complimenti del colonnello comandante la caserma
(quando battono il passo sembra un colpo di mortaio...).
Il mattino successivo
sabato 6 fummo destinati ai seggi elettorali. Io con una trentina di alpini e
il sergente Ugo Possetto fui inviato a Borgomaro, piccolo centro sul torrente
Maro nella prima parte della valle Impero. Il comune, di 900 abitanti,
comprende 7 frazioni dislocate su altrettante alture, distanti tra loro poche
centinaia di metri in linea d'aria ma diversi km. di strada a volte molto
tortuosa. Impiegammo quindi tutta la giornata tra il trasferimento da Imperia e
il dislocamento degli alpini ai seggi, in comune e nelle frazioni, ognuna delle
quali aveva un suo seggio elettorale.
Finalmente, tutti
sistemati, fui accolto dal sindaco che mi accompagnò presso la caserma dei
carabinieri dove avrei alloggiato per il periodo di permanenza a Borgomaro.
Ebbe così modo di
informarmi che il suo era un comune a prevalente reclutamento alpino, sede di
gruppo alpini ANA, e quindi molto onorato delle nostra presenza.
Inutile dire che durante
i 4 giorni di permanenza fummo coccolati da tutto il paese mettendo a dura
prova stomaco e fegato sempre sotto stress visto che ogni occasione era buona
per “offrire” amicizia sotto forma di cibi e bevande al sig. tenente e al suo
sergente.
La sera di lunedì 8 maggio,
terminati gli scrutini, gli alpini furono alloggiati per la notte presso la
scuola materna in un'aula appositamente predisposta.
Quella notte nessuno
dormì in quanto, complice il gruppo alpini di Borgomaro, fu organizzata una
festa cui partecipò buona parte del paese, nel corso della quale potemmo
gustare molte specialità della cucina locale annaffiata da ottimi vini,
fraternizzando con gli abitanti, ragazze comprese, il tutto allietato da canti
musica e balli.
Il mattino del 9 maggio, martedì, al momento dei
saluti, visto che Borgomaro è il regno dell'olio extravergine dell'oliva
taggiasca fummo omaggiati di una bottiglia ciascuno di detto olio. Fu così che, con occhi gonfi di sonno
arretrato, ma con l'animo pieno digioia e riconoscenza per l'affetto e
l'amicizia dimostrati nei confronti di noi alpini, lasciammo un po' a
malincuore questo borgo dell'entroterra ligure.
75.
L’ARTISTA E IL SOMMELIER
(Luciano Ivaldi)
L'artista.
Durante la selezione delle reclute al CAR di Bra,
lo Sten. Sandro Cerrato, laurea in lettere, poeta, sognatore, si trovò ad
esaminare un giovane che disse di essere musicista e pittore.
La selezione terminò all'istante. Sandro non
volle che quel ragazzo finisse in pasto alla truppa. Tra commilitoni, un buon
bevitore di grappa valeva più di un artista di talento!
Fu così che l'ufficiale arruolò il giovane come
attendente da condividere con il compagno di camera, lo Sten. Enrico Casalegno.
Enrico, dopo una settimana, di quell'artista ne
aveva le tasche piene. Ore e ore di solfeggi, il mattino, invece di rifare i
letti. Ore e ore con i pennelli in mano, il pomeriggio, invece di lucidare gli
scarponi. Ma che razza di attendente era quello!
Se ne lamentò con Sandro, che non volle sentir
ragioni: le opere dell'ingegno venivano prima dei lavori di manovalanza!
Si giunse infine ad un compromesso: l'attendente
della sessione successiva sarebbe stato scelto da Enrico Casalegno.
Il sommelier.
Più avveduto si dimostrò lo Sten. Adriano
Peracchia quando selezionò i militari da assegnare al Circolo Ufficiali. Tra
gli altri, scelse un giovane che era sommelier al Muscatel, un ben frequentato
bar-ristorante della Cinzano, sulla provinciale Alba-Bra.
Al Circolo, dietro il bancone del bar, in giacca
viola e guanti bianchi, il militare preparava gradevolissimi aperitivi che
serviva, ghiacciati, in calici ornati con spicchi di limone e bucce d'arancia.
Il nostro alpino dava però il massimo alla Mensa
Ufficiali dove, in occasione delle feste, esibiva il suo talento proponendo
grandi vini d'annata da abbinare a cibi di alta qualità.
Scelta la bottiglia e mostrata l'etichetta, il
sommelier descriveva le caratteristiche organolettiche di quel nettare
prezioso, poi con un temperino elicoidale estraeva il tappo dalla bottiglia,
annusava il sughero e versava un sorso di quel sangue di Bacco nel bicchiere
dell'ufficiale più alto in grado.
Questi, annusati i profumi e tastati i sapori,
con l'autorità che gli era conferita dalle stellette, approvava la scelta e
dava il via alla libagione con un formale cenno del capo.
76.
IL RENITENTE ALLA LEVA
(Luciano Ivaldi)
“Rifiuto il servizio militare!” furono le parole
proferite da un giovane di leva allo Sten. Luciano Ivaldi. Si capiva da lontano
che quel ragazzo era allergico alla polvere da sparo. Aveva capelli lunghi,
barba incolta e occhialini tondi con una sottile montatura metallica.
L'ufficiale gli disse che, per il codice penale
militare, i renitenti alla leva erano equiparati ai disertori e condannati con
la reclusione di almeno tre anni, da scontare nel carcere di Peschiera.
Il ribelle rispose che con il codice militare si
sarebbe pulito il culo. Poi iniziò ad inveire contro il governo, i giornali e
la TV (c'era solo la Rai). Al diavolo finirono anche banche e multinazionali,
ce l'aveva con il mondo intero. Troppa marijuana? Chissà?
Per sancire la renitenza alla leva, la procedura
prevedeva che, in presenza di due testimoni, l'ufficiale intimasse alla recluta
di imbracciare un'arma, nella fattispecie il Garand M1. In caso di rifiuto, il
regolamento prescriveva che l'ordine venisse intimato altre due volte e, al
terzo diniego, che il ribelle fosse consegnato ai carabinieri.
Il ragazzo si oppose due volte all'ordine e lo Sten.
Ivaldi decise di rimandare all'indomani il terzo tentativo. Se si fosse
trattato di stupefacenti, smaltiti gli effetti allucinogeni, forse il giovane
avrebbe cambiato idea. In un caso precedente la ricetta aveva funzionato.
