i nostri contributi - parte II

33.
ADDESTRAMENTO ALLA RESISTENZA FISICA CON LE MARCE IN MONTAGNA
(Giuliano Secchi)

Non c'è dubbio che le dimensioni... contano. Di fronte ad allievi alti da m. 1,80 a m. 1,95 mi trovavo sempre in difficoltà anche nelle marce sul fondovalle. Loro, senza apparente fatica, facevano dei passi naturalmente lunghi e quelli come me, di altezza media, arrancavano anche quando si andava da Aosta a Pollein e si tornava in caserma, percorrendo meno di dieci chilometri.
Tra lezioni teorico-pratiche, studio sulle sinossi, addestramento formale e marce arrivò la metà di ottobre 1971. Le squadre ed i plotoni di assaltatori furono avvisati che il giorno successivo era in programma una marcia in montagna della durata complessiva di sei ore e mezza, con destinazione, se non ricordo male, Pila a m. 1814 s.l.m.
Molti incominciarono a preoccuparsi, andarono a leggere in bacheca e presero nota del materiale da mettere all'interno dello zaino. Durante la serata inserii nel mio zaino tutto ciò che era elencato, poi me lo misi sulle spalle e mi resi conto che pesava più di kg. 20. Fui tentato di alleggerirlo, ma mi trattenni, poiché era evidente che, se l'indomani fosse stata effettuata un'ispezione agli zaini, sarebbe stata impartita una punizione esemplare a quelli che si credevano "furbi".
Il giorno dopo ci fu la sveglia alle ore 6.00 ed alle 7.00 uscivamo dalla caserma, con lo zaino affardellato ed il fucile Garand. Andando in auto da Aosta a Pila ci sono da percorrere circa km. 18 su una strada, che sale con molta pendenza. Uscimmo dalla caserma (m. 583 s.l.m.) andammo in periferia ed imboccammo un sentiero inizialmente vicino alla strada asfaltata. Nella prima ora di marcia non sentii nessuno lamentarsi, passammo vicino a Charvensod senza problemi, poi il sentiero iniziò ad inerpicarsi con eccessiva pendenza almeno per me. In quei momenti desiderai non aver riempito lo zaino con tutto quello che era elencato in bacheca, a rischio di essere punito.
Essendo in marcia ormai da tre ore e mezza, mi sentii in forte difficoltà: non riuscivo a stare subito dietro al compagno che mi precedeva ed iniziai a rimanere un po' staccato. Qualcuno cercò d'incoraggiarmi, ma io arrancavo sempre di più, finché presi la gravissima decisione di lasciarmi cadere per terra, come fossi svenuto. Fui subito soccorso e un sergente ACS mi chiese se avessi bisogno dell'intervento di un'autoambulanza. Al mio diniego, un allievo prese il mio fucile, un altro più robusto (un vero montanaro) portò il mio zaino in aggiunta al suo, dichiarando poi che il mio era più pesante del suo. Dopo la mia defaillance, in mezzora di marcia giungemmo al culmine della salita nelle vicinanze di Pila, dove consumammo il rancio di mezzogiorno.
A tutti quelli che mi chiesero se fossi in grado di effettuare il percorso di ritorno, io risposi che stavo meglio e che avrei cercato di camminare fino all'arrivo in caserma. Alle ore 13.30 venne dato l'ordine "armi e bagagli in spalla!", allora presi il mio zaino ed il Garand e, siccome il percorso era quasi tutto in discesa, riuscii a tenere il passo degli altri ed a non restare distanziato fino in caserma. Mi aspettavo di essere convocato, invece nessun superiore mi chiese spiegazioni sul mio svenimento e non ci furono per me conseguenze disciplinari.


Sinceramente ho cercato di dimenticare tale episodio, che considero uno dei pochi fatti negativi della mia vita militare durata 15 mesi, più due richiami per aggiornamento. Se qualcuno lo racconterà ai miei familiari, io dichiarerò sempre che tale episodio non è mai avvenuto!



34.
PERNOTTAMENTO NELLE "TRUNE" AL COLLE  S. CARLO
(Giuliano Secchi)

Mi sembra di ricordare che era arrivata la fine di novembre 1971 ed in quel tardo autunno aveva già nevicato diverse volte sopra i 1000 metri di altitudine.
Mancavano pochi giorni all'inizio delle esercitazioni di fine corso e le squadre di assaltatori furono avvisate che dopo cinque giorni era prevista una permanenza notturna nei pressi del Colle S. Carlo a m. 1971 s.l.m.  Prima di tutto si dovevano costruire delle "trune", che erano dei ripari di neve ghiacciata a somiglianza degli igloo, che gli eschimesi (bontà loro) ci avrebbero permesso di copiare, senza violare i loro diritti di Copyright. Era poi previsto il pernottamento nelle trune stesse, anche se la temperatura fosse stata di 10-15 gradi sotto zero.
In pochi minuti si sparse la notizia e tutti fummo presi dal panico. Le reazioni furono imprevedibili ed inaspettate: alcuni allievi ufficiali dissero di voler telefonare al generale degli alpini di loro conoscenza, per far annullare tale prova di sopravvivenza; altri incominciarono a pensare di ammalarsi gravemente; altri ancora telefonarono ai familiari, invitandoli a trovare su qualche enciclopedia consigli pratici per sopravvivere a -10°; molti, infine, tristi ed abbattuti psicologicamente, commisero l'errore di cercare conforto e comprensione, telefonando alle loro madri. Tralasciando i toni delle lunghe telefonate nelle cabine telefoniche della caserma, o in quelle dei telefoni pubblici, dopo due/tre giorni incominciarono ad arrivare decine di pacchi con la scritta URGENTE-ESPRESSO, con all'interno maglie di lana, maglioni norvegesi, mutande lunghe di lana e calzettoni pesanti. Le nostre brave mamme non avevano ancora compreso che i loro "bambini", che avevano dai 20 ai 29 anni, non avrebbero potuto indossare maglioni e mutande lunghe di lana sotto il vestiario militare. A dire il vero, molti indossarono i calzettoni pesanti di lana (fecero bene) ed alcuni anche le mutande lunghe, ma quest'ultimi lo negarono.
Arrivò il fatidico giorno, uscimmo dalla caserma con gli zaini affardellati e con i nostri fucili Garand, ci recammo alla stazione ferroviaria di Aosta, salimmo su un treno, scendemmo alla stazione di Pré-St.-Didier, poi fummo trasportati con autocarri militari fino a La Thuile (m. 1450 s.l.m.), dove consumammo il rancio alle ore 11.30. Alle 12.30 fummo ancora trasportati sui mezzi militari, finché rimasero bloccati per la troppa neve e noi proseguimmo a piedi per 2 km. fino ad arrivare nelle vicinanze del Colle S. Carlo a m. 1971 s.l.m.
Ci dissero che in quel momento la temperatura era di -5°. Alle 13.30 arrivammo in un pianoro, dove lo strato di neve era alto circa cm. 80 e ci dissero che avevamo a disposizione soltanto tre ore e mezza, per costruire le "trune", copiando la forma a mezza sfera degli igloo eschimesi. Ci fu consigliato di avere uno spazio interno di m. 2,20 di diametro, in modo da poterci stare in due o tre allievi. Dopo aver ammucchiato gli zaini ed aver conficcato nella neve i calci dei Garand, prendemmo le baionette ed incominciammo ad intagliare la neve ghiacciata, ricavandone parallelepipedi non certo belli e perfetti delle misure di circa cm. 40x20x20 di altezza. Vicino a me c'era Ernesto Brociero e, dopo aver ammucchiato alcuni blocchi di neve ghiacciata, decidemmo di costruire una truna assieme. Dopo aver calpestato in maniera uniforme una superficie circolare di circa m. 2,20 di diametro, sistemammo i blocchi intagliati sulla linea della circonferenza. Man mano che avevamo altri blocchi intagliati a disposizione, li collocavamo sopra quelli sottostanti, con una progressiva inclinazione verso il centro. Anche nel suddetto lavoro ci rendemmo conto come fossero più importanti le capacità manuali e pratiche rispetto all'intelligenza teorica, che spesso va ad arrampicarsi sugli specchi e non riesce a risolvere con urgenza i problemi pratici.


Non avendo un disegno tecnico da seguire ed osservando l'avanzamento dei lavori degli altri, fu abbastanza difficile incastrare bene i blocchi nella sommità a cupola della truna-igloo, che all'interno risultò alta circa un metro e mezzo. Alle ore 17.00, quando incominciò a calare il buio e la temperatura era già a - 8°, io ed Ernesto mettemmo all'interno un po' di fogliame, poi sopra i due materassini parzialmente gonfiati, i sacchi a pelo, i nostri zaini ed i due Garand. Avevamo i guanti militari di lana bagnati fradici. Nella concitazione del lavoro, ci fu un aspetto positivo: non patimmo il freddo, a causa della tensione nervosa. Fu un'impresa memorabile, poiché da una parte c'era una battaglia contro il tempo, avendo a disposizione al massimo tre ore e mezza, dall'altra si doveva completare una costruzione, che era raffigurata sui libri di scuola, ma che mai era stata vista nella realtà. Chiedendo qualche consiglio ai comandanti di squadra, un caporal maggiore avvisò molti allievi di mettere, durante la notte, gli scarponi all'interno del sacco a pelo. Fu un consiglio seguito da molti, ma non da tutti.



35.
L’ESAME DI FINE CORSO
(Sandro Bazurro)

Il 15 di dicembre 1971 iniziarono gli esami di fine corso, dopo i quali ci sarebbero state assegnate le varie destinazioni.
Non che fossero esami difficilissimi, indubbiamente li consideravo impegnativi.
Cito per buona memoria gli argomenti di studio:
Regolamenti” era una materia abbastanza discorsiva, bastava studiare la “libretta” a memoria ed il gioco era fatto.
Lavori sul campo di battaglia” era una materia divertente, bastava ragionare ed impegnarsi un po'.
Topografia” richiedeva un po' di ragionamento ed allenamento, ma per quello ero abbastanza preparato, merito degli studi precedenti.
Armi e tiro” era una bella materia a mio giudizio; affascinante a chi piaceva smontare ed ahimè rimontare meccanismi senza che avanzassero dei pezzi, ma poi... le cose si ripetevano decine di volte.
Trasmissioni” non era la mia specialità e quindi non me ne preoccupavo molto, bastava la sufficienza.
Addestramento al combattimento” era una pacchia in confronto ad altre.
N.B.C.” non mi piaceva, anche se il saper indossare la maschera antigas correttamente e velocemente, poteva risultare indispensabile, in certe situazioni. Per fortuna al momento si era testato solo con innocue pasticche leggermente irritanti tipo fialette lacrimogene gettate sui tram all'epoca della scuola, a Carnevale. Molto utile comunque  in camerata, quando, complice la cena a base di uova e fagiolame, al momento di prendere sonno, il solito urlo squarciava il silenzio notturno ...” Gaaas..Gaaas!!.”
Scuola Comando”.. beh! era il nostro lavoro, come si faceva a non farsela piacere.
Arte Militare”, mah! C'era chi era più o meno portato, ma non era poi così ostica.
Infine quelle che consideravo minori, indubbiamente non meno importanti: contabilità, salmerie, nozioni di sci alpinismo, impiego.
Il fatto è che già era abbastanza difficile trovare qualcuno con il gusto della cultura militare, almeno così mi parve per la maggioranza, ma poi tanto più che pochissimo era il tempo previsto per lo studio; fatto sta che le prove di valutazione si rivelarono un ottimo incentivo per convincere gli allievi a sacrificare allo studio il prezioso tempo libero dalle esercitazioni e dai vari servizi di caserma.
Organizzandosi comunque in qualche modo, tutti riuscivamo a procedere bene anche nella parte teorica dell'addestramento.
Gli ultimi giorni di corso, dopo l'esperienza del campo invernale, si rivelarono provvidenziali per ripassare la “libretta”, colmare le lacune, appiccicare, almeno provvisoriamente, alcune nozioni indispensabili, che avrebbero permesso di passare gli esami e non buttare al vento sei mesi di duro lavoro.
Esaminato tra i primi, riuscii ad ottenere la promozione con tre palline bianche, ovvero con i pareri favorevoli di tutti e tre gli ufficiali esaminatori.
Tutti i compagni ebbero ottimi risultati, solo uno non venne dichiarato idoneo, quindi respinto ed immediatamente allontanato dalla scuola.
Terminerà la naja alla caserma Testafochi di Aosta con il grado di caporal maggiore.
Per la cronaca mi risulta che nel 2015 la caserma sia stata demolita, per costruire la nuova università della Valle d''Aosta.

A mio modesto parere, non credo fosse il peggiore del corso, anzi a quel tempo ritenni che il provvedimento fosse stato troppo severo ed ingiusto, ma nessuno chiese mai il mio parere.