L'obiettore venne accompagnato in CPR, che per i
non addetti ai lavori significa Cella di Punizione di Rigore.
L'indomani mattina l'ufficiale andò dal ragazzo,
che trovò sdraiato sul tavolato di legno che fungeva da letto in quella camera
disadorna. Si avvicinò abbozzando un sorriso e gli chiese di raccontargli
qualcosa della sua vita.
Il giovane, con uno sbuffo d'insofferenza, disse
di essere uno studente e di far parte di un collettivo autogestito. Era in
disaccordo con i genitori, troppo benpensanti e conformisti.
Ribadì di essere contrario al servizio militare
(erano i tempi della guerra del Vietnam).
L'ufficiale abbozzò: “gli alpini non sono
fomentatori di guerre, soccorrono chi è in disgrazia, i terremotati, gli
alluvionati...”.
Non riuscì a terminare la frase. Il ribelle si alzò
di scatto e urlò di farla finita con quella predica da oratorio. A suo dire,
tutti i militari erano guerrafondai e tutti quanti leccavano il culo agli USA.
Che lo mettessimo in galera, avrebbe sputato in faccia ai secondini.
Aveva il sangue agli occhi e ansimava come una
belva ferita.
In presenza di due testimoni, Luciano Ivaldi
certificò il terzo e definitivo rifiuto, poi uscì in cortile per respirare
l'aria fresca del mattino. La sua laurea in Economia e Commercio non gli
consentì di risolvere quel caso che esulava dai manuali di gestione societaria.
Ma mai avrebbe immaginato che, alcuni anni dopo,
economisti e dirigenti di società pubbliche e private sarebbero diventati uno
dei bersagli più colpiti dalle Brigate Rosse.
Il ragazzo ribelle, dopo aver rifiutato il
servizio militare, dopo aver scontato almeno tre anni di carcere, si era forse
arruolato come volontario in quel gruppo eversivo?
Negli anni di piombo i capi delle Brigate Rosse
rivendicarono l'assassinio di molte persone. Tra queste:
Vittorio Bachelet (professore)
Massimo D'Antona (dirigente)
Aldo Moro (politico)
Ezio Tarantelli (economista)
Girolamo Tartaglione (magistrato)
Walter Tobagi (giornalista)
Guido Rossa (sindacalista)
77.
UN GIRO SULLA GIOSTRA
(Luciano Ivaldi)
Lo Sten. Enrico Casalegno era un ragazzo buono
come il pane. La prima domenica dopo l'arrivo delle reclute, toccò a lui
svolgere il servizio di ufficiale di picchetto al CAR di Bra.
Non essendo ancora in grado di distinguere i
gradi dei superiori, agli alpini in erba venne negata la libera uscita. Di
questa restrizione essi si dolsero perché, in quel giorno festivo, avrebbero
voluto girovagare in Langa e Monferrato, sulle colline che in seguito l'Unesco
avrebbe dichiarato “Patrimonio dell'Umanità”.
Per vincere la noia in quel caldo pomeriggio,
alcuni militari si sedettero all'ombra dei platani con un libro in mano, altri
accesero la radiolina per ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”, i più
si ritrovarono a cazzeggiare.
Enrico Casalegno, dopo una pennichella consumata
sulla brandina della stanza riservata all'ufficiale di picchetto, uscì in
cortile per sgranchirsi le gambe. Poi imboccò lo scalone che conduceva alle
camerate e, in fondo ad un corridoio, vide alcune reclute che si intrattenevano
in ordine sparso.
Si avvicinò, erano una decina. In quell'istante
da una camerata uscì un giovane alpino che con movimenti goffi si allacciò la
cintura dei pantaloni.
“Tenente, se vuole fare un giro sulla giostra,
per lei è gratis”, disse il più furbo della compagnia nel tentativo di limitare
i danni.
Enrico irruppe all'interno della camerata e su di
un letto vide una giovane donna nuda, in posizione supina, le gambe leggermente
divaricate. Con sguardo furtivo ne notò il seno turgido e le cosce ben tornite.
“Che cazzo ci fai qui?” sbottò.
La prostituta si coprì il seno con le mani,
rannicchiò le gambe per nascondere la vulva e guardò di sottecchi
quell'ufficiale alto quasi due metri, con le spalle larghe e i baffi
minacciosi.
“Hai cinque minuti per sparire”, urlò l'ufficiale
alla sgualdrina che aveva i capelli neri e arruffati come i corvi d'inverno e
la pelle bianca e luminosa come la luna d'estate.
Poi uscì dalla camerata e ordinò ad un caporale
di inquadrare sugli attenti, nel cortile della caserma, quegli incoscienti che
tanto avevano osato per soddisfare le loro pulsioni giovanili.
Dopo dieci minuti tornò sul luogo del delitto,
della prostituta non vi era traccia. Andò alla porta carraia, si trattenne al
Circolo Ufficiali e con comodo ritornò sul piazzale della caserma per guardare
negli occhi quegli scriteriati.
Il sole ardeva in un cielo senza nubi e le
giovani reclute, non ancora temprate alla vita militare, avevano i visi
paonazzi e gli occhi che imploravano pietà. Essendo sugli attenti, non potevano
muovere neppure la punta del naso. Gocce di sudore scivolavano dalle fronti
alle gote prima di cadere sull'asfalto rovente e svanire nell'aria.
Il gigante buono squadrò uno a uno quegli
scapestrati e, mosso da compassione, ordinò al caporale di porre fine alla
punizione.
Poi si avvicinò all'alpino che gli aveva offerto
il giro gratis sulla giostra. “Qual'era la tariffa?” gli chiese sornione. “500
lire a testa, una diaria” disse il furbetto. “E com'è entrata in caserma?”
aggiunse l'ufficiale. “Dal portone principale, mentre lei faceva la pennichella!”
fu la risposta che mise fine alla conversazione.
78.
MAL DI NAIA
(Sandro Bazurro)
Il CAR di Cuneo, un mondo nuovo, racchiuso dietro
un muro, dove ragazzi di vent'anni entravano portando i loro problemi, spesso
sottovalutati, una realtà di vita che avrebbe dovuto contribuire a trasformarli
in uomini, un aiuto educativo complementare alla formazione del cittadino e del
buon padre di famiglia, pilastro della nuova società.
Era arrivato al CAR di Cuneo con il primo
contingente reclute 72'. Una persona educatissima, sensibilissima, si capiva
subito che aveva avuto una educazione superiore.