36.
METTEMMO UN MAZZOLINO … NELLA CANNA DEL FAL
(Gianfranco Rebulla)

“Ci sarebbe da formare un coro, il coro del corso. Chi sa cantare, chi può istruirlo?”
Così, pressappoco, le parole del Comandante pochi giorni dopo essere giunti alla Scuola.
Avevo una modesta esperienza di direzione di coro con quello della mia parrocchia a Milano e avevo seguito un breve corso di impostazione della voce al canto e di direzione in un campo musicale in Canada, oltre ad avere cantato in un coro classico in un campo musicale a Fermo.
Così mi arrischiai ad alzare la mano, titubante un po’, non sapendo cosa mi sarei potuto aspettare, ma felice di impegnarmi in qualcosa che non mi era estraneo rispetto a tutto quello che alla scuola avevano fin dal primo giorno cominciato a inculcarci, cioè prepararci a… “fare la guerra!” Così, se non ricordo male, ancora prima di poter accedere alla libera uscita (è vero o no che siamo rimasti in quarantena per una quindicina di giorni?), cominciai la selezione delle voci includendo anche i colleghi del corso ACS.
Vennero in tanti e a tanti, Cerbero involontario, dovetti a malincuore dire che non andavano bene e alcuni, ancora oggi, non se ne sono fatta una ragione. Ma i prescelti erano il meglio! Mi procurai un paio di libri con i canti di montagna armonizzati dai grandi (Pedrotti, De Marzi, Benedetti Michelangeli) e cominciammo la preparazione. Eravamo una trentina e fui sorpreso subito dalla serietà, dall’impegno e dall’entusiasmo con cui, a sera, stanchi dopo una giornata di addestramento e rinunciando anche alla libera uscita, riuscimmo in breve tempo a impostare i primi due canti: “Quel mazzolin di fiori” e “Il Signore delle cime”.
Avevamo un appuntamento preciso per sbrigarci a essere pronti e cioè il saluto al 63° corso. Così, un po’ emozionati, ci accingemmo a cantare nell’aula magna piena di gente subito dopo l’esibizione del coro del 63°. Appena finito di cantare - finimmo con il mazzolin di fiori: “te lo vo-glio re-e-e-ga-laaaar" con il rallentando finale ben calibrato e il vibrato giusto - lo scatto in piedi del comandante della Scuola che esclamò: “Questo è un coro!” e gli applausi entusiasti del pubblico, ci fecero capire che eravamo sulla strada giusta.
E da lì cominciò la carriera del nostro coro, un coro con delle voci molto belle, alcune anche ben impostate da un’esperienza pregressa in altri cori. Ma non solo: riuscivamo ad amalgamare l’insieme senza quei fastidiosi sforamenti di una o più voci soliste che sono uno dei difetti più frequenti nei cori amatoriali. E’ a loro che io devo il mio baffo di allievo scelto, e a loro che va il mio grazie riconoscente per avermi evitato i servizi di corvè alla Scuola. Molto rapidamente imparammo una decina di canti e fummo pronti a rappresentare la Scuola in ogni occasione che ci venisse proposta.
Ovviamente la messa domenicale nell’ampio piazzale della caserma diventò un appuntamento fisso e contribuimmo anche alle lacrime di commozione di mamme e fidanzate alla cerimonia del giuramento del corso successivo.
Due furono gli appuntamenti che mi restano vividi nel ricordo.
Il primo la trasferta a Bobbio per non rammento più quale evento (qui qualche collega può  forse aiutarmi?): partimmo da Aosta con corriera militare, sostammo a Piacenza e sfilammo cantando inquadrati per le vie cittadine, cantammo tutto il nostro repertorio a Bobbio, al ritorno ci fermammo in piazza del Duomo a Milano e cantammo anche lì fra la sorpresa e gli applausi di milanesi e turisti. Il tutto documentato da foto, alcune delle quali corredano il CD che molti anni dopo riuscii a preparare cercando di equalizzare e mixare al meglio, grazie all’aiuto di mio cognato Fabio, registrazioni di fortuna fatte su un Gelosino, successivamente duplicate su musicassetta e fattemi pervenire da Franco Zanin e Evelino Mattelig. Alla stampa del CD pensò  poi Alberto Nassano. Un vero lavoro d’equipe per preservare nel tempo le tracce dei nostri “gorgheggi”. Lasciatemelo dire, da discografico: la qualità tecnica dell’incisione lascia purtroppo molto a desiderare, ma nulla toglie al valore documentale sull’attività di un gruppo di giovani che trovò durante la “naja”  un’occasione di arricchimento e di svago.
L’altro appuntamento fu una gita con concerto a La Thuile chiamati dal Generale Gallarotti con ballo finale nel quale, al sottoscritto, fu concesso l’onore di un valzer con la moglie (bella moglie!) del suddetto Generale. Un sano contraltare agli altri eventi che tutti noi ricordano legati a La Thuile: l’assalto fuoco di fine corso e la notte nelle trune al San Carlo. 
Oggi, a più di 40 anni di distanza, vedo ancora le facce, gli occhi, le espressioni dei miei compagni mentre li dirigevo: la musica, il canto riesce a tirare fuori emozioni anche dal più riservato e timido degli uomini e quegli alpini donarono a me e a tanti di quelli che li ascoltarono sensazioni indimenticabili.

Grazie! Gianfranco Rebulla




37.
REMINISCENZE DEL SERVIZIO MILITARE IN PILLOLE: LA PARTENZA
(Felice Piasini)

“… ma perché non fai la domanda per il Corso AUC, visto che puoi? (titolo di studio), …tanto, senza raccomandazione, non ti prendono la prima volta. Ogni anno rinnoviamo la domanda, accumuli punteggio e prima o poi ti chiameranno”. Così il Sindaco di Poggiridenti e dipendente del Distretto Militare di Sondrio si rivolgeva al suo concittadino Felice Piasini. Ma, visto il ritiro dei propri allievi da parte di una Regione, a causa di calamità naturali contingenti, e dovendo quindi rimpiazzarli, gli organizzatori del 64^ Corso AUC chiamano d’urgenza il Distretto di Sondrio, bacino sicuro, sempre pronto e ligio al dovere. E così, dopo pochi mesi dalla fatidica frase: “tanto non ti prendono la prima volta…” il 2 luglio 1971 viene recapitata la famosa cartolina con l’ingiunzione di presentarsi entro il 4 luglio alla SMA (Scuola Militare Alpina) di Aosta. Il 4 luglio, il futuro allievo si trova catapultato insieme ad altri 5 valtellinesi: Del Giorgio, Della Valle, Forni, Gianoli e Pedrazzoli alla “Cesare Battisti” di Aosta. Ma, il 6 luglio, il nostro protagonista ha l’esame di Letteratura Tedesca all’Università di Torino. Compilata la richiesta e ottenuta l’autorizzazione, dopo i passaggi nei vari uffici, previsti dall’iter burocratico militare, lo stesso giorno si trova seduto al 4° piano di Palazzo Nuovo, in Via Sant’Ottavio, di fronte alla Mole Antonelliana, davanti al grande Claudio Magris, Docente di Lingua e Letteratura Tedesca presso le Università di Trieste e Torino, che così lo apostrofa: “Dove è finita la sua folta chioma?” L’allievo, infatti, era già finito sotto le forbici di Cochise/Sadik, il più famoso coiffeur di Aosta! “E così – sempre Magris – allora, futuro ufficiale della Fanteria Alpina? ...e quindi, se scoppierà una guerra, io sarò suo subalterno!”(Magris è sottufficiale degli Alpini). L’esame si conclude positivamente, senza sapere se per merito delle conoscenze e competenze linguistiche dello studente, o se per timore di un’eventuale guerra da parte del docente. In seguito, dopo tanti anni, i due si incontrano ad un convegno, l’uno insegnante di Tedesco nelle scuole superiori e l’altro sempre più il germanista n. 1 della cultura mitteleuropea, ma, per farsi riconoscere, è d’obbligo la citazione del 6 luglio del 1971, relativa al grado Sottotenente/Sergente. Quanto a guerre poi, … è andata bene ad entrambi, e per il futuro, vista l’età, ormai depennati dagli elenchi dei “Riservisti”.

(Felix)




38.
RUBRICA: FIGURE DI M….
(Felice Piasini)

“Chi sa dipingere?” tuona il sottotenente davanti alla 1^ compagnia schierata nel piazzale, in attesa di essere smistati nelle varie mansioni di pulizia, in preparazione di una visita importante. Una dozzina di allievi, dopo una rapida indagine mentale fra passato artistico e valutazione di possibilità di imboscarsi… trac! Fa un passo avanti. Allora l’ufficiale, sempre con tono imperante:” 1 – 2- 3- 4- 5 e 6, prendete le scope e cominciate a spazzare il cortile, iniziando dalla Palazzina degli Ufficiali”. Ghignate solenni e battutacce da parte dei compagni ai neo pittori realisti della Scuola di Aosta!
(Felix)

Ore 8.30. L’allievo AUC Felice Piasini viene prelevato da una AR alla “Cesare Battisti” e portato al Castello di Beauregard (nido delle aquile/linguaggio criptato), sede del Comando della Scuola Militare Alpina. Lì risiede il misterioso, ermetico e leggendario Gen. Bruno Gallarotti. Missione con scopo ”raccomandazione”, in previsione delle prossime assegnazioni degli allievi ai battaglioni al termine del corso, secondo i compagni di camerata! No, missione umanitaria: portare i saluti dell’alpino Angelo Tognini, classe 1917, di Castione Andevenno (So), al suo comandante Gallarotti, (forse capitano allora) durante la Campagna di Russia. Anticamera fino alle 11.30 fra andirivieni di ufficiali e relativo scatto sull’attenti dell’allievo ad ogni passaggio. Finalmente si apre la porta e… fine di ogni trepidazione, fantasticheria, preparazione e ripetizione della frase di circostanza per non fare brutta figura. Non appare il Generale, ma un viscido attendente che frettolosamente chiede il motivo della richiesta di colloquio. Il Generale è occupato e non può ricevere; dei “saluti” gli verrà riferito. Tre ore di attesa per essere liquidato freddamente da un… attendente, col dubbio che i “saluti” non siano mai stati recapitati all’interessato!
(Felix)

Manca poco a mezzogiorno e una AR sta rientrando da un sopralluogo alle opere di fortificazione/sbarramento oramai dismesse, sopra Malles. A bordo il sottotenente F.P., comandante della 250^  di stanza a Glorenza, l’autista e 4 naioni. Entrando nell’abitato incrociano la barista più famosa del posto e, tanto per cambiare, richiamano la sua attenzione con i classici fischi ed epiteti. L’ufficiale richiama all’ordine, ma ormai la frittata è fatta. Si pensa per un po’ di cambiare bar, per far decantare l’accaduto. Ma poi si ritorna allo “Stammtisch” del solito bar. La barista si presenta al tavolo con blocchetto e lapis per le ordinazioni, ma questa volta non è sorridente e solare come al solito, anzi. Rivolgendosi all’Ufficiale, visibilmente stizzita, acida, dice:”Ich heiße Magda! Bei uns nur die Schafen rufen wir so!“ (da noi chiamiamo così solo le pecore). Quella mattina il comandante non ordinò il ‘solito’ (panino con Speck e birra).

(Felix)




39.
LA 115a COMPAGNIA MORTAI, IL TENENTE IPPOLITO ED UNA ESERCITAZIONE PERFETTA
(Franco Ferrario)

La 115a Compagnia ‘specialisti al tiro mortai pesanti da 120’ apparteneva al battaglione Cividale dell’8° reggimento della Brigata Alpina Julia ed era di stanza nella caserma Zucchi di Chiusaforte in provincia di Udine, poco distante da Tarvisio e dal confine con l’Austria e l’ex Jugoslavia.
Ivi giunse nel lontano gennaio 1972, proveniente dal 64° corso allievi ufficiali della Scuola Militare Alpina (la SMALP) di Aosta, il sottoscritto sottotenente Franco Ferrario in servizio di prima nomina.

La 115a Compagnia era comandata dal tenente Giovanni Ippolito; il suo vicecomandante era un tenente, che non incontrai mai in tutti i 9 mesi della mia permanenza, in quanto lo stesso era stato distaccato a Udine con l’incarico di comandante della banda musicale di Brigata.
Il sottotenente di complemento ‘anziano’ Ventura si stava congedando proprio in quei giorni e così avvenne che, non ancora arrivato, ero già diventato vicecomandante di Compagnia!  E che Signora Compagnia!                                        
In forza alla 115a c’era il reparto salmeria con ben 36 muli (la mia passione) e circa 150 tra graduati ed alpini e i 3 sottufficiali, i sergenti Vincenzo Di Domenico, Giorgio Pezzali, Mario Castella (quest’ultimo militare di carriera), oltre all’aggregato sergente Di Biasi con il suo pastore tedesco addestrato per il soccorso antivalanga.
Ero chiamato quindi ad assolvere un compito carico di responsabilità che avrebbe potuto facilmente impressionare un novello ufficiale ancora privo di reali esperienze di comando. Grazie però all’acuta sensibilità ed all’appoggio del mio superiore Ippolito (una persona straordinaria, che, appena incontrata, già ti sembrava di conoscere da anni) non fu affatto traumatico, anzi, lui riuscì a far risultare il mio inserimento nel ruolo del tutto semplice e naturale.

Che il tenente Ippolito non fosse un maniaco del formalismo militare e che invece preferisse anteporre alla rigida etichetta un’interpretazione intelligentemente elastica di regole e burocratismi, era universalmente noto. Possedeva infatti ottime competenze professionali, ma da apprezzare in lui erano soprattutto le grandi doti umane, grazie alle quali si meritava il rispetto, la leale obbedienza ed anche l’affetto dei sottoposti. Volentieri sostituiva il protocollo gerarchico con rapporti diretti e spesso amichevoli mostrando sempre grande comprensione e sincera attenzione verso i vari problemi personali dei suoi soldati.
Non disdegnava tra l’altro di partecipare ad infuocati incontri di calcio che organizzavano i suoi Alpini nell’attrezzato campo antistante la caserma e ad affumicate serotine partite a carte nel locale fureria (/’fumeria’), dove la visibilità, man mano che evolveva il gioco, tendeva rapidamente a zero.
Forse anche a causa della sua personalità così poco convenzionale, i suoi meriti non venivano sempre pienamente riconosciuti dalle alte sfere che un po’ lo sottostimavano – o c’era dell’inconscia invidia? – e con lui, conseguentemente, la sua Compagnia, ritenuta a volte ‘solo un disordinato insieme di Alpini’. Nonostante avesse l’anzianità di servizio adeguata, infatti, non era stato ancora promosso a capitano.