Proveniva da una famiglia benestante di
floricoltori della riviera ligure, un bel ragazzo, serio e motivato.
C'era però nel suo sguardo un qualcosa di
inquietante, insieme con una profonda tristezza, un male di vivere, vi si
leggeva una tacita richiesta di aiuto. Certe cose spesso a quei tempi venivano
sottovalutate, anzi si diceva che la naia faceva bene e così era stato
probabilmente l'unanime giudizio della commissione di leva, quando lo avevano
assegnato alle truppe alpine. Ad onor del vero lui stesso non aveva mai voluto
sottrarsi ai suoi doveri di uomo e di cittadino, lui stesso era convinto che la
naia gli avrebbe fatto bene, avrebbe risolto se non tutti almeno parte dei suoi
problemi e ce ne volle a convincerlo, ultimati i mesi del primo ciclo di
addestramento, ad accettare un impiego in fureria. Cercammo tutti di metterlo a
suo agio, dai commilitoni al comandante di squadra, a quello di plotone, fino
al comandante di Compagnia, degnissima figura di ufficiale e di buon padre di
famiglia. I suoi genitori, convocati a colloquio ci descrissero brevemente i
problemi del loro ragazzo; essi avevano sempre cercato e cercavano di
spianargli la strada in ogni modo, ben consci della lotta interiore che questo
giovane stava vivendo.
Aveva una
bella automobile parcheggiata innanzi la Caserma, gli avevano affittato un
piccolo appartamento in città per trascorrere serenamente i momenti di libera
uscita, ma sembrava esserci qualcosa che lo tormentava all'interno.
Ricordo che spesso mi intrattenevo con lui a
parlare dei suoi interessi, della vita militare che asseriva essere per lui era
uno sfogo, un impegno che lo distraeva dai suoi pensieri, un toccasana per la
sua fragilità, per la sua solitudine e la sua incertezza di vita, i suoi sensi
di colpa, cercando nel mio piccolo di fornirgli le risorse necessarie a
completare le sue, nei momenti di maggiore necessità.
Scrupoloso nel suo lavoro, improvvisamente si
abbatteva, ed io dovevo improvvisarmi psicologo, impreparato per un compito più
grande di me e disperato della mia incapacità, ma non volle mai essere
considerato un malato, anzi guai a parlare di ospedale militare, l'unica via
verso il congedo anticipato.
Comunque tutto proseguiva tra alti e bassi, di
pari passo con le esercitazioni delle reclute al greto Gesso, il torrente che
scorre in fregio alla città, ove la CAM Tridentina e le altre Compagnie del
Battaglione effettuavano le loro esercitazioni,
mettendo in atto i vari passi del gatto, del gattino, il percorso di
guerra, l'addestramento formale per il giuramento, l'istruzione basilare
propedeutica al lancio della bomba a mano, ovvero insegnare a lanciare pietre
nel rio, scoprendo con orrore che qualcuno dei ragazzi non aveva mai lanciato
pietre , nemmeno nell'acqua. Immaginiamoci poi lanciare la bomba a mano SRCM,
cose dell'altro mondo, da inorridire.
Fu proprio dal ritorno da una delle suddette
esercitazioni sul fare del mezzogiorno, una bella giornata di sole, di quelle
che ti fanno sentire in grado di conquistare il mondo, che entrati in Caserma,
dalla porta carraia, ed arrivati nei pressi della CAM Tridentina, vedemmo un
capannello di persone, in atteggiamento inequivocabile. La prima cosa che mi
venne in mente fu proprio quella, terribile, che popolava i miei incubi. Quel
caro ragazzo, quell'alpino, quell'essere che stava combattendo la più tremenda
delle battaglie, aveva posto fine al suo male di vivere, così semplicemente,
scavalcando il davanzale della fureria, e senza un attimo di ripensamento giù a
capofitto fino ad incontrare l'asfalto del cortile antistante il suo Reparto,
senza un grido.
Lascio ad ognuno immaginare la pena tremenda che
la tragedia ebbe su tutti, dall'ultimo degli alpini alle più alte sfere della
gerarchia militare.
Alla base di tutto c'era il fallimento di tutto
ciò in cui fermamente si credeva a quel tempo: un po' di naia fa bene a tutti e
guarisce tutti i mali.
Invece lo Stato aveva fallito, non aveva saputo
proteggere uno dei suoi ragazzi che gli erano stati affidati, non aveva saputo
aiutarlo a guarire dal suo male e quel gesto estremo che il poveretto aveva
voluto si concretizzasse proprio nella sua Compagnia, nella sua Caserma, stava
a testimoniarlo, era l'ultimo suo silenzioso rimprovero al sistema.
79.
LE VALLI DEL NATISONE
(Evelino Mattelig)
Luglio 1971.
Originario delle Valli del Natisone, ai confini
con la Slovenia, arrivai alla Scuola Militare alpina affascinato dalle
montagne che circondavano la Valle d’Aosta; mai viste prima, così possenti,
alte, sovrane; ignaro che nei sei mesi successivi le avrei frequentate con
ogni situazione climatica nell’attività della scuola, caratterizzata da
disciplina, studio e grande attività fisica, prima di essere destinato ai
reparti operativi. Fu un esperienza di vita indimenticabile, da augurare a
tutti i giovani, che mi fece innamorare della montagna; un amore che lo porti
indissolubilmente con te per tutta la vita, come una droga e non puoi farne a
meno; ti è anche di grande aiuto nei momenti difficili e, posso confermalo,
anche quale speranza durante le malattie.
Una sera dopo il contrappello, con altro
compagno di camerata, decidemmo di restituire uno scherzo ‘najone’ subito dagli
allievi di un'altra camerata. In silenzio nella notte posizionammo una
bacinella colma d’acqua sopra la porta d’ingresso della loro camerata, in
modo che il primo che fosse uscito avrebbe ricevuto una bella doccia
rinfrescante. Sfortuna volle che proprio quella sera il sergente di giornata
decise di ispezionare a sorpresa alcune camerate nel corso della notte e,
sfortuna nella sfortuna, decise di entrare anche in quella da noi presa di
mira, con la conseguenza che la doccia rinfrescante, da vestito, la ricevette
lui. Non poté, naturalmente, non informare il comandante della compagnia
dell’accaduto, il quale, la mattina seguente, dopo l’Alzabandiera che ogni
mattina, a buon ora, segnava l’inizio delle attività, chiese che gli autori
dello scherzo subito dal sergente, si presentassero fuori dallo schieramento.