Il primo pesante impegno che si prospettò di lì a … subito, fu il campo invernale.
Freddo, marce, percorsi scavati nella neve per il passaggio dei muli, pernottamenti in quota in fienili o ‘trune’, pericoli e boati di non lontane slavine… nulla ci fu risparmiato, eppure tutto filò liscio.

Si era ormai arrivati a fine marzo, quando una sera Ippolito mi chiamò nella sua stanza del circolo ufficiali e contorcendosi per i dolori provocati quasi certamente da pesanti coliche, con un filo di voce mi preannunciò che avrebbe dovuto essere ricoverato; tre-parole-tre, pronunciate con fatica, costituirono l’intero passaggio di consegne: “Adesso pensaci tu”.
Il mattino seguente il comandante del battaglione, il colonnello Milanese, mi convocò a sua volta:
“Signor tenente Ferrario, il suo comandante sarà assente per malattia e ne avrà per molto tempo. Il comando della Compagnia ora spetta a lei”, aggiungendo quasi en passant: “Tra due giorni dovete partire per la scuola tiri e le relative esercitazioni, poi per il pre-campo e il campo estivo. Starete fuori per quasi 3 mesi. Predisponga e organizzi il tutto per tempo. Auguri.”

GULP! Rommel stesso sarebbe stato disorientato da un compito così complesso e gravoso!

Occorreva infatti organizzare, e tutto in brevissimo tempo, trasferimenti autotrasportati, abbigliamento completo con il cambio divisa invernale/estiva, equipaggiamenti e materiali vari, armamenti, organizzazione delle salmerie, delle cucine da campo e dei rifornimenti, stabilire i programmi per il personale che rimaneva in sede, e mi fermo qui per pietà...
In fondo, ripensandoci, non era poi così difficile: bastava semplicemente definire tutto il necessario escludendo il superfluo.
Sull’esempio del modus operandi del tenente Ippolito, riunii a consiglio i miei validissimi amici sergenti Di Domenico, Castella e Pezzali ed i graduati, spiegando loro la complessità dell’operazione e chiedendone la collaborazione per il miglior successo dell’impresa.
Anche la truppa, messa al corrente durante la susseguente adunata, non si tirò indietro, anzi contribuì attivamente avanzando suggerimenti e proposte per ottimizzare il lavoro ed il caporal maggiore Giulio Giubbilei a nome della Compagnia mi disse “Signor tenente, vedrà andrà tutto bene ed il tenente Ippolito sarà orgoglioso di noi”. Questo pressappoco era lo spirito del gruppo, questo È lo spirito degli Alpini.
Tutti infatti assolsero in modo encomiabile il loro compito e puntualmente all’ora prevista la 115a Compagnia equipaggiata di tutto punto partiva sugli autocarri alla volta di Sappada in Cadore sulle Dolomiti bellunesi.
A Sappada si svolse la prima parte dell’addestramento. Ogni mattina sul greto del Piave si tenevano le esercitazioni teoriche, le simulazioni di tiro al mortaio e le lezioni di topografia.

Il mortaio spara ‘al coperto’ e non ‘vede’ l’obiettivo, di solito distante qualche chilometro, che deve raggiungere tramite tiro curvo a puntamento indiretto, dopo aver calcolato sulla carta gittate e quote da scavalcare, sulla scorta delle coordinate della propria posizione ricavate mediante metodi di orientamento e di triangolazione geografica, e delle coordinate del bersaglio che vengono tele-comunicate dall’ufficiale osservatore, il quale, posizionato in altra zona, deve poi comandare gli aggiustamenti necessari. Ricevuti i dati, l’ufficiale preposto alle armi deve commutare le misure lineari in misure angolari per impostare l’alzo ed il puntamento, con l’ausilio di rappresentazioni grafiche e tabelle. Poi determinare la quantità delle cariche di lancio da utilizzare.

A me, studente di Fisica toccava l’onere e l’onore di istruttore della compagnia mortai: fu la prima e molto proficua esperienza didattica della mia successiva carriera professionale di docente di Matematica e Fisica.
Nel giro di 15 giorni, tra lezioni, marce ed esercitazioni varie, la ‘disordinata e svaccata’ accozzaglia di capi arma, serventi ai pezzi, goniometristi, comandanti di squadra e salmeristi (dovevano addestrarsi a caricare e scaricare velocemente sui muli armi e casse delle munizioni), dopo aver ben assimilato tecniche ed automatismi nei piazzamenti e nei puntamenti, era diventato un gruppo strutturato, omogeneo ed estremamente efficiente.

Intanto Ippolito, finita la convalescenza, era rientrato in servizio e ci aveva raggiunto nella fase finale del corso. Terminato questo periodo, si doveva tornare in Carnia, al poligono di tiro in val di Resia, per la parte conclusiva dell’addestramento che prevedeva esercitazioni a fuoco e prova d’esame finale: la 115a Compagnia era stata comandata a rappresentare il Cividale in un battaglione di formazione costituito dalle varie Compagnie mortai da 120 dell’8° reggimento, che avrebbero dovuto competere e rivaleggiare per il migliore risultato.

L’attendamento fu impiantato a est di Prato di Resia, in prossimità del monte Canin.
Il battaglione era comandato da un Maggiore Comandante di cui non ricordo il nome (e forse è meglio così...), proprio uno di quelli che non tenevano in gran conto la 115a e che già in precedenti occasioni aveva velatamente manifestato una non certo benevola attenzione nei nostri confronti.

Dopo due settimane di perfezionamento dei tiri, esercitazioni sia diurne che notturne e continui avvicendamenti dei diversi reparti, venne finalmente il momento della prova finale.
Sopra un’altura che fungeva da osservatorio, a circa 1 km in linea d’aria dall’area bersaglio, erano attestati tutti i vari ufficiali del battaglione, sotto la direzione del Maggiore e sotto lo sguardo un po’ trepidante del tenente Ippolito, che non poteva mancare all’appuntamento finale senza l’intima speranza almeno di un onorevole piazzamento, speranza corroborata dalla stima verso di me e dalla fiducia nel livello di preparazione raggiunta da tutti i suoi; contemporaneamente noi ci prodigavamo al massimo per fargli fare bella figura. Alla sua responsabilità sarebbe stato infatti comunque imputato il successo o, al contrario, un esito negativo
Adesso toccava a me dirigere i tiri della 115a.
Con sadico zelo il Maggiore Comandante ruotò il cavalletto che reggeva il cannocchiale, lo puntò sulla montagna di fronte e ne focalizzò un puntolino.
Poi mi chiamò a sé e, trattenendo a stento un sarcastico compiacimento – tradito però da una lieve deformazione del labbro sinistro –, m’invitò a contemplare attraverso il cannocchiale il bersaglio scelto. Per me e la mia compagine aveva perfidamente stabilito il sito più ‘rognoso’ della zona, estremamente difficile da riconoscere sulla carta topografica e da tradurre in longitudine, latitudine, quota, trattandosi di uno stretto terrazzamento di circa 20 metri per 10 più o meno a metà di una quasi verticale parete di granito, dove crescevano alcuni alberelli e cespugli.
Insomma, solo una piccola insignificante asperità sul liscio versante della montagna.
Mentre cercavo di affrontare l’ardua questione, prendendomi il tempo necessario, colsi alle mie spalle la voce beffarda del Maggiore che, rivolto in particolare ad Ippolito, con sufficienza commentava mormorando – ma non troppo –: “Ferrario sta ancora inventandosi le coordinate!”
“Ah sì? Ah sì?” dissi tra me e me, ferito nel mio militaresco orgoglio: “Mo’ ti faccio vedere io. Io vengo del 64° AUC, sai? Mo’ so’ c...i!!!”

Stavo prendendomi un po’ di tempo per il fatto che, assistendo nei giorni precedenti alle prove delle altre compagnie, avevo visto ripetuti tiri di aggiustamento con correzioni anche di 800/1000 metri. Troppo! Non mi sembrava possibile che questi errori fossero dovuti ad imperizia degli operatori, dato che anch’essi erano bene addestrati, e nemmeno parevano imputabili alla oggettiva difficoltà di individuare obiettivi su pareti verticali.
Infatti, a conferma di queste riflessioni, ricontrollando accuratamente le mappe, vi individuai una certa piccola imprecisione, sufficiente però a far sballare di molto le gittate. Decisi perciò di rivedere i dati precedentemente raccolti e di rifare con molta cura “il punto”, come suol dirsi, dell’arma base, cosa fondamentale da cui dipende praticamente il 100% del successo, operando gli opportuni correttivi topografici.
Per far ciò fu preziosa la collaborazione dello stravagante alpino goniometrista triestino Venutti. Costui che, quando voleva, era un vero specialista, era anche un personaggio singolare e bizzarro.      Girava sempre smisuratamente sovraccarico di cavalletto, tavole geografiche, strumenti vari, nonché gavetta, binocolo, borse, fucile a tracolla, borraccia e zaino.
Mancava solo che si portasse a spalla anche il mulo.
Barba incolta e divisa un po’ sbrindellata, si atteggiava simpaticamente a guerrigliero centroamericano appena fuoriuscito dalle fila dei ‘Barbudos’ di Fidel Castro.
Durante le giornate delle prove, terminato il suo compito specifico, si godeva lo spettacolo dei tiri in lontananza piazzandosi nella piana poco fuori dell’abitato circondato dai ragazzini del paese, dei quali, utilizzando la propria dotazione viveri, con gallette e cioccolato – tra l’altro ottimo! – e battute varie, si era accaparrato il tifo. Ogni tanto, da lui incitati, li si sentiva gridare a squarciagola il motto del Cividale: “FUARCE CIVIDAT!”.

Fatte tutte le opportune considerazioni, calcolate mentalmente le appropriate rettifiche da applicare a quanto quotato nella mappa, tramite l’addetto alle trasmissioni, comunicai le coordinate faticosamente desunte al sergente Di Domenico (che dalla postazione base doveva comandare i capi squadra mortaisti, mentre i sergenti Castella e Pezzali coordinavano i rifornimenti di munizioni alle armi), e diedi l’ordine.
Al contempo spasmodicamente scrutavo la roccia con il cannocchiale per individuare il punto dell’impatto e valutarne gli scostamenti dal bersaglio per mezzo delle tacche graduate incise sulle lenti, sperando di trovare riscontro della giustezza delle mie considerazioni; altrimenti avrei dovuto rivedere al volo il tutto.
Per somma disdetta il primo colpo non esplose, il proiettile era svanito nella immensità dell’universo!
Non c’era il tempo per perdersi d’animo: bisognava decidere in fretta – il nemico non aspetta!
Il caso era infatti previsto nei manuali, naturalmente per chi li conosceva.
“Cosa fai adesso, Ferrario?” chiese il Maggiore.
“Ripetere stessi dati”: bisognava giustificare ad alta voce ogni scelta agli altri ufficiali osservatori che
seguivano con i loro binocoli lo svolgersi dell’azione; essi dovevano valutare e approvare o meno le stime comunicate.
Il colpo esplose a 100 metri a destra e 50 sotto il bersaglio! Praticamente era quasi già centro! Almeno così si valuta quando un proiettile da 120 mm cade a 50 metri circa dall’obiettivo.
Ma poteva anche essere un fatto casuale, episodico; occorrevano conferme – anche questo prescriveva il manuale che teorizzava la procedura ottimale da rispettare, sempre per chi lo conosceva.
“Ripetere stessi dati”. Il nuovo colpo cadde nello stesso punto. Non era casuale!!! Ma non bastava.
“Che ordine dai ora?” interrogava il Maggiore, sorpreso e anche un po’ deluso.
“Devo fare ‘forcella assiale’, perciò: a sinistra 200”.
A denti stretti: “Bene”.
Il colpo arrivò giusto dove doveva arrivare: forcella impeccabile!
Il quasi smontato inquisitore: “Ed ora?”
“A destra 100” ed il colpo arrivò sull’asse sotto ancora 50 metri dall’obiettivo. E poi: “Allungare 100”. Forcella longitudinale anch’essa perfetta.
In pochi minuti, dopo soli 5 tiri di aggiustamento – tra l’altro tutti da considerare centro – il sottotenente Ferrario della 115a Compagnia era già in grado di comandare direttamente ‘l’intervento di Compagnia’ accorciando di soli 50 metri l’ultimo dato. Tutti, dicasi tutti, i colpi esplosero in rapida successione nel povero boschetto.
Esame superato a pieni voti ed alla grande!
Dalla postazione delle armi nel fondovalle giungevano intanto urla di “vittoria”, “evviva” e anche qualche “vaffa…” urlate dai serventi ai pezzi e dai comandanti d’arma, informati dal caporale trasmettitore Ottaviano (rimproverato per questo dallo scornato Maggiore: non sta bene, non si fa, il nemico potrebbe individuarci…) che non aveva saputo trattenersi ed al telefono aveva ripetuto più volte quasi gridando: “Centro perfettoooo !!!”
In serata all’accampamento un gongolante tenente Ippolito, sprizzava felicità e soddisfazione da ogni poro. Sciolta ogni tensione, pienamente riscattato nell’altrui considerazione, rinfrancato nel morale e del tutto ristabilito nel fisico, con il suo consueto e informale modo di procedere radunò la sua ‘armata Brancaleone’.
Attraverso il solito divertente e colorito eloquio, strappando più di un sorriso, spiegò e commentò,  sottolineando ogni dettaglio, lo svolgimento di quanto avvenuto sull’osservatorio – cioè quanto dal fondo valle non si poteva vedere direttamente ma solo intuire grazie alla ‘diretta’ telefonica di Ottaviano – non mancando poi di aggiungere un vivo apprezzamento per l’operato da manuale dei mortaisti e dei sottoufficiali che avevano così bene diretto le squadre di tiro e in particolare del suo, di nuovo vice, sottotenente Ferrario, che ringraziò per il  brillante lavoro svolto e  a cui rese merito del risultato raggiunto.
L’indomani, a battaglione schierato a ranghi completi per la cerimonia di chiusura delle operazioni, arrivarono ad un leggermente impacciato Ippolito i pubblici riconoscimenti e complimenti degli ufficiali superiori e, miracolo!, anche quelli del Maggiore.
La 115a Compagnia, in considerazione dei risultati raggiunti, fu successivamente scelta per una esercitazione di brigata sul monte Peralba ed anche qui i nostri mortai sbriciolarono – letteralmente e non per modo di dire – le tavole in legno che adagiate sopra un pendio costituivano i bersagli da colpire.