Con il compagno di camerata mi feci avanti ed il comandante ci convocò a
rapporto nel suo ufficio per l’ora della libera uscita.
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La sera, puntuali dal comandante. Questi, che
purtroppo durante il servizio prematuramente è ‘andato avanti’ e di cui serbo
un indimenticabile ricordo per le sue alte qualità di lealtà, umanità oltre
che professionali, dopo l’inevitabile “ramanzina”, ci punì non con CPS o CPR
e che avrebbe potuto pregiudicare la nostra valutazione a fine corso, ma con
alcuni giri di corsa del perimetro della caserma (che era molto estesa!)
sotto il controllo dell’ufficiale di picchetto. Inoltre per una settimana non
ci fu concessa la libera uscita, rimpiazzata dal lavaggio delle marmitte e
dei vassoi che venivano utilizzati per il rancio. Stavamo uscendo dal ufficio
del comandante dopo averlo salutato come previsto dal regolamento, quando
questi disse: “Allievo ufficiale Mattelig Evelino”, prontamente mi girai,
sbattei i tacchi, mi misi sull’attenti e con tono fermo e deciso risposi
“comandi!” e lui: “Tu con questo cognome che termina con la ‘g’ non puoi
essere originario che delle Valli del Natisone in Friuli”. "Signorsì!"
risposi. Lui continuò: “Ma di che paese?”, con fermezza ed orgoglio ribattei:
“di Ponteacco”. Lui aggiunse: “Ponteacco, Ponteacco … ma di che borgo?
Petrina, Corene o altro?” Stupito e meravigliato dell’appropriata domanda,
guardandolo fisso negli occhi, sempre sull’attenti, prontamente risposi (non
saper rispondere al comandante significava altri giri di corsa della caserma
e non era proprio il caso), inventando al momento, senza alcuna esitazione
pronunciai: “di borgo butiga (negozio in dialetto sloveno, in quanto i mei
genitori gestivano il negozio/emporio del paese)” e lui, con un sorriso
appena abbozzato: “ma va là, va là,… vai a correre con il tuo amico e fatevi
passare i bollenti spiriti e poi divertitevi in cucina a lavare le marmitte
ed i vassoi!”
80.
ESSERE ALPINO
(Mario Lorenzi)
Ciao,
sono Mario Lorenzi, 64 corso AUC.
Ho esitato molto prima di scrivere
qualcosa perchè non mi piace, in generale, rievocare il passato.
A quel tempo io avevo 25 anni, ero
già sposato e mi mancava perciò la spensieratezza dei vent'anni.
Venivo da un pesantissimo corso di
laurea al Politecnico di Torino e la prima cosa che ho apprezzato è
stata l'attività fisica, alla quale avevo dovuto rinunciare per tanto tempo.
Mi piaceva (e tuttora mi piace) usare il corpo fino allo sfinimento e lì
avevo trovato pane per i miei denti. Mi piacevano le montagne, la vita
all'aperto, alzarsi presto al mattino, ecc ecc.
Essere un alpino non mi dava una
sensazione particolare: avevo cercato di esserlo soprattutto per poter
restare vicino alla mia città (e a mia moglie).
Nel periodo successivo, da
sottotenente, il mio atteggiamento è cambiato; ho capito quale può
essere la generosità degli alpini, avendo avuto la fortuna di appartenere
alla compagnia del capitano Albarosa e del maresciallo Zampa, due persone
meravigliose morte in quel maledetto incidente di elicottero.
Con loro ho capito che essere
alpino vuol dire soprattutto
essere una persona che si impegna per soccorrere chi è in difficoltà,
la componente militare essendo un aspetto secondario.
Non ho ricordo di molti episodi
specifici del periodo del corso AUC; l'unico che mi viene in mente
riguarda il capitano Z... ( non ne ricordo il nome, mi sembra iniziasse per
Z) che era subentrato verso la fine del corso. Lui ci strapazzava e ci
portava volutamente al limite della sopportazione, evidentemente per
vedere come reagivamo.
Ricordo che un giorno
ci aveva radunati e aveva urlato più volte "Va tutto bene? Non c'è
nessuno che abbia qualcosa da dire?", sapendo perfettamente che "non poteva
andare bene". All'ennesimo urlaccio io, tremando come una foglia, parlai
e dissi qualcosa del tipo "Lei ci tratta troppo malamente".
Questo
episodio mi valse il massimo di attitudine militare, come il capitano
Z... ebbe a dirmi successivamente.
81.
FREGATO (una piccola soddisfazione per entrambi)
(Roberto Braggion)
Subito dopo che i ìvecchi’ facenti parte della
truppa della 76^ Compagnia di stanza a Chiusaforte, finita la naja, se furono andati, i loro posti furono
presi, nel giro di un paio di giorni, da altrettanti ‘civili’.
Ben presto sarebbero diventati dei bravi militari
a tutti gli effetti.
Ma la cosa non era automatica. Tutti questi bravi
ragazzi dovevano passare attraverso la trafila che, come noi, i loro Ufficiali,
ci eravamo sottoposti a nostro tempo: addestramento alle armi, alla disciplina,
alla fatica, ai servizi, alle marce e a tutto il resto di fatiche che il
Servizio Militare prevedeva.
Ogni Sottotenente aveva il suo Plotone da seguire
e ogni sera, nell'ufficio del Capitano, avevano luogo le riunioni per fare il
punto sulla situazione. Tutto procedeva
bene: erano tutti bravi ragazzi con desiderio di imparare. Si erano tutti
affiatati fra loro in breve tempo e portavano avanti il programma di istruzione
aiutandosi a vicenda.
Tutto a posto, insomma.
Invece no.
Fra i miei alpini c'era il soldato Colameo.
Abruzzese di nascita e di cocciutaggine. S'era messo in testa che lui, con la
naja, non voleva averci niente a che fare. Anzi, doveva fare qualcosa “contro”.
Per carità, buono come il pane, tranquillo e
gentile ma, tutto quella che faceva, era l'esatto contrario di quello che
facevano gli altri. E con la ferrea volontà di esibire questa sua diversità.
Questo in tutte le materie di istruzione: ma una
su tutte era quella che prediligeva boicottare. Ed era marciare con la
compagnia in preparazione di una parata.
Ad ogni ‘passo’ il suo piede batteva subito dopo
quello degli altri, era sempre disallineato, girava la testa sempre quando
doveva stare ferma, e così proseguendo.