Ormai era giunta la fine di settembre e per il sottotenente Ferrario scadeva l’ora del congedo.
Nel mese di ottobre la 115a doveva partecipare ad un’altra esercitazione di brigata, un’altra sfida, ed il tenente Ippolito mi chiese:
“Ferrario, te la sentiresti di fermarti in servizio ancora almeno per un mese?”
“Molto lusingato, grazie, ma non ci penso nemmeno!”

Era ora di tornare a casa.

Il colonnello Giovanni Ippolito è mancato nel 1999 appena cinquantanovenne.
Il suo sottotenente Franco Ferrario lo ricorda sempre con affetto.




40.
ADDIO ALLE ARMI
(Sandro Bazurro)

Con l'arrivo dell'autunno del 1972 anche la mia esperienza di soldato, in qualità di ufficiale di complemento, arrivava alla sua naturale conclusione.
Il 9 luglio partecipai all'ultimo Giuramento solenne in piazza Galimberti a Cuneo, con le reclute del secondo contingente '72, che con tale atto giuravano fedeltà alla patria (durante la lunga cerimonia, complice il caldo torrido, ne sverranno una ventina tra il brusio di disapprovazione della folla assiepata lungo le transenne e sarà l'ultimo giuramento pubblico in piazza).
In questo periodo iniziava anche il lento, inesorabile scioglimento del Corpo Addestramento Reclute - 2° RGT Alpini, che terminerà definitivamente due anni dopo, con la creazione del Battaglione Addestramento Reclute “Cuneense”, erede della bandiera di guerra del vecchio Reggimento.
Il 22 agosto del 1972 venni delegato a svolgere l'incarico di comandante della Compagnia Artiglieri da Montagna Tridentina in sostituzione del Comandante Titolare, inviato alla Scuola di Guerra.
Da tale data iniziò la dismissione del Reparto, con versamento di tutti i materiali della Compagnia, sia di servizio che di casermaggio, dalle armi ai materassi, per intenderci, e ricordo che fu un compito molto impegnativo e di responsabilità per me, giovane sottotenente di prima nomina.
Ultimato l'addestramento del secondo contingente '72 ed accompagnate le reclute ai Reggimenti, la vita di caserma divenne monotona e si cercava di movimentarla con scherzi e tiri mancini ai figli, ma anche tra di noi anziani, soprattutto verso chi a nostro parere si imboscava od otteneva favoritismi per trarne benefici in modo spudorato. 
Di quel periodo ricordo anche un caro collega ed amico che appassionato di armi, tra un servizio e l'altro, si dilettava a costruire impugnature ergonomiche per il revolver calibro 22 che usava per il tiro al poligono, testandone poi l'efficienza con la mia “volontaria” collaborazione.
Più precisamente, quando al pomeriggio liberi dai servizi, si stava a riposo branda nell'ora di silenzio, mi sorprendeva al momento del naturale assopimento, dovuto anche all'estiva calura, “invitandomi” a restare immobile, ovviamente, supino, mentre prendeva accuratamente la mira e sparava a tiro radente contro il muro che avevo al mio fianco.
Quando mi andava meglio il suo obiettivo era il soffitto.
Risultato: all'atto del congedo sul muro a fianco di un letto si poteva distintamente individuare un profilo umano ed il soffitto somigliava al planetario della Scuola di Aosta, tutto puntinato da fori calibro 22.
Il bello fu quando ormai tranquillamente congedati, venimmo dopo qualche giorno richiamati “gentilmente” a tappare tutti quei buchi, con spatola e stucco da muro. Tutto sommato fu una parentesi molto divertente poiché scroccammo l'ultimo pranzo al circolo ufficiali; un po' meno divertente fu tappare i buchi del soffitto a tre metri e mezzo da terra, salendo su un improvvisato trabattello, formato accatastando le brande.
Ricorderò sempre nostra festa di congedo, fu bellissima, tutti gli ufficiali della calotta ed il quadro permanente invitati, damigiane di vino posizionate sotto il porticato affinché tutti potessero attingerne, canti e balli fino a tarda ora, salumi e formaggi in abbondanza e poi il silenzio, fuori ordinanza naturalmente, qualche lacrimuccia, complici le abbondanti libagioni e poi tutti a nanna... ma veramente? Ma no... tutti veramente no.
Improvvisamente nella notte un denso fumo si levò da una camera nell'ala degli alloggi Ufficiali, invadendo tutte le stanze, i corridoi, le scale.
Un candelotto lacrimogeno da un chilo aveva contribuito a far commuovere anche i più scafati, i più riottosi, anche coloro che felici della nostra partenza non avevano ancora versato neppure una lacrimuccia per i loro anziani.
Tra questi anche l'ignaro cappellano, che alloggiava in una camera attigua degli alloggi ufficiali ed era costretto suo malgrado a condividere tutte le nostre dissolute intemperanze.
Fu molto severo e da buon delatore fece partecipe del fatto il nostro valente Comandante di Battaglione, quello della valigia di cartone per intenderci, il quale dopo averci chiamati a rapporto, rammentandoci altre nostre malefatte, ci redarguì con fermezza, dichiarandosi felice della nostra prossima partenza e multandoci con le spese di una damigiana di vino (che sarebbe servita al nostro cappellano per il suo santo uffizio).
Colse l'occasione per ricordarci tutto ciò che avevamo combinato in quei nove mesi di permanenza ai reparti, degni eredi a suo dire, dei nostri dissoluti predecessori.
Ci ricordò quindi la brutta avventura con le educande del collegio situato proprio dirimpetto agli alloggi ufficiali, che tante noie gli aveva procurato con la madre superiora.
In breve la birbonata era consistita nell'attirare l'attenzione di quelle sventurate con atteggiamenti discinti tenuti dalle camere fronteggianti i loro alloggi o dai locali servizi e docce; ciò era stato possibile essendo i due immobili separati solo da pochi metri di strada.
Qualcuno si era spinto ben oltre, inviando loro messaggi poco convenienti ma molto chiari, attirando le poverette in appuntamenti galeotti, tanto che alcune di loro mosse da profondo pentimento per gli atti impuri commessi, pare ripetutamente e con reciproca soddisfazione, rinunciarono ai voti promessi, con “grave nocumento per la sacra istituzione tutta”.
In quel caso il rimprovero solenne al quale fummo sottoposti, terminò insieme con la presenza nell'ufficio della madre superiora, direttrice del collegio ed il nostro colonnello, che credo fosse abbastanza scafato nel dirimere tal incresciosi avvenimenti, ci condannò a pagare un paio di bevute per tutta la calotta, rinfacciandoci di non averlo mai portato prima a conoscenza del fatto, certo che con l'esperienza di un maturo superiore tutto ciò non sarebbe successo.   
Questo esempio è solo un piccolo assaggio di quel che riuscimmo a combinare in quel periodo, pur senza mancare mai ai nostri doveri verso la patria e nel rispetto delle istituzioni.
Il primo ottobre dell'anno 1972 venni inviato in congedo, per ultimato servizio di prima nomina, lasciando tanti amici e portando nel cuore tanti cari ricordi, ricordi che mi accompagneranno per tutta la vita.



41.
IL MESE PIU’ BELLO
(Felice Piasini)

Ultimato il periodo di addestramento e superati gli esami di fine corso, nel dicembre del 1971 i neo sottotenenti lasciano Aosta. Dopo alcuni giorni di vacanza, ai primi di gennaio del 1972 ci si deve presentare ai luoghi di destinazione, per la continuazione del servizio militare, ognuno col proprio incarico. Il sottotenente Felice Piasini, in quanto Alpino d’Arresto, viene destinato a Vipiteno, al Battaglione Val Chiese, che fa parte della Brigata Alpina Orobica. Nominato comandante della 250^ Compagnia Quadro (?) -  cioè compagnie che esistono sulla carta, e che vengono attivate solo in caso di necessità -  il tempo di adempiere agli atti formali e già di nuovo in viaggio alla volta di Glorenza, in alta Val Venosta. Qui ci sono uffici e magazzini della 250^, da cui dipendono le opere di fortificazione della Val Passiria, che si sviluppa da Merano verso il Passo Giovo, e della 251^, che si occupa di quanto rimane delle opere di sbarramento da Malles al Passo Resia, al confine con l’Austria. Dopo aver visionato i registri contabili, quelli di carico e scarico dei materiali in dotazione e informato, a grandi linee, dall’unico militare in servizio a Glorenza, uno scaltro e scafato maresciallo pugliese, sui rapporti fra sede di compagnia e distaccamenti, lo Sten Piasini parte per la destinazione operativa: Saltusio, a 9 km da Merano, in qualità di comandante del piccolo distaccamento, con capienza massima di 15 alpini. Qui dovrebbe mettere in pratica quanto appreso alla Scuola di Aosta, sia riguardo alla truppa, che agli impianti logistici. Il primo problema che si presenta riguarda l’orario della sveglia. Per il neo arrivato non ci sono dubbi: se la sveglia è fissata alla 6.30, a tale ora ci alza. Non la pensano così i 13 alpini in forza. Dopo infinite discussioni e simulazioni cronometrate, l’ufficiale deve constatare che, effettivamente, dal suono del campanello che annuncia l’ispezione, all’alzarsi, vestirsi, fare il “cubo” e raggiungere i posti di servizio, non si supera mai il minuto e mezzo. Convinto più dall’abilità dei naioni, che dalle minacce più o meno velate, di incontri “fuori”, al termine del rispettivi servizi militari, la sveglia continua ad essere, per tradizione acquisita, alle 7.30/8.00. Di questa e altre usanze, non proprio ortodosse, sono al corrente sia il capitano che supervisiona i distaccamenti, che altri ufficiali, ai quali tocca spesso l’ispezione notturna con la procedura ben nota: “parola d’ordine e contro parola” per potervi accedere.

Per quanto riguarda la manutenzione delle opere di sbarramento va molto meglio, perché l’ufficiale riesce questa volta a essere più convincente. Eseguendo quei lavori, non solo si fa il proprio dovere, si vive all’aperto, invece di stare stravaccati tutto il giorno sulle brande a farsi s…, sfogliando riviste porno e ad annoiarsi, ma si ricevono anche licenze premio al fine settimana. Gli alpini eseguono i lavori con grande abilità, provenendo o dalla campagna o dal settore dell’edilizia o dell’artigianato, ad eccezione del cuoco bresciano, che di professione è…ciabattino! Bisogna sistemare  portelloni, pali, reti e  filo spinato attorno alle opere, tagliare gli alberi e la vegetazione lungo le linee di fuoco, per poter identificare e  centrare l’obiettivo, sull’unica strada che percorre il fondo valle, ingrassare i fusti nelle postazioni per cannoni e mitragliatrici, sostituire lampadine bruciate, mandare a riparare i motori dell’impianto di deumidificazione, ricambiare l’acqua nelle vasche per gli usi igienici, dare il bianco agli alloggiamenti interni, così da renderli più luminosi e salubri alle compagnie che vi soggiorneranno, di passaggio,  durante i campi estivi, etc.…  Insomma, tutto si svolge con grande soddisfazione. Meno entusiasta è il maresciallo, bombardato da numerose e impreviste richieste di materiali, che gli fanno sforare la contabilità. Per quanto riguarda i viveri, l’amministrazione militare prevede due fonti di approvvigionamento: acquisto diretto in loco, a Merano, per frutta e verdura,  e per la carne, a San Martino in fondo alla Val Passiria. I prodotti a lunga conservazione vengono invece forniti direttamente dai magazzini del Battaglione di Vipiteno. Ma, mentre per gli acquisti locali va molto bene, ottenendo sempre di più dello spettante, credendo i commercianti di avere a che fare con uno di “loro”, conoscendo il comandante il tedesco, non lo stesso si può dire per le provviste che giungono da Vipiteno. Il rifornimento avviene ogni mese. Arriva un CL. Si scaricano in gran fretta i viveri, e l’ufficiale deve solo firmare i registri. Questo, almeno, è l’andazzo prima dell’arrivo del nuovo comandante valtellinese, non per niente chiamato “el Tudesc”. Da qui in avanti, invece, registro alla mano, l’ufficiale controlla ogni voce e relativo quantitativo spettante e spunta o segna l’ammanco: riso, pasta, scatole di piselli, pelati, tonno, caffè, zucchero etc. I punti critici sono: Parmigiano Reggiano (8gr. al giorno X ogni militare presente X il n. dei giorni, cioè: 8X13X30 = gr. 3120), ma all’appello mancano sempre troppi grammi!! Così per il cordiale (una bustina da 30 cl X13X30 = cl.11.700) pari cioè ad un cartone da 12 bottiglie di cognac, ma chissà perché, nel cartone ce ne sono solo 5 o 6! Durante l’operazione, il capitano visibilmente impaziente, rosso in viso dalla collera incita a sbrigarsi, perché non ha tempo da perdere. Il giorno seguente, però, arriva il CL con tutte le provviste spettanti, compreso un bel pezzo di grana. Non è questione di pignoleria – pensa il comandante – ma, di far rispettare le regole. E poi… le provviste non consumate sono oggetto di scambio con i contadini: una scatola di caffè contro sei uova; una bottiglia di cognac è quotata 6 uova ed un pezzo di Speck; 3 scatole di piselli, una di pelati e 3 pezzi di fondente valgono un pezzo di formaggio o mezzo chilo di burro! Tutto bene quindi quel che finisce bene? Magari! Successivamente, lo stesso capitano, in servizio   di ispezione, fregandosene della procedura prevista, aggredisce il soldato di guardia al cancello così:” Ma che c…zo di parola d’ordine, apri! Non vedi che sono il tuo capitano?” Purtroppo anche il piantone non rispetta la procedura (Parola d’ordine! -  Controparola! -  Colpo in canna -  Sparo in alto, come primo ammonimento, etc.) e apre solerte il lucchetto. I secondi trascorsi non bastano ai compagni per mettersi in regola. Il capitano entra nella casermetta e come una iena si precipita in camerata. Ormai è fatta! Il capitano scende le scale e, passando davanti al comandante, che se ne sta impotente sulla porta del suo ufficio, gli grida soddisfatto, digrignando i denti:”Lei stia punito!” Il tempo di stendere il rapporto e puntuale arriva dal Comando di Vipiteno la sentenza. Lo Sten Felice Piasini, comandante del Distaccamento di Saltusio (segue ampollosa motivazione in gergo militare) viene trasferito in punizione, per giorni 30, al distaccamento del Passo Resia, a m. 1700 s.l.m. al confine con l’Austria. Un settembre meraviglioso! Il cielo terso che si specchia nel lago, l’aria frizzante del mattino che invoglia il punito a studiare e a preparare gli esami che gli mancano per laurearsi, le uscite nei boschi, con alpini comprensivi e complici, a raccogliere mirtilli e funghi, le serate fino a tardi nel vicino Gasthof… Che pacchia! Clou della punizione (che la dice lunga!): una sera, visita improvvisa di un “imbarazzato” Capitano, accompagnato da un altro ufficiale, con invito a cena oltre confine, giù in Austria, in divisa, in barba al regolamento, indeciso tra un fumante salmì di cervo o un rosolato stinco di maiale con patate al forno! (Felix)