Per il suo carattere mite era ben tollerato dai
suoi commilitoni; ma molto meno dal mio Capitano.
Prima velatamente e poi sempre più chiaramente mi
fece capire che avrei dovuto, in qualche modo, risolvere il problema.
Altrimenti ci avrebbe pensato lui.
Devo confessare che la cosa cominciò a
preoccuparmi: in quella sua ribellione c'era qualcosa di strano. Ad ogni
marachella che combinava il suo sguardo cercava di incrociare il mio ma con
leggera sfida e allo stesso tempo dispiacere nei miei confronti: mi sembrava di
interpretarla come una scusa: “mi spiace per te ma io ho la mia missione
antinaja da compiere”.
Queste sfide a me piacciono e la raccolsi in
pieno. Mi interessava molto che il ‘mio’ alpino non si facesse del male da solo
e non andasse incontro a brutte conseguenze.
Cominciai a ‘marcarlo stretto’, anche cercando di
dialogare con lui in tutti i momenti possibili, senza risultato. Ma la data del
parata si avvicinava. E il Capitano fremeva sempre di più. A seguito delle mie rassicurazioni che tutto
sarebbe filato liscio sfoggiò una calma “pericolosa” come a dire che eventuali
guai li avrei pagati io.
L'idea mi venne lo stesso giorno della parata.
Era l'alpino Colameo piccolo di statura, anche se
non fra i più piccoli, e nella predisposizione dell'allineamento della
Compagnia gli assegnai comunque il primo posto, quello più in vista.
Sarebbe stato visto per primo e in pieno da tutto
il pubblico, alti Ufficiali, un Generale, ma, soprattutto, dalla sua morosa e
dai suoi famigliari che erano arrivati da un paesino disperso della provincia
de L'Aquila a Chiusaforte e come lui mi aveva confidato in un momento di tranquillità.
Inutile dire che marciò a tempo, impeccabile
nell'allineamento e nella marziale postura che assunse durante tutta la parata.
Soprattutto con lo sguardo felice. E dopo il suo atteggiamento cambiò.
Sicuramente fra i due il più felice fui io quando
il Capitano, qualche tempo dopo, chiese il mio parere sulla sua decisione di
promuovere l'alpino Colameo a Caporale ed affidargli l'incarico di
addestratore.
82. APPUNTI (Aldo Perron)
Prologo
18 gennaio 1970, Wiblingen Baden Wuettenberg,
Repubblica Federale di Germania.
Ore 7:00. Squilla il telefono, ma non è il
capoturno della stazione di pompaggio di Altheim, bensì mia madre agitatissima
che mi annuncia la visita dei carabinieri per notificarmi la chiamata alle
armi! Mi fiondo a Torino al distretto e riesco a presentare i documenti per il
corso AUC. Si chiude un periodo splendido della mia vita ed inizia un nuovo
capitolo.
Luglio primo impatto
Il giorno 4 arrivo ad Aosta e nonostante la mia
esperienza di vita e professionale vengo preso dalla sindrome della recluta
ovvero il disorientamento che ti fa muovere goffamente come una foca.
L'alba successiva serena e molto fresca mette in
scena l'alzabandiera: lo spettacolo del Tricolore che sale lentamente con sullo
sfondo l'Emilius mi commuove e così sarà per i prossimi sei mesi
Agosto giuramento
Passato circa un mese di addestramento formale e
marcia in ordine chiuso siamo quasi pronti alla sfilata con i plotoni
inquadrati in sestiglie e con tutte le manovre con il fucile, fino alla marcia
a spall'arm con il tenente colonnello cerimoniere che controlla l'allineamento
delle baionette con un'asta quadrata di legno e fino a quando l'allineamento
non è perfetto ci guadagniamo un altro giro di cortile.
A sera si vedranno chiaramente le scie lasciate
dagli scarponi, quasi come nell'autodromo dopo una corsa!
Un episodio curioso avverrà durante un passaggio
davanti al corpo di guardia: ad un certo punto si sente la voce dello sten.
(Malfa?) che si strozza il mio plotone sbanda allargandosi facendomi vedere un
paio di cosce femminili superbe scoperte fino all'inguine con seguente risata
della cameriera del bar a fianco della caserma. Come un plotone di allievi
viene sbaragliato non dalle armi, ma da una visione celestiale di grazie
femminili.
Il giorno del giuramento sarà un grande festa con
tutte le famiglie diffuse in tutta la valle: forse sarà l'ultimo giorno
spensierato del corso poiché inizierà l'addestramento duro specialmente per noi
fucilieri.
Settembre, ottobre
In questi mesi rimaniamo sempre meno in caserma
con marce, addestramento a quota 801, poligono del Buthier, pattuglie nei
dintorni di Aosta.
Naturalmente ci saranno tutti i servizi di corvée
e di guardia per cui specialmente i picchetti toglieranno molte ore di sonno.
Unici giorni di riposo, tre, a seguito della
donazione del sangue e della famosa puntura polivalente durante la guardia
all'eliporto di Pollein il capitano Elia ci offrì il caffè: lo ricordo con
commozione poiché a maggio del 1973 perirà con altri sei a causa della caduta
dell'elicottero di ritorno da La Thuile
Novembre
Siamo pronti per il campo invernale ed il tempo
diventa decisamente invernale con neve e freddo sotto zero.
Io e Bazzurro (che ha descritto in modo anonimo
l'episodio) siccome nel cuore della notte ci svegliavamo per andare a mingere
una notte prima della partenza, quando i mortaisti erano già pertiti, ci
alziamo ci guardiamo e senza proferire parola saliamo al primo piano, prendiamo
il tavolo dell'allievo di giornata e lo portiamo nel sottotetto dove rimarrà alcune
sere dopo prenderemo Brociero già addormentato alle sette di sera con il letto
e lo porteremo in cortile, ma siccome iniziò a nevicare e Ernesto non dava
segno di svegliarsi quando ormai era coperto da due dita di neve fresca
precipitosamente lo recuperiamo e quando è nuovamente in camerata si sveglia e
chiese cosa fosse successo.
Dicembre
La Thuile e fine corso il campo si svolse in un
ambiente completamente innevato con dei panorami fantastici, che mi davano
forza di continuare anche quando ero quasi al limite, dovendo salire più di
tutti in quanto dovevo portarmi ‘mariagrazia’ sulla postazione di sinistra:
unico ricordo una fotografia in bianco e nero in cui si vede il plotone
schierato prima dell'attacco a fuoco.