42.
MONATE! MONATE!
(Angelo Soave)


Diego Gasparini arrivò ad Aosta da Codroipo, provincia di Udine.
Un giorno lo vedemmo concentrato nello scrivere una lettera. Riuscimmo a sbirciarne il contenuto. Dopo i convenevoli di rito, la missiva proferiva:
“La vita di caserma è durissima, il rancio immangiabile, i miei compagni di corso sopperiscono andando al ristorante tutte le sere. A me basterebbe cenare fuori un paio di volte la settimana, ma non ho soldi e mi serve un aiuto economico che, sono certo, mi giungerà al più presto. Un abbraccio, Diego”.
Le lettere, ricopiate tali e quali più volte, venivano inviate a parenti, amici e, come malignava qualcuno, anche al sindaco, al parroco e al farmacista del paese.
Dopo un paio di settimane, da Codroipo arrivavano le lettere di risposta.
Diego entrava in camerata, si sedeva sul letto e, con movimenti ostentati, apriva le buste con un tagliacarte che custodiva nell'armadietto. Poi con l'indice e il pollice, a mo' di pinza, estraeva le banconote e le riponeva nel portafoglio. Infine appallottolava busta e lettera e le buttava nel cestino, senza leggerne il contenuto.
Esaurita la prima tornata di risposte, Diego si metteva di buona lena a scrivere un'altra lettera, da ricopiare su più fogli e spedire ai benefattori:
“Trascorrere la domenica in caserma è un'esperienza tristissima. I miei compagni di corso il pomeriggio vanno al cinema e, la sera, a ballare. A me basterebbe andare al cinema ma sono al verde, ho bisogno di soldi, al più presto, prima che mi venga un esaurimento nervoso. Un abbraccio, Diego.”
Dopo un paio di settimane, dal Friuli arrivavano le risposte, in buste generose.
La terza tornata di lettere pietose riguardava il tempo: finiva l'estate, iniziava a far freddo, occorreva coprirsi di più ... e così via, con pretesti più o meno credibili che facevano breccia nel cuore di parenti e amici, prodighi nell'alleviare le sofferenze del giovane alpino, così lontano da casa.
E ancora una volta arrivavano le risposte, in ricche buste.
Come al solito Diego tirava fuori il tagliacarte dall'armadietto e con destrezza chirurgica prelevava i biglietti da cinquemila lire e li riponeva nel portafoglio. Poi, appallottolata busta e lettera, con mira precisa lanciava la pallina di carta nel cestino della spazzatura.
Un giorno un compagno di camerata, roso dall'invidia, rimproverò Diego: “Ma non ti vergogni? Non solo non rispondi alle lettere per ringraziare i tuoi parenti, ma neppure leggi le loro notizie!”.
“Monate! Monate!” rispose Diego, già concentrato nell'inventare un nuovo motivo per impietosire i suoi benefattori.

Solo alcuni anni dopo seppi che Diego avrebbe beneficiato dell'esonero dalla leva se i suoi due fratelli maggiori avessero svolto il servizio militare.

Quelle buste, molte delle quali di provenienza paterna e fraterna erano quindi un ringraziamento all'alpino che aveva saldato un debito con la patria per conto di tutta la sua famiglia.



43.
LA PRIMA NOTTE DI (NON) QUIETE
(Marco Fioroni)

Il titolo di questo film quasi coevo della nostra avventura, al di la’ del senso letterale, aveva un significato sinistro: E’ con la morte la prima notte di quiete perchè è la prima notte senza sogni.
E la prima notte alla SMALP non è stata di quiete, ma, fin troppo piena di vita.
I sei mesi del corso sono un lasso di tempo che allora sembrò abbastanza lungo, ma, incredibilmente corto per quante cose ci abbiamo messo dentro, o, ci hanno fatto mettere.
E’ quando si prova a raccontarle che si ha modo di accorgersene.
Dicevamo che la prima notte alla Cesare Battisti fu parecchio movimentata.
Il preludio della consegna dell’essenziale alla vita in caserma, sarebbe stucchevole a raccontarsi, eccezion fatta per lo sbigottimento fra il grottesco e il divertito sulle taglie sovrabbondanti o strette che quasi a sorte avevano iniziato ad assegnarci.
Qualche divertimento era stato garantito dai più imbranati, non abituati a vivere collettivamente e che mostravano strani pudori da educande.
Il divertimento aumentò, anche se meno apprezzabile per la mancanza di luce quando, appunto, le luci si spensero, quasi all’improvviso, dopo qualche squillo di tromba.
Allora fu tutto un urtarsi, andare a sbattere a destra e sinistra, inciampare, scomodare tutti i santi e le madonneconosciuti, imprecazioni più o meno colorite in quel caleidoscopio che era la nostra camerata, nella quale si sarebbe poi scoperto che erano rappresentate quasi tutte le regioni d’Italia, nonostante fossimo solo in 10.
Chi era facilmente preda del sonno si era già addormentato quando cominciarono le prime scorribande dei cadetti del corso più anziano.
All’inizio furono solo delle sortite chiassose che svegliavano di soprassalto chi aveva già preso sonno. Nelle inevitabili pause dovute ai passaggi delle ronde che interrompevano le incursioni, vi era persino  chi riusciva a russare.
Io, abituato a coricarmi a tarda notte, assistevo, insonne, in silenzio e nel buio, fra il divertito e lo sconcertato, a tutti i tentativi ai quali i cinque anni precedenti di collegio mi avevano abituato, di chi insonne come me cercava, con originalità di stratagemmi, di far cessare il concerto di chi russava.
Il vasto repertorio delle infondate convinzioni di riuscirci sembrava appena aver funzionato con quello vicino alla porta, che all’angolo opposto della camerata ne era partito un altro con tonalità diverse.   
C’era chi chiamava il gatto, chi sibilava, chi sosteneva che nulla era meglio del dentifricio, con il risultato che il disturbo di chi russava era accresciuto da chi cercava di porvi rimedio e muovendosi nel buio, inciampava,cadeva, imprecava, rovesciava oggetti, eventi cui poi cercava di rimediare in un gioco a mosca cieca, tutto sommato divertente se non fosse che il caldo di luglio era notevole e si era giunti alle tre.
Ogni tanto un fascio di luce aveva fatto intravvedere una sagoma, probabilmente quella del caporale di giornata, venuto a vedere cosa succedeva.
La seconda scorribanda dei cadetti più anziani era finita miseramente, tanto che avevano dovuto darsela a gambe per evitare la ronda, quando uno di loro aveva fatto una caduta rovinosa per aver, nel buio, inciampato in uno dei nostri acquattato a propinare il dentifricio a quello vicino alla porta che di smetterla di russare non ci pensava proprio.
La mia branda era abbastanza lontana dalla porta quando stavo per assopirmi e vidi alcune sagome avvicinarsi a uno dei letti più vicini alla porta per tentare di “sbrandare” chi vi dormiva. Il mio vicino di branda che fino a li era solo “Roberto” cui, poi avrei aggiunto anche Braggion, e che probabilmente dormiva anche lui con un occhio solo per via del subbuglio, cadde dalla branda, praticamente in piedi ed ebbe tutto il tempo di sparar fuori un bel sonoro “putana to mare”.
Non ci fu bisogno di traduzione e ce n’era quanto bastava per scatenare il finimondo, quindi, possiamo immaginare la reazione dei cadetti più anziani, perchè, naturalmente, di loro si trattava.
Dapprima stabilirono che Roberto dovesse salire sugli armadi a fare l’aquila, saltando da uno all’altro, poi, per mancanza di tempo fra i passaggi della ronda, venne condonato in un certo numero di flessioni su una sola mano, cui Roberto si sottopose superando brillantemente la prova, con loro grande rabbia, anche grazie al buio, ma anche perchè in seguito ebbi modo di vedere che Roberto, abile judoka, era un po’ un funambolo e quei tre o quattro avrebbe potuto mangiarseli in un boccone, ma tutto rimase e finì nello scherzo e dopo una mezz’oretta riuscimmo persino a prender sonno e a dormire sino a mattina- 



44.
PTHIRUS PUBIS
(Marco Fioroni)

Si diceva che tutto fosse riconducibile a “Bocca di rosa” una figura che, in quel frangente temporale, si collocava fra quella materna e la dea del sesso : una, ormai, attempata, ma, ancora molto piacente, signora che si divideva fra la Cogne e le caserme Battisti e Testafuochi.
La progressione dell’infestazione era dovuta all’imbarazzo dei più goffi e inesperti che vergognandosi del problema e non conoscendone l’unico rimedio efficace, si inabissarono in un vortice di ridicolaggini, riuscendo solo a diffondere maggiormente il contagio di quelle che, comunemente, si chiaman piattole.
La caratteristica peculiare di questi parassiti è quella di insinuarsi sotto pelle alla radice dei follicoli piliferi del pube, principalmente, ma, anche di altre parti del corpo dove vi siano peli.
Pochi sapevano che il “fai da te” non risolveva nulla e che i patetici tentativi per tener nascosta la cosa, una volta svelati, più o meno volontariamente, scatenavano burle e ilarità sconfinate, finanche feroci e rischiose nella diffusione di rimedi infondati e solo in grado di far danno alla pelle.
Si cominciarono così a sentire, qua e la’ nelle camerate, esalazioni alcooliche che, se non fosse stato per la denaturalizzazione, potevano anche far pensare a festini e orge. Poco tempo e poi si passò a tutta una gamma di odori che spaziavano dal gasolio alla nafta, al Kerosene e alla benzina. Si scoprì poi che vi fu anche chi ricorse a trielina, acetone e ammoniaca quando confessarono che le bestiole sembravano persino trarre giovamento da questi trattamenti.
Vi fu chi si scorticò la pelle nei vari tentativi e chi si rimediò delle ostinate dermatosi che finirono per costituire la spia del problema, giacchè era tempo di addestramento al combattimento e “sbalzare” lungo il letto della Dora era divenuta per loro una atroce tortura.
Difatti se si pensa quali sono le parti in gioco, quella infestata e quella che strisciava sul terreno nel “passo del leopardo”è immediata l’impossibilità di durare un pezzo.
Più o meno quando si giunse a una sorta di scoperta del “mal comune ......” non fu “....mezzo gaudio”. Sospensione della libera uscita, consegna per i finti malati che avevano denunciato patologie improbabili sperando di debellare il problema prima di doverne confessare la imbarazzante verità.
Le conseguenze pratiche riguardarono sani e infetti.
Consegna di qualsiasi indumento intimo, borghese o militare; rasatura completa di ogni singolo pelo, ciglia escluse; sostituzione di tutta la biancheria delle brande; docce igienizzanti stile campo di concentramento e, soprattutto, MOM a volontà, il rimedio che tutti, poi, impararono essere l’unico efficace.
Di quel periodo rimasero memorabili le adunate di controllo, per il clima di caccia “all’untore” dei casi “infetti dormienti”
così come ne vedevi uno che si grattava, scattavano la proscrizione e le delazioni.Q
Quella promiscuità goliardica che ci caratterizzava come gioventù sana, subì un duro colpo dal quale si sarebbe ripresa solo quando i rigori della stagione fredda, fecero sperare nella insuperabilità dello spessore di stracci che indossavamo.
L’infestazione fu equanime e nulla potè il nonnismo difatti fu una gara di numeri fra 63° e 64° corso che non ricordo chi si aggiudicò.