Il ritorno ad Aosta attraverso il colle S. Carlo
rimarrà memorabile: dopo circa quarant'anni Folegnani mi riconoscerà e si
ricorderà il mio cognome.
L'ultima settimana di corso rimaniamo
praticamente consegnati, poiché qualcuno pensò bene di appendere al pennone
della bandiera l'albero di Natale dei figli! Inoltre si verificò che molti di
noi non vollero partecipare al regalo tradizionale per cui fummo sottoposti a
diverse pressioni a tutti i livelli gerarchici.
Comunque il 23 caricata la macchina partii da
Aosta con destinazione al secondo reggimento dove sarò destinato alla compagnia
Bolzano con Angelo Rossi.
83.
MARINELLA, ROBERTO E BARBARA
(Marinella Salati)
Sembrava il racconto della campagna di Russia.
In una fredda mattina di gennaio il battaglione
partì per i campi invernali, una missione dura ma esaltante.
Negli anni successivi, quando Roberto parlava di questa
avventura, essa veniva sempre più arricchita di particolari che la rendevano
straordinaria, eccitante, impossibile da dimenticare, quasi eroica.
Nel ricordo, tra gelide notti passate di guardia,
si alternavano momenti di puro eroismo, dove gli alpini, chiamati a difendere i
valligiani dai disastri dell'inverno, venivano calati dall'elicottero in mezzo
a cumuli di neve per portare in salvo uomini e animali.
Roberto esprimeva in questo modo, forse un poco
esagerato, tutto il suo amore per il corpo degli alpini, per la Valle, per
quella che considerava una esperienza straordinaria, unica, che gli aveva
aperto la mente e il cuore e della quale aveva sicuramente grande nostalgia.
Terminata l'emergenza dell'inverno, quando la
neve e i ghiacci erano solo un ricordo, la Valle si vestiva di colori, sempre
più decisi e intensi.
Passati i mesi primaverili, veniva il momento dei
campi estivi. Roberto amava moltissimo la montagna e la Valle d'Aosta che aveva
frequentato fin da bambino con suo padre, egli stesso Alpino che aveva
partecipato alla campagna di Russia.
Proprio durante i campi estivi, tra tappe
quotidiane, nonostante la fatica e il sudore, l'amore per i monti e i boschi
trovava la massima soddisfazione.
Quell'anno, però, c'era un importante novità per
Roberto: sua moglie Marinella aspettava un bambino, che sarebbe nato proprio
nel bel mezzo dei campi estivi.
Fu un periodo piuttosto complicato per i due
giovani sposi. Marinella aveva dato, due settimane prima della data prevista
per il parto, il quarto e ultimo esame orale di letteratura tedesca con ottimi
risultati ma con grande fatica ad entrare nel banco, non previsto per gestanti
al nono mese.
Roberto faceva tappe giornaliere su e giù per le
valli, non sempre poteva telefonare alla moglie e la cabina telefonica non era
sempre a portata di mano. Se fosse accaduto qualcosa di imprevisto, come
raggiungerlo in tempi brevi?
Il padre di Marinella, direttore di una delle
molte filiali della Sip, si incaricò del problema. Furono avvisati i centralini
dei paesi dove Roberto avrebbe sostato per la notte. Arrivò il momento. Il
futuro papà, nel timore di non arrivare per tempo, aveva negli ultimi giorni,
escogitato un trucco: aiutato da tutti i commilitoni era riuscito a portare la
macchina nella località più vicina, spostandola via via.
Non si sa esattamente come, ma, alle prime
avvisaglie, messi in moto i complicati meccanismi di avvertimento, Roberto
arrivò in un tempo considerevolmente breve a casa.
Falso allarme. Ma, come spesso succede, poche ore
dopo, l'allarme risultò veritiero e l'alpino Salati divenne padre di una
bambina, alla quale venne dato il nome di Barbara, protettrice dei montanari.
84. DUE PILLOLE (Luciano Ivaldi)
Un
bocconiano atipico
Renato Barberis arrivò ad Aosta da Quattordio, il
paese dove viveva con i genitori in un bel
cascinale di campagna lungo la statale Asti - Alessandria.
Aveva un grande rispetto per la natura, amava la
vita all'aria aperta e nell'orto di casa coltivava ogni tipo di verdura.
In autunno si alzava all'alba per andare a
cercare i funghi nei boschi del Sassello, sui monti che marcano il confine tra
il Piemonte e la Liguria.
Era un AUC intelligente e riservato, sempre pronto
ad aiutare i compagni. La zappa e la vanga avevano irrobustito il suo corpo,
saliva sui pendii senza affanno portando in spalla lo zaino e il Garand.
Terminato il Corso ad Aosta andò a prestar
servizio nella brigata Julia, a Tarvisio, un paese così lontano da Quattordio
da far pensare che il nostro ufficiale non avesse santi in paradiso.
Laureato alla Bocconi con compagni di corso come
Philippe Daverio e Marco Tronchetti Provera, era così diverso dallo stereotipo
di quei giovani rampanti, da rinunciare ad una promettente carriera nella City
londinese per un impiego in banca vicino al suo paese.
Il gagliardetto
Il gagliardetto del 64° AUC sventola per merito
degli ufficiali alpini che, partiti da Aosta nel lontano 1972, rispondono
“presente!” alle adunate, ai raduni e alle commemorazioni.
Franco Zanin, Evelino Mattelig, Giuliano Secchi e
Angelo Soave sono gli alfieri di questo gruppo virtuoso.
Franco è la memoria storica del 64° e ricorda
nome, cognome e numero di camerata di tutti i suoi compagni di Corso.
Evelino ha cercato e ritrovato quei ragazzi che,
diventati adulti, si erano persi di vista.
Giuliano notifica gli eventi e aggiorna la lista
dei presenti e degli assenti.
Ogni anno Angelo invita i compagni di Corso a
Bruno, sulla collina della chiesetta della Misericordia (sec. XVI) dedicata
alla Protezione Civile.
Il gagliardetto del 64° AUC sventola per merito
degli alpini che rispondono “presente!” e rende omaggio ai compagni di Corso
che sono “andati avanti”.
85.
IN
RICORDO DI FRANCO CASATI
(Franco
Rizzo)
Sensibilizzato da Sandro Bazurro, a sua volta mosso da
input di Paolo Moneta, circa l’opportunità di un doveroso ricordo dei nostri
compagni andati avanti, voglio qui ricordare un caro amico oltre che compagno
del 64° che ho avuto modo di frequentare anche e soprattutto nella vita civile.
Con Franco Casati abbiamo vissuto fianco a fianco la
seconda parte del corso in quanto entrambi mortaisti ed appartenenti allo
stesso plotone seppure in camerate diverse, poi siamo stati assegnati allo
stesso Reggimento, il 5° quando dopo il giuramento da ufficiali al comando di
Bolzano le nostre strade si sono separate: lui al Battaglione Edolo a Merano ed
io al Battaglione Tirano a Malles Venosta.
Solo diversi anni dopo la naia, grazie a conoscenze
comuni, ci siamo ritrovati ed abbiamo preso a frequentarci anche con le
famiglie, trascorrendo insieme serate a cena (Franco era un ottimo cuoco) e al
cinema (sua grande passione oltre all’hobby del collezionismo di soldatini di
tutte le epoche che dipingeva a mano) o week end a casa mia in campagna, nonché
qualche “rancio alpino” del mercoledì al Gruppo ANA di Genova. Abbiamo
partecipato insieme agli incontri del 64°ad Aosta, Breganze, Bassano e Lavagna
e ad alcune Adunate Nazionali.
Abbiamo pertanto avuto modo di conoscerci meglio e da
parte mia apprezzare la bontà d’animo di Franco che traspariva dal suo
attaccamento alla famiglia e dal sentimento di amicizia e fratellanza Alpina
che manifestava, che mi ha fatto molto affezionare a lui.
DI Lui mi ha colpito profondamente la sua compostezza
nell’ultimo periodo della sua vita, nella consapevolezza dell’ineluttabile, che ho potuto
constatare in particolar modo in occasione di una cena a casa sua sotto Natale
2010 quando già le cose volgevano al peggio.
A febbraio 2011 Franco ci ha lasciato e noi genovesi
del 64° lo abbiamo salutato insieme.
86.
UNA
MONTAGNA … DI RICORDI
(Giuliano
Levrero)
Giunto alla Testafochi all'inizio di gennaio
1972, comandava il Battaglione l'allora Tenente Colonnello Cesare Di Dato:
persona coerente, corretta e comunque tranquilla, ma giustamente severa.
Questi, terminato il servizio come Generale di Brigata, sul finire degli anni
2000 divenne direttore de “L'Alpino”, carica che tenne per diversi anni.
Per inciso, si narrava che, quando succedeva in
caserma qualcosa che 'non andava', chiamasse al telefono l'Ufficiale di Picchetto
dicendo: <Sono Cesarino!>; pronto, il povero Sten scattava sull'attenti
rispondendo: <comandi signor Colonnello ….>, caricandosi sul groppone
ogni pesante rimprovero.
Passarono i mesi sino a quando si verificò il
naturale avvicendamento al comando dell'”Aosta”.
Pochissimi giorni prima del commiato, Di Dato
radunò al Circolo Ufficiali diversi suoi amici, pari grado e non, per
organizzare la festa di addio; anzi chiamò qualcuno, che conoscevo di fama,
anche da Torino e dintorni. Casualmente, io e l'amico Sten Franco Garabello
della mia Compagnia, ci trovavamo lì, tanto che anche noi fummo invitati alla
sua festa!
I 'saluti d'addio' furono celebrati,
piacevolissimamente, una sera, in un night club di Saint Pierre da dove uscimmo
TUTTI molto contenti e soddisfatti....per l'ospitalità.
Gli succedette il Tenente Colonnello Pierino
Monsutti.
Del Colonnello Monsutti serbo con grande piacere
e onore una lettera del 29 febbraio 1988 che mi inviò da Padova a seguito di
mie felicitazioni quando divenne Generale Vice Comandante della 'Regione
Militare Nord Est', che recita:
“Caro Levrero, mi ha fatto molto piacere ricevere
il Suo scritto e ricordare i vecchi bei
tempi del Battaglione “Aosta”.
La ricordo benissimo e la ringrazio per le Sue
parole, tanto gradite, anche perché mi giungono da un collaboratore validissimo
quale Lei è stato, in ogni situazione nell'attività e nella vita di
caserma. ….. ecc.”.
Cambiando il Comandante,
comunque, cambiò anche 'l'aria' che si respirava in caserma.
Era il periodo in cui il mio Capitano Francesco
Albarosa, che non ebbi più modo di vedere e salutare causa la tremenda
disgrazia occorsagli assieme ad altri e di cui ho già parlato, era stato con
alcuni del nostro Battaglione aggregato al “Susa” per le imminenti manovre NATO
che si sarebbero svolte in Norvegia.
Essendo lo Sten più anziano rimasto, divenni
quindi Comandante di Compagnia: la vita e le attività divennero maggiormente
onerose, complesse e rischiose.
Quasi tutte le mattine ero a rapporto
nell'ufficio del Comandante per disposizioni di ordine generale e particolare
circa la Compagnia che stavo comandando assieme a Traversone del 65° e Vissà
del 66° Corso.
Il nuovo Comandante l'”Aosta” aveva la
consuetudine di dormire pochissimo, quindi era spesso 'in giro' per la caserma,
tant'è che la guardia e l'Ufficiale di Picchetto erano continuamente all'erta.
Io dormivo in una camera posta al primo piano
sotto le camerate della 42^, appositamente sistemata ed arredata dal mio
Capitano ed a disposizione degli Ufficiali; per raggiungerla dovevo
necessariamente attraversare in diagonale il piazzale, non potevo assolutamente
defilarmi.
Molte volte la notte giungendo tardi, trovavo il
piazzale illuminato, la guardia schierata sull'attenti ed il Colonnello che
parlava con l'Ufficiale di Picchetto. Accorgendosi della mia presenza
licenziava il picchetto e si intratteneva a parlare col sottoscritto
passeggiando per la caserma.
Ricordo che le prime volte chiedeva pareri circa
i possibili varchi da cui gli alpini avrebbero potuto scavalcare il muro di
confine per 'andare in fuga', soffermandosi zona per zona per la valutazione
(punti ben conosciuti da tutti noi, ma tenuti sempre segreti!). A volte
ragionava sulla fattibilità di operare per migliorare l'ordinamento e la vita
di caserma; a volte si parlava della mia vita futura. Era senza dubbio
piacevole ragionare con lui, ma la stanchezza ed il sonno aumentavano ad ogni
passo.