45.
IL COLONNELLO MORENA
(Marco Fioroni)

Forse non tutti sanno che il Colonnello Morena ora a riposo come generale, è tuttora (2015) vispo e arzillo.
Posso garantire che la mia emozione vedendolo sul palco dell’Adunata sezionale di Como, tenutasi ad Albavilla, è stata grande e profonda, almeno quanto la sua maestosa, e marziale figura che nonostante l’età considerevole che non ricordo, ci ha regalato un intervento oratorio eccezionale per lucidità, equilibrio, simpatia ed arguzia. Un uomo straordinario circondato dall’affetto, rispetto e stima che tutti gli hanno tributato calorosamente e coralmente. Vive a Milano e partecipa ancora a molte delle manifestazioni alpine.
Dobbiamo auspicare che questa nostra opera possa compiersi e riuscire a fargli rivivere uno scampolo di giovinezza e di buonumore.



46.
IL CORO DEL 64 AUC
(Marco Fioroni)

Rebulla era il maestro / direttore del coro ed era veramente bravo, tanto che riuscì a fare di noi, che non avevamo alcuna esperienza in proposito, un coro.
Nei vari contesti nei quali ci siamo esibiti, abbiamo raccolto pareri molto positivi anche quando questi erano qualificati.
La competenza e la pazienza di Rebulla erano considerevoli. Si provava e si riprovava instancabilmente.
Il mio tono di voce mi aveva incluso nei “bassi” ed il nostro era un coro in piena regola, con tutti i settori ai quali Rebulla assegnava la loro parte specifica che poi sudava ad amalgamare e a bilanciare fra i singoli volumi e le rispettive tonalità.
Le “uscite” del coro furono parecchie e quelle che maggiormente ricordo furono a Villeneuve, a Milano e a Piacenza.
A Milano ci esibimmo in Piazza Duomo con un pubblico enorme e veramente entusiasta del nostro repertorio e delle nostre interpretazioni. Se non ricordo male le nostre esibizioni si inquadravano nel contesto delle manifestazioni itineranti per la celebrazione del Centenario di fondazione del Corpo degli Alpini.
Il repertorio era naturalmente quello classico dei canti degli alpini che a conclusione del Corso incidemmo su musicassette che ebbero un discreto successo.
Come ho già avuto modo di dire, è incredibile quante cose
siamo riusciti a farci stare nei sei mesi del Corso.



47.
ETERNO !
(Marco Fioroni)

Vi era chi sosteneva che esistesse da sempre, o, per lo meno, dalla fondazione stessa della SMALP , così come altri garantivano che avrebbe continuato ad esistere in un tramonto senza sera, in quanto era l’emblema dell’eternità.
Perchè “ETERNO !” (troverete eterno quanto vi aspetta!) urlatoci contro dai cadetti più anziani, era la maledizione “simpaticamente” augurataci, come ad ogni nuovo corso di cadetti, quanto alla durezza della durata del nostro addestramento.
L’emblema di questa “eternità” era un cane, ma, non un cane qualunque : il cane “Congedo” la mascotte della SMALP.
Congedo era un meticcio di media taglia col manto marrone chiaro, screziato di nero e dall’aspetto abbastanza buffo giacchè aveva zampette da bassotto su un corpo tipo labrador a pelo lungo che, con piglio petulante, ogni volta che un reparto usciva dalla caserma, lui si aggregava al primo e qualunque ne fosse la destinazione, lo seguiva sino al rientro in caserma.
Come si è detto, l’età era sconosciuta, come se esistesse da sempre, così come la sua presenza, permanente.
Non mancava di ricevere qualche scherzetto, ma, minimamente perchè il suo contegno era quasi marziale, non indulgeva in confidenze con nessuno, anzi,  con aristocratico distacco e forse anche, con non poca commiserazione, assisteva alle nostre varie vicissitudini, spesso invidiato per la sua “vita da cani”.
Tutti erano li’ che sbanfavano sul percorso di guerra sotto il solleone, o, sbalzando con il “passo del leopardo”e lui era la’ bello spaparanzato all’ombra, con il contegno ineffabile di un generale in rivista delle esercitazioni.
Anche nei trasferimenti e nelle marce più lunghe lui non poteva mancare, con il dovuto contegno, come nelle cerimonie più solenni come i giuramenti.
L’unica cosa mai appurata era se avesse predilezione per un particolare reparto. Sembrava sempre aggregarsi al primo che lasciava la Caserma.
Quando, casualmente, incocciai in un allievo che aveva appena completato il 70° corso, lui mi assicurò che un cane rispondente a quella descrizione, era ancora presente e partecipe di tutte le vicende quotidiane degli allievi.   
Congedo è ancora li’ anche se oggi scorta solo la nostra memoria.



48.
GLI ESCHIMESI AL PICCOLO SAN BERNARDO
(Marco Fioroni)

Non so a chi venne l’idea, o, se fosse, o meno, “istituzionale” ma un igloo in piena regola, venne completato in un paio di serate.
Il campo invernale da allievi, tenutosi a La Thuile, comprendeva alcune esercitazioni, in buona parte notturne, sulle pendici, brulle e innevate, che guardavano verso il passo del Piccolo S. Bernardo.
Alcune unità operavano in quota sulle pendici che si paravano davanti al cocuzzolo su cui stazionavamo, come fossero una lavagna appositamente inclinata.
Per comprendere a fondo il contesto bisogna dire : che eravamo intorno al 15 dicembre, a quota 2.188 m.s.l.m., che non chiesi mai la temperatura, ma, che al rancio di mezzogiorno i maccheroni caldi restavano attaccati, gelati, alla gavetta e il vino, nel gavettino che tenevi in mano, in un continuo movimento e tremolio per il freddo intenso, faceva su il ghiaccio.
Non sapevi se invidiare il tuo turno operativo sulle pendici, o, lo starsene a guardare gli altri quando toccava a loro perchè stare immobile a guardare la lezione operativache ti veniva spiegata su quei pendii, era già mal sopportabile, ma, attendere il raggiungimento e il dispiegamento dei vari reparti in quota, andava oltre ogni peggiore immaginazione.
Fu così che in queste pause forzate, non so chi, decise di costruire un igloo per scacciare il freddo e dare un senso all’attesa.
Le baionette del Garand erano ideali per la bisogna, la neve sovrabbondava ed aveva la dovuta consistenza, pressata com’era, dai nostri reparti che vi stazionavano da giorni.
La sua collocazione sarebbe stata quella dell’osservatorio che si trovava sul cocuzzolo appena a monte della strada del passo che per la stagione era chiusa al transito veicolare civile.
Preparato un piano adeguato si iniziò a tagliare i blocchi e gradualmente a posizionarli con le dovute malizie di rastremazione affinchè, avvicinandoci alla sommità, il tutto non finisse con il crollarci in testa.
Ma tutto funzionò alla perfezione e, non mancando la mano d’opera, in due tappe tutto trovò compimento.
Mi pare di ricordare che, senza esagerare, riuscimmo ad entrarci in quaranta.
Le condizioni di permanenza erano tali da indurre a non uscirne più giacchè, riparati dall’aria gelida e con tanto “calore umano” profuso per realizzarlo,ma, sopratutto, per “l’irraggiamento” di noi occupanti, si stava d’un gran bene, così si decise una rotazione temporanea per trarre ciascuno un po’ di conforto in quella landa notturna desolata.
E’ un piacere che ricordo ancora con soddisfazione ogni qualvolta mi capita di ritrovarmi in un contesto simile, quando
è inesorabile subire il freddo intenso.   



49.
CONSEGUENZE CORPORALI DELL’ADDESTRAMENTO ALLA AEROCOOPERAZIONE
(Marco Fioroni)

Le esercitazioni pratiche per apprendere le modalità con le quali chiedere e coordinare il fuoco di attacco, o, difesa dei caccia della aeronautica era stato spettacolare.
Partiti di buon mattino dalla caserma, avevamo raggiunto le pendici delle alture che chiudevano, verso nord-ovest la conca di Aosta. Collocati a mezza costa, rilevati di un centinaio di metri rispetto al fondo valle, avevamo assistito con grande interesse alle procedure e alle modalità radio per guidare il fuoco di appoggio o copertura. Sorprendente anche se tecnicamente scontata, l’impossibilità di individuare. visivamente, i caccia in avvicinamento.
Pur sapendo da dove dovevano arrivare, la velocità supersonica, la dimensione ed il profilo facevano si che solo in pochi casi ci si accorse che un puntino che sembrava un moscerino ti era già passato improvvisamente sopra la testa con un boato immane che per qualche minuto ti lasciava stordito. Era uno spettacolo tecnologicamente avvincente e ti faceva considerare che se fossi stato tu l’obiettivo e ti trovassi allo scoperto, gli eventuali tempi di reazione per mettersi in salvo, sarebbero stati pressochè inesistenti o del tutto affidati al  caso.
La stagione autunnale era splendida e la calura quasi estiva, tanto che la sete aveva presto cominciato a farsi sentire, così, fra una esercitazione e l’altra, allontanandosi a gruppetti, si cercava di scoprire un po’ d’acqua perchè le borracce erano ormai tutte vuote.
Nella mente c’erano le lance che sparavano l’acqua a decine di metri con i loro zampilli di cui, da Aosta, vedevamo piena la montagna. Ma, non li’.
Fu così che una pattuglia in esplorazione clandestina, scoprì a non molta distanza, alcuni vigneti già vendemmiati, sui quali erano rimasti molti grappoli, probabilmente non maturi al momento della prima vendemmia. Non mancavano mandorli e meli. Ce n’era quanto bastava e, soprattutto appariva in stato di abbandono, con i filari di vite in disordine, avviluppati da   arbusti e infestanti e con tutto quel ben di Dio, quasi certamente, lasciato a marcire.
Sete, fame, golosità, piacere della scoperta inattesa, fecero il resto. Ognuno si dedicò a quanto preferiva, ma, comunque si provò di tutto. L’uva fu la preferita e quasi tutti abbondarono e diffusero la notizia della scoperta, così, alla spicciolata, in gran numero si contribuì a completare la vendemmia.
Di acqua, come si è detto, non ve n’era , così, tutto venne mangiato senza lavarlo. Difficile dire quando avesse piovuto l’ultima volta, quel che è certo è che una stagione così assolata e senza precipitazioni, era fuori dal comune.
Da luglio, mese del nostro arrivo, si era a ottobre, e non era caduta una goccia d’acqua che peraltro non ci sarebbe sfuggita visto che le attività esterne erano quotidiane.
Sta’ di fatto che, in capo a un’oretta, si scatenò un attacco di dissenteria generalizzato. Chi era delicato di intestino, non la scampò e per i successivi due giorni visse più nei vari servizi igienici che al di fuori di essi. Per altri fu forse l’eccessiva  quantità trangugiata, pochi se la cavarono impunemente. 
Non ci volle molto ai nostri comandanti per accorgersi di cosa stava succedendo e quali ne erano le cause.
Insperabilmente la cosa suscitò in loro solo ilarità e non generò provvedimenti del tipo, dieci percorsi di guerra o consegna per giorni ... Probabilmente la visibile debilitazione di chi non aveva retto la prova, venne ritenuta, già di per se’, punizione sufficiente.
Non molti giorni dopo trovammo servita a tavola dell’uva. Ricordo che la cosa ebbe un’accoglienza inevitabilmente contradditoria. Chi era stato male non ne sopportava la vista, con grande soddisfazione degli altri che si mangiarono doppia razione.



50.
RIDERE FINO ALLE LACRIME
(Marco Fioroni)

Il tempo che si passava in camerata non era molto e la intensa attività fisica quotidiana, spesso non lasciava molto spazio ad altro che al sonno. Ciò non impediva che tutta una serie di vicende vivessero ben al di la’ del loro frangente giornaliero, variamente intersecandosi con gli echi delle diverse sfere di affetti che ognuno di noi aveva temporaneamente lasciato per la pausa del servizio militare.
La tipologia delle frequentazioni femminili aveva una gamma pressochè infinita, spaziando dalla assoluta serietà dei più attempati, giù giù fino a quella più scanzonata di chi era ancora un battitore libero a tutti gli effetti.
L’oggetto preferito del divertimento era la corrispondenza in partenza e in arrivo, incombenza cui partecipava tutta la camerata in una reciprocità libera e disinvolta che non aveva segreti per nessuno. Le lettere in partenza avevano il divertimento dell’invenzione, delle baggianate più assurde e delle fandonie più roboanti e improbabili.
Le lettere in arrivo erano uno spasso come conseguenza di quello che avevamo loro scritto.
E in questo senso posso affermare che la nostra camerata era senz’altro unica e inarrivabile, vivendo di un terzetto che non aveva uguali : un lucchese, Nicoli, un genovese, Valerio Poggi, un veneto Roberto Braggion. Noi, gli altri sette, eravamo ottimi comprimari, ma non raggiungevamo mai i loro livelli.
Buona parte delle pause nelle quali ciò era possibile, vivevano dello scambio fra Nicoli e Braggion di invettive e battute al vetriolo con insulti scherzosi, per il primo, tratti, come le sue barzellette, da un infinito repertorio toscano, ornato di parolacce, persino bestemmie, fiorite e colorite, ma, sempre dette senza intenzione, per pura citazione, del tipo “abbiamo anche questa.....”.
Braggion aveva, naturalmente, il suo repertorio di repliche e fra i due si interponeva, sempre ad effetto, Valerio Poggi, la cui arguzia era superata solo dalla sua simpatia.
A fare quella unicità di cui parlavo, contribuiva la cultura e la buona conoscenza del tedesco su cui Poggi poteva contare e che spiegherò quanto fossero determinanti negli scherzi epistolari indirizzati al nostro pubblico femminile.
Erano anche i tempi di “Alto gradimento” che con Arbore e la sua corte, si ascoltava, tra una castroneria e l’altra, nella pausa dopo pranzo del riposo pomeridiano, quando dovevi cercare di restare sveglio per non ritrovarti come un sonnambulo alle attività che riprendevano nel pomeriggio.
Gli schiamazzi non erano ammessi per cui quando il livello delle risate e delle diverse vicende era eccessivo, prima o poi c’era l’intervento di qualche superiore accompagnato da qualche provvedimento disciplinare.
Uno degli eventi più spassosi ebbe a protagonista Nicoli.
Come era solito fare se ne era uscito con una delle sue che aveva subito polarizzato l’attenzione di tutti. Era una storiella che non riuscirei a ricordare, ma, se anche lo potessi, non renderei minimamente la “vis comica” della recita di Nicoli. Con le lacrime agli occhi e in preda alle convulsioni dal ridere, tanto da non essere in grado di risollevarci dal letto, nessuno si accorse che alle nostre spalle, la porta si era aperta e nel suo vano troneggiava la figura del temuto tenente Fidanza.
Nessuno fu, poi, in grado di dire da quanto tempo si trovasse li’, probabimente non interveniva, a sua volta divertito da quell’insieme assolutamente esilarante di nove persone intente a sbellicarsi dalle risate, tanto da non capire più nulla.
Non ricordo più chi, ma, qualcuno si accorse e ammutolì, o meglio cercò di ammutolirsi, ma, con gli occhi pieni di lacrime, qualche gesto che doveva servire a mettere gli altri sull’avviso, impiegò il suo tempo, sinchè, preso dalla sua narrazione rimase solo Nicoli a non aver percepito il pericolo e quindi procedendo verso l’epilogo.
Fu a questo punto che rischiò di succedere il peggio perchè non c’è nulla di più difficile che trattenere una risata quando il contesto contribuisce al contrario, diffatti avrete provato che ridere a bocca chiusa può far scappare qualcosa di molto simile a una pernacchia, e così avvenne quando Nicoli completò la sua storiella, accorgendosi nel contempo, di chi aveva alle spalle.
Mi rivedo a faccia in giù sul letto, nella speranza di non farmi sentire, contorcermi in una risata afona, senza fine.
Ristabilitosi un silenzio da tomba, senza proferire parola, come era arrivato, Fidanza, se ne andò. Siccome poi non vi furono provvedimenti, ci piacque pensare che si fosse precipitato altrove per scoppiare a sua volta, in una risata, non potendo farlo davanti a noi perchè la disciplina imponeva di non fraternizzare con i subalterni.
Molte volte può capitare di rimpiangere il non aver conservato qualcosa. Questo è uno di quei casi.
Non ci sarebbe stato possibile rientrare in possesso degli scritti che inviavamo alle nostre amicizie femminili, ma, avremmo potuto conservare le loro risposte che ricevemmo e dalle quali si traeva gran divertimento collettivo. Dalle loro risposte, domande, preoccupazioni, consigli, suggerimenti, tutti indotti dalle castronerie che ci inventavamo per loro, ce ne sarebbe stato di che farne un libro divertentissimo. Si spaziava su un vasto repertorio ; concordammo una finta delazione, indirizzata alle amicizie femminili di un paio dei nostri, nella quale esternavamo le preoccupazioni che dicevamo di nutrire per la loro virilità, insidiata da profferte omosessuali di una non ben precisata figura che si aggirava in caserma e che minacciava di avere successo per la mancanza della componente femminile.
Vi erano risposte serie, con propositi gustosi, per rimediare a un simile problema, altre lasciavano intendere, con suggerimenti più o meno piccanti che stessero rendendo la pariglia ai nostri scherzi. Così come fosse il divertimento era assicurato.
Un successo notevole riscosse il repertorio che Valerio Poggi sfoderò con alcuni scampoli tratti dal “Viaggio in Italia” di Goethe, che lui conosceva a memoria e che, inframmezzati ad arte nei nostri scritti costituirono la dannazione delle nostre amiche. Era bastato far creder loro che per motivi di sicurezza e di servizio dovevamo criptare i nostri messaggi, costringendole così a lunghe e ardue sedute di traduzione. Ma, anche ciò non costituiva la fine della fatica, perchè, poi, si diceva loro che il vero significato doveva essere decrittato.In realtà, era semplicemente  quello letterale, spesso, a nulla pertinente, ma, loro non lo sapevano e ciò bastava a farle arrovellare inutilmente.
Si fosse trattato di un testo inglese, tante ne masticavano, ma, il tedesco era ostico. Il divertimento durò finchè cominciammo a ricevere scritti indecifrabili, non era alcuna lingua, poteva sembrare esperanto, ma non lo era. Semplicemente : avevano mangiato la foglia e ci stavano rendendo la pariglia.



51.
INCURSIONI NOTTURNE
(Marco Fioroni)

Fra le poche mansioni concretamente utili, affidate agli allievi ufficiali, vi era il servizio di guardia all’eliporto di Pollein, località ubicata alla periferia sud ovest di Aosta.
La rotazione dei turni di guardia riguardava soprattutto le ore notturne. Durante la mia permanenza alla Scuola ci finii due volte e una di queste fu una notte molto movimentata.
Dopo esserci disposti secondo le consegne, trascorsi i primi turni di guardia, nel cuore della notte, le varie sentinelle dei percorsi perimetrali vennero attaccate da numerose persone disseminate alla spicciolata lungo tutto il perimetro, all’esterno della recinzione e ai margini della rada e bassa vegetazione che circondava l’eliporto.
Servendosi di fionde, colpivano le sentinelle con pallettoni di piombo. Una sortita, fuori dalla recinzione, nel buio, con la necessità di non lasciare sguarnito l’eliporto, quindi con un numero esiguo di partecipanti alla battuta, venne subito esclusa. La situazione venne segnalata al comando che inviò alcuni mezzi dei Carabinieri, ma, gli attaccanti si dileguarono per poi ricomparire quando stava per albeggiare. Non si è mai potuto stabilire esattamente di chi si trattasse. Gli unici elementi, magari finiti li’ per caso, si diceva riconducessero a un gruppuscolo anarco- insurrezionalista.
Qualcosa che avvalorava l’azione organizzata, anche se solo di disturbo, o, dimostrativa fu il ritrovamento di alcuni brandelli di carta facenti parte di un articolo apparso sulla stampa e che trattava della eversione organizzata che sarebbe poi esplosa nei successivi “anni di piombo”.
Allora non facevano ancora notizia questi eventi e, probabilmente, non vi era alcun nesso.
Ricordo che questo ritrovamento avvenne, diversi giorni dopo quella notte, ad opera nostra e casualmente.
Nella zona prospiciente la Dora e non molto lontano da Pollein eravamo di casa perchè li’ si svolgeva l’addestramento al combattimento, secondo i vari schemi e le varie tattiche allora fondate sulla guerra di Corea e del Vietnam.
Così come fosse, per la nostra formazione di comandanti di plotone assaltatori, passavamo qualche ora al giorno a strisciare con il “passo del leopardo”e a “sbalzare”.
Così, qualcuno trovò quei brandelli di carta e io invece scoprii l’esistenza della rucola.
Durante le varie esercitazioni con la faccia nell’erba percepivo sempre questo odore acre, o, quantomeno equivoco dato che, per me, comasco, quel tipo di insalata era sconosciuto.
A illuminarmi fu il solito Roberto Braggion che da bravo veneto era in grado di apprezzarla, tanto che per dimostrarmelo si mise a mangiane un ciuffo. Potenza degli anticorpi e della gioventù; era da quando giungemmo ad Aosta che ci strusciavamo e camminavamo sopra, con tutti gli annessi e connessi di queste operazioni.
Devo dire che in breve feci anche varie altre scoperte culinarie.
La più traumatizzante fu l’incontro con la “bagna cauda” o meglio, con i postumi legati al suo consumo.
Anche in questo caso, la nostra camerata aveva la sua particolarità che si chiamava Cocchi. Questo nostro simpatico collega aveva la bella abitudine, trovandosi vicino come  torinese, di rientrare dai permessi domenicali, a silenzio suonato e con noi profondamente addormentati.
Ricordo che la prima volta che ciò accadde, al risveglio percepimmo questa acre atmosfera senza comprendere esattamente di cosa si trattasse e da dove provenisse. Qualche scherzo degli anziani ? Qualche diavoleria dell’addestramento NBC sfuggita al controllo ? Sembrava quest’ultima l’ipotesi più probabile perchè ciò che sentivamo era troppo violento,ma, poteva sembrare aglio, e appunto si diceva che i gas nervini  avessero quell’odore.
Bastava però uscire dalla nostra camerata per andare a lavarsi ai servizi igienici collettivi, per sentir tornare respirabile l’aria. Ma, non si era ancora a nulla, perchè era il rientro ad essere quasi impossibile dopo aver respirato l’aria pulita. Sembrava impossibile aver superato la notte in quella camera a gas. La fortuna voleva che iniziando subito dopo le attività esterne, l’aria della camerata aveva il tempo di ricambiarsi e di tornare nuovamente respirabile. Si fece l’abitudine, così, molti lunedì mattina celebrarono il trionfo della “bagna cauda”.
Devo dire, ad onor del vero, che furono due ottime scoperte cui,  in seguito, avrei tributato il giusto merito, rispetto umano, per le narici altrui, a parte. Buona la rucola, strepitosa la “bagna cauda”.
Quanto al rispetto umano e la “bagna cauda” non posso dimenticare l’esperienza del Maggiore Veronelli, Aiutante di Stato Maggiore alla SMALP. Quel giorno eravamo schierati al piede della palestra di roccia per la prima arrampicata sulle vie sino al quinto grado, quando lo vedemmo arrivare in divisa d’ordinanza.
Ricevuto che ebbe il saluto del reparto, si diresse verso la parete rocciosa che, ai più, incuteva qualche timore, e con i mocassini e il cappello alpino in testa, come un gatto, in meno di un minuto, salì fino alla sommità, in arrampicata libera, senza sicurezza. La sua arrampicata aveva la scioltezza di chi si stesse muovendo nel salotto di casa.
Ora toccava a noi. La mia squadra fu la prima. Al piede della parete ci spiegò che non c’era motivo di dover correre dei rischi visto che stavamo imparando, pertanto, saremmo saliti con l’imbracatura e con alcuni di noi a fare sicurezza con le funi, in modo tale che in caso di caduta saremmo rimasti appesi come salami, ma, senza danni.
Ci spiegò come dovevamo indossare l’imbracatura e collocare le funi e per farlo si accostò a uno di noi per accomodare il tutto come era necessario.
Non potrò mai dimenticare l’espressione buffa e schifata del suo volto e le parole che, quasi in apnea, disse al mio compagno:”Figliuolo in cordata con te, o mi butto di sotto io, o ci butto te”

La bagna cauda aveva colpito ancora.



52.
CARO AMORE, TI SCRIVO!
(Paolo Moneta)

Appena raggiunta la SMALP, tra tutte le incombenze ed assegnazioni che contraddistinsero quei giorni, fu anche comunicato ai ragazzi l’esatto indirizzo che avrebbe dovuto essere indicato sull’intestazione di tutta la corrispondenza in arrivo. 
In particolare, per favorirne un più rapido smaltimento, andavano specificati la qualifica (AUC) ed il numero della compagnia di appartenenza.
La distribuzione della posta avveniva al termine del pranzo di mezzogiorno, all’interno della palazzina degli allievi.
Il rituale era sempre il medesimo: un caporal maggiore, intorno alle 12.30, spuntava dalla fureria con l’attesissimo pacco di missive e veniva di colpo attorniato dalla speranzosa massa degli allievi. Poi declamava i nomi dei fortunati con flemmatica suspense e contestualmente consegnava loro l’ambitissimo premio.
La prima reazione istintiva dei baciati dalla sorte consisteva nel girare rapidamente la missiva per controllarne il mittente. Scopertone il nome, il fortunato allievo manifestava il livello della sua soddisfazione con tre diversi comportamenti, ormai perfettamente codificati.
Se riponeva in tasca la lettera con fare noncurante e continuava tranquillamente a chiacchierare con i compagni, lo scrivente non poteva essere che un famigliare.
Se si comportava in modo più o meno analogo, ma accompagnava con un sorriso la lettura del nome del mittente, probabilmente era un caro amico che si era ricordato del collega partito per fare il soldato.
Se invece il leggero sorriso si allargava e veniva accompagnato prima da un evidente sgranamento degli occhi e poi da una rapido scatto verso il proprio posto branda, non vi era alcun dubbio: la lettera veniva dalla morosa!

N.B.: non si facciano, nel merito, inutili illazioni, accostando la ‘morosa’ al ‘posto branda’. Nella comunità della caserma, la privacy non esisteva. Ed il proprio sgangherato lettino, in una camerata condivisa con altri nove ragazzi, rappresentava l’unica collocazione in cui, con un notevole sforzo di buona volontà, si riusciva a restare un po’ soli con se stessi.