Comunque, ogni volta che lo incontravo la sera,
terminava la discussione dicendomi: <Lei Tenente è in gamba, ci pensi
seriamente, ci pensi, abbiamo bisogno di persone come lei! Sono sicuro che
farebbe un'ottima carriera>. Ed io ogni volta 'arrampicandomi sui vetri'
cercavo un argomentazione nuova per chiarirgli che oramai la mia vita era
decisa, avevo ventisei anni ed avevo studiato per fare l'architetto ... non era
facile distoglierlo da quell'idea fissa.
E giunse il giorno del termine del servizio di
prima nomina per noi del 64° corso.
Quel giorno era previsto per le undici un
rinfresco di commiato nel salone del Circolo Ufficiali.
Annusando già aria di casa ed avendo
preparato precedentemente le valigie, la mattina decisi di non presenziare
all'alzabandiera, ma di starmene tranquillamente a dormire sino
all'appuntamento per il rinfresco.
Alle otto e mezza circa bussarono
alla porta: era un piantone che mi avvisava di recarmi urgentemente dal
Colonnello. Staccando diversi 'moccoli' e pensando: “ma cosa dovrà ancora
dirmi?”, mi preparai il più velocemente possibile e raggiunsi il suo Studio.
Mi fece accomodare e mi dette
disposizioni precise e puntuali facendomi raccomandazioni per come avrebbe
dovuta essere condotta la Compagnia da parte del collega che mi avrebbe
sostituito da quel momento sino al ritorno del Capitano Albarosa, ancora
trattenuto in Norvegia.m
La 'lezione' durò talmente tanto che
il Colonnello ed io giungemmo al Circolo per il 'rinfresco' con quasi mezz'ora
di ritardo.
Dopo il rinfresco ed il pranzo
caricai l'auto, compresa ...... una gabbietta con un 'verdone' regalatomi da un
mio caporalmaggiore, e tornai finalmente e definitivamente a casa, nonostante
tutto, con una …. montagna di ricordi e di nostalgia.
ALLA
MEMORIA DI FRANCO CASATI
(Sandro Bazurro)
Era un piovoso lunedì dei
primi giorni di marzo dell'anno 2009, quando ho visto per l'ultima volta
l'amico Franco Casati.
Un triste giorno, dove entrambi
eravamo a porgere l'estremo saluto ad un altro caro amico e collega, il
capitano Franco Gardella, capogruppo di Genova Centro, prematuramente andato
avanti dopo lunga e dolorosa malattia.
Al termine della
cerimonia funebre, mentre ero sulla via del ritorno, udii un'automobile
fermarsi alle mie spalle ed un colpo di clacson attirò la mia attenzione.
Era Franco che mi invitava
a salire per un passaggio. Accettai di buon grado anche se ero ormai nelle
vicinanze di casa, ma... sentivo di dover accettare quell'invito. Ci eravamo
già salutati all'uscita della chiesa ma mi andava di scambiare quattro
chiacchiere con un vecchio compagno di naja.
Mi confidò tra l'altro di
avere qualche problemino di salute, ma nulla più: “siamo alpini” mi disse
congedandosi, “abbiamo la pelle dura” e mi strinse forte la mano.
Ho avuto poi sue notizie
nel dicembre 2010, dal nostro giornale del gruppo di Genova Centro “Sei nappine
nuovo” allorquando pubblicò la sua foto in occasione del matrimonio della
figlia Franca, che nell'immagine abbracciava con grande dolcezza e compiaciuto
orgoglio di padre.
Poi le nostre strade si
divisero ancora, fino a quel terribile giorno di febbraio 2011, quando mi
giunse la notizia che Franco il capitano dott. Franco Casati, ci aveva lasciato
per andare avanti, verso il Paradiso di Cantore.
Ho conosciuto Franco alla
Scuola Militare, ma non ci frequentammo mai molto, lui alla camerata 16 ed io
alla 8, lui mortaista ed io fuciliere, lui al Battaglione Edolo a Merano ed io
al “Doi” a Cuneo, alla CAM Tridentina.
L'ho rivisto in seguito
da congedato, in occasione di un'esercitazione con l'UNUCI presso il “Primo
Reggimento Paracadutisti” impegnato in un lancio nella Piana di Cecina; per
l'occasione sfoggiava con fierezza un bel distintivo da paracadutista, brevetto
acquisito privatamente, che andava ad impreziosire il taschino destro
dell'uniforme.
Per il resto ci
frequentavamo con saltuari appuntamenti nel suo studio dentistico di Passo
dell'Acquidotto a Genova, o in quello di Via Caterina Rossi a Sestri Ponente ed
in verità erano sedute molto lunghe, in quanto tra una carie e l'altra
parlavamo di tutto, dai ricordi del periodo del militare, alla sua passione per
le uniformi, a quella per i soldatini di piombo, che lui stesso realizzava con
grande maestria.
Ricordo quella volta che
decantando la mia altissima soglia di sopportazione del dolore, mi propose di
devitalizzare un dente senza anestesia.
Stupidamente accettai la
sfida: non saprei descrivere il dolore tremendo di tale operazione, da lui condotta
con grande maestria, unita ad un pizzico di bonario sadismo, per interromperla
prontamente quando ebbe la meglio sul maledetto nervo malato. Ciò avvenne
esattamente poco prima che la sopportazione, avendo di gran lunga superato la
tanto decantata soglia del dolore, guidasse la mia mano destra ad impadronirsi
dei suoi attributi virili, per stringerli in una morsa, la cui intensità doveva
essere direttamente proporzionale a quanto stavo provando.
Il tutto fu prontamente
sistemato con un bel sorso di grappa friulana, attinto da una bottiglia
improvvisamente materializzatasi sul ripiano di un candido armadietto dello
studio.
Questa avventura andò per
gli anni a seguire ad accompagnare i nostri racconti ed i nostri ricordi, anche
in occasione di qualche cena, cui partecipammo nella Sede del Gruppo di Genova
Centro.
Questo era il nostro caro
Franco, simpatico e brillante compagno dei bei tempi che furono, che anche
nella vita borghese sapeva cogliere momenti di sano divertimento, tipici di una
fresca gioventù mai tramontata.
Il giorno del suo
funerale, tra le lacrime, la figlia Franca disse rivolta a noi, suoi compagni
di corso : “ non dimenticatelo il mio papà per favore, non dimenticatelo
mai!”...
Tranquilla cara, perchè
noi Ufficiali del 64° corso il tuo papà non lo dimenticheremo mai!
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ma proprio senza alcun dubbio siamo stati, lo siamo e saremo sempre un "grande 64 corso AUC".
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