Nerio Albertoni era un ragazzo d’oro. Educato, riservato, discreto. A chi gli chiedeva da che città venisse, lui non rispondeva ‘Cittadella’, ma preferiva dire che abitava vicino a ‘Bassano del Grappa’, così da non mettere in difficoltà chi non sapesse dove fosse il suo paese natale.
In quel primo pomeriggio di agosto, alla consueta distribuzione della posta, era stato tra i primi ad essere nominati. Rigirò tra le mani l’incartamento appena ricevuto e schizzò più veloce di Mennea verso la sua camerata, la numero 1.
Con la solita discrezione che accompagnava i giovanotti di quell’età, i compagni di stanza, non appena videro il trafelato Nerio sdraiarsi sul letto, giusto per favorire quel minimo di intimità che il ragazzo cercava di conquistare, intonarono il consueto ‘OOOHHHHHH’, naturalmente in crescendo. Esclamazione che sarebbe cessata solo all’apertura della missiva, per trasformarsi poi in assoluto silenzio, con lo sguardo di tutti gli astanti rivolto sfacciatamente verso il ‘fortunato malcapitato’.
Nerio, che ormai aveva già rinunciato alla desiderata riservatezza, aprì la busta e si immerse nella lettura.
Poi, d’un tratto, la sua espressione, in un primo tempo gioiosa e felice, cominciò a trasformarsi.
Si fece prima serio, poi preoccupato, quindi addolorato.
Un piccolo raspino di gola anticipò di un attimo la prima lacrimuccia.
Anche i compagni, che scherzosamente non avevano ancora smesso di puntarlo con gli occhi, compresero il suo piccolo dramma. La sua dolce metà gli stava scrivendo che nei suoi sentimenti si era insinuata una piccola crepa (magari aveva pure, la piccola crepa, un nome ed un cognome) e che necessitava di una lunga pausa di riflessione, da sempre la miglior menzogna per anticipare una definitiva rottura.
Trascorsero soltanto due giorni e questa volta il destinatario di un nuovo scritto fu Francesco Castelli. Il torinese Francesco era un po’ il Super Man della camerata. Alto, magro, aitante, bello, tutto muscoli. Di ragazze, lui, avrebbe dovuto averne a manciate e la fortunata che se lo era accaparrato mai e poi mai avrebbe solo potuto pensare di abbandonarlo. Purtroppo si verificò l’esatto contrario. Francesco, appena terminò la lettura, rimase impassibile per qualche secondo, poi, nervosamente, stracciò ed appallottolò quel foglio di carta portatore di cattive notizie e lo gettò con un perfetto tiro da tre punti nel lontano cestino. Quindi, tra il seccato e l’indifferente, nascose la testa nel suo confortevole cuscino.

‘Non c’e due senza tre’ è un antico proverbio della cultura popolare italiana. La sua nascita è influenzata dal fatto che ‘tre’ è considerato il numero perfetto. Tre sono le persone della Santissima Trinità, tre sono le dimensioni del mondo in cui viviamo. E tre furono anche le perfide fanciulle che osarono sbarazzarsi di tre valorosi e promettenti allievi ufficiali che albergavano nella camerata numero 1.
Il termine ‘perfide’, in questo contesto, è il risultato di una severissima censura imposta dalla redazione. Si lascia alla razionale fantasia dei lettori la definizione originale di questi miseri personaggi di natura femminile. Costoro, mentre il loro amato si esercitava sotto un sole cocente e truccato da soldato a fare il passo del leopardo strisciando sotto un reticolato di filo spinato a Mont Fleury, se la spassavano sul litorale tirrenico ed adriatico, indossando un risicato bikini più vedo che non vedo e muovendosi sinuosamente sul telo mare per perfezionare l’ambita tintarella e per sollecitare la curiosità dei bell’imbusti che ronzavano attorno. E poi scrivevano che necessitavano di un momento di ponderazione…!

Ormai, almeno per i ragazzi del primo stanzone, la consegna della posta, da momento di gioia, stava trasformandosi in un vero e proprio incubo.
“Bozzo Mirco”, recitò con enfasi il sergente Gard, con in mano il pacchetto della corrispondenza giornaliera.
Mirco, ligure di Lavagna, era un ragazzo ‘per bene’. Tranquillo, simpatico, un po’ fatalista. Solo una settimana prima di partire per Aosta si era ‘fidanzato’ con una nuova fiamma, di nome Madi. C’era stato solo qualche scambio di bacetti ma non ancora la promessa dell’amore … Ma purtroppo, come gli amici Albertoni e Castelli, anche Mirco soggiornava nell’ormai scalognata camerata numero 1.
Fu il terzo condannato dalla pausa di riflessione!

Da quel giorno, soddisfatti i numeri richiesti dall’antico proverbio della cultura popolare italiana, non si verificarono in quella camerata ulteriori episodi strappa lacrime ed i ragazzi poterono nuovamente recarsi con sufficiente tranquillità al ritiro della corrispondenza.



53.
UNA BOTTIGLIA DI GRAPPA ALLA PERA
(Sandro Bazurro)

Era il periodo della mietitura del grano, quando si sparse la voce che anche alla Scuola si potesse usufruire di licenza per lavori agricoli; considerate le scarse prospettive di rivedere a tempi brevi la propria casa, gli amici e la morosa, alcuni addussero questa motivazione per perorare la propria istanza.
Le licenze agricole, da sempre esistite nell'esercito italiano, erano concesse in periodi e per motivi ben definiti, come la mietitura delle granaglie o la vendemmia dell'uva. Per avere diritto ad esse bisognava far figurare che la famiglia viveva sul lavoro della propria campagna od essere braccianti agricoli. Spesso erano gli stessi consorzi agricoli a richiedere la presenza del militare. In altri casi erano invece i famigliari a chiedere la licenza agricola per il proprio parente, facendo addirittura accompagnare tale richiesta da una lettera del Sindaco del paese, il quale testimoniava la particolare esigenza.
Fatto sta che qualcuno, facendola in barba alla ferrea disciplina delle italiche Scuole Militari, riuscì a partire in licenza, seppur per un breve periodo. Tra questi il fuciliere Giuliano Secchi della camerata n. 8.
Al ritorno per addolcire l'invidia dei colleghi i presunti agricoltori portarono da casa, ai meno fortunati, beni in natura, da condividere nelle lunghe serate in caserma.
Non si ricorda se in quella, od in altra occasione, l'amico Giuliano portò una magnifica bottiglia di grappa con pera williams all'interno, celandola accuratamente nel proprio armadietto.
La manovra non sfuggì agli attenti compagni di camerata, che pensavano volesse sottrarla al bene comune, mentre invece il medesimo la sera stessa ne dissigillò il contenuto, centellinandolo nei gavettini dei presenti.
Ad onore del vero ne bevvero tutti con avidità ma anche con moderazione ed a più riprese venne offerta l'agognata libagione, ovviamente a discrezione del proprietario, irremovibile anche alla successiva richiesta di qualche spudorato compagno per un presunto problema di digestione.
Ma un giorno oscuro l'allievo Secchi, complice l'immancabile fretta della vita alla Scuola, comandato a svolgere un servizio di caserma, dimenticò l'armadietto socchiuso, un minimo spiraglio dal quale si intravedeva l'oggetto del desiderio della camerata.
Non si sa come, non si sa perché, fatto sta che la galeotta bottiglia venne prelevata ed il prezioso nettare andò a riempire il gavettino dei presenti, escluso naturalmente il legittimo proprietario in quanto assente. Nell'euforia del momento qualcuno addirittura chiese: Giuliano, possiamo? nessuna risposta e quindi per il famoso detto che chi tace acconsente, si pensò di brindare anche alla sua salute.
Dopo ripetuti brindisi, la bottiglia venne rimessa al suo posto precisamente e devotamente, pensando che il fattaccio passasse inosservato, ancorché il livello fosse paurosamente calato.
Ora, non sappiamo se da buon precisino quale era il collega, o forse dubbioso circa la rettitudine dei suoi compagni di camerata, fatto sta che il primitivo livello del liquido nella bottiglia, era stato segnato.
Obiettivamente la mancanza era evidente.
 Al ritorno rinvenuto l'armadietto aperto ed effettuata una breve ricognizione sugli effetti personali custoditi, Giuliano scoprì l'ammanco, mentre i presenti fingevano di essere distratti ed impegnati in altre faccende, pur tenendone d'occhio la reazione.
In verità il medesimo un pochino si adirò con loro, ma per poco in verità, perché ben presto il suo solito sorriso sornione, fece capolino dallo sguardo cupo, tacito segnale che il perdono aveva preso il sopravvento.
Acqua, pardon grappa passata.




54.
FINALMENTE STEN!
(Giuliano Levrero)


E venne il temuto momento degli esami di fine corso che avrebbero deciso le sorti di tutti noi.
Dopo tanti sacrifici, vessazioni di ogni tipo e tentativo costante di annullamento della personalità di ognuno di noi durati sei lunghi mesi, gli esami ci avrebbero permesso la possibilità di conseguire l'anelato grado di Sotto Tenente.
Eravamo decisamente 'sulle spine' ed abbastanza nervosi.
Dopo la prova scritta, di cui non ricordo assolutamente nulla, venne il giorno dell'orale che durò circa mezz'ora per ognuno di noi.
Se ben ricordo ero stato meno teso all'esame di laurea e all'esame di abilitazione alla professione conseguiti l'anno precedente!
La commissione esaminatrice era composta di tre membri: Presidente era il Colonnello Verunelli, Comandante delle due Compagnie AUC.
Ogni membro della Commissione aveva a disposizione una pallina bianca ed una nera con le quali dare un giudizio positivo (bianca) o negativo (nera) a seconda dell'andamento dell'interrogazione che spaziava su tutte le materie studiate, a fatica, durante i sei mesi precedenti.
Finita l'interrogazione le tre palline, in modo celato, erano collocate tramite un foro in una scatoletta dotata di cassetto da cui successivamente si estraevano.
Il giudizio era dato all'istante e poteva essere del tutto positivo (tre bianche), del tutto negativo (tre nere) oppure mediocre; ovviamente il 'verdetto' comprendeva anche l'esito della prova scritta.
Ricordo chiaramente l'interrogazione di “Topografia”, di “Arte Militare”, di “Armi e Tiro” e di “Trasmissioni”, ma la memoria viene meno sulle altre domande, comunque riuscii ad ottenere tre palline bianche ...evvaiii!
Fummo promossi tutti tranne uno. Ne fummo meravigliati e stupiti; ricordo che commentammo il fatto con amarezza perché durante il Corso e all'esame si era comportato come tutti noi!
Fatto sta che il poveretto, causa lo shock, rimase in camera piangendo per tutto il tempo sino al termine del corso.
Non è dato sapere la sua destinazione, ma non di certo al mio Battaglione “Aosta”.
Terminato il corso (era poco prima di Natale), ottenemmo l'agognata 'ordinaria' che probabilmente si protrasse qualche giorno in più per dar modo ai nostri colleghi del 63° di terminare il loro servizio di Sergentato AUC e di insediarsi al Reparto prima di noi.
Finalmente un po' di riposo in famiglia e con la propria fidanzata.
Non ricordo la mia graduatoria, ma fui assegnato alla Taurinense - 4° Reggimento di stanza a Torino.
Una mattina a casa un carabiniere mi consegnò un dispaccio in cui mi si avvisava di recarmi presso il Comando di Stazione per comunicazioni che mi riguardavano.
Compresi subito di cosa si trattasse e mi recai immediatamente in caserma ove fui accolto dal Maresciallo Comandante che, sorridendo compiaciuto, mi porse una notifica del Comando di Reggimento – Caserma Monte Bianco di Torino. La apersi con curiosità e soddisfazione: mi si comunicava di recarmi il tale giorno alla tale ora presso l'Ufficio del Comandante Colonnello Forneris per il Giuramento quale Ufficiale e per la destinazione al Reparto. Congedandomi, il Maresciallo mi strinse la mano e mi disse: <auguri Signor Tenente!> … sentirsi chiamare “Tenente”… mi sentivo un po' 'importante'.
Fu così che il tale giorno alla tale ora (era di pomeriggio) mi presentai al Comando della “Monte Bianco” a Torino: i futuri colleghi Sten assegnati al 4° Reggimento erano in corridoio al primo piano della caserma nei pressi dell'ufficio del Comandante; ci salutammo con affetto e con una certa eccitazione nella speranza di essere assegnati al Reparto desiderato.
Non ricordo i nomi di tutti i presenti.
Speravo vivamente di poter tornare ad Aosta, al Battaglione nella Caserma Testafochi.
(come inciso: ad Aosta erano già stati assegnati alla nostra Scuola Militare alcuni colleghi risultati i più idonei e meritevoli).
Fumo ricevuti nell'ufficio del Comandante e ci schierammo sull'attenti e perfettamente inquadrati con la nostra 'diagonale' , cappello, sciarpa, camicia e cravatta in perfetto ordine e senza pieghe, scarpe luccicanti.
Dopo la presentazione individuale ed il discorso del Colonnello, ad uno ad uno giurammo secondo il rito e ritornammo ai nostri posti.
Il Colonnello assegnò ad ognuno la destinazione con l'ordine di presentazione immediata al reparto; avvisò però che, se nell'ambito della stessa specializzazione qualcuno di noi avesse voluto cambiare destinazione con qualcun altro disponibile, non ci sarebbero stati problemi di sorta.
Di seguito, dopo i saluti anche alla bandiera, uscimmo in corridoio.
Si formarono alcuni gruppetti per commentare le destinazioni mentre altri compagni passeggiavano lentamente assorti nei loro pensieri.
Ero stato assegnato al Battaglione “Susa” di stanza nella Caserma Berardi di Pinerolo, ma non ero tanto soddisfatto; avrei preferito tornare ad Aosta.
Casualmente (e fortunatamente) mi era capitato di sentire che Ernesto Brociero era stato destinato ad Aosta e mi era parso non fosse così contento, per cui mi avvicinai e gli chiesi la sua disponibilità al cambio: accettò di buon grado. Tornammo dal Colonnello Forneris che fece modificare le destinazioni; non posso ricordare se altri seguirono la nostra mossa.
In quel periodo abitavo a Torino con i genitori; per  raggiungere Aosta (allora avevo la mia bella GT 1300 junior dormiente a casa mia a Novi) in precedenza in caserma mi ero messo d'accordo con Michele Casini e Roberto Salati, che erano venuti a Torino in macchina da Milano per prestare giuramento ed erano stati assegnati al mio stesso battaglione.
Arrivati alla Testafochi ci presentammo al Corpo di Guardia: l'Ufficiale di Picchetto ci accompagnò al circolo Ufficiali ove tutti gli Sten (cioè i “vecchi” del 62° ed i nostri “fratelli maggiori” del 63°) erano in 'trepida attesa' di conoscere i nuovi 'polli' da spennare.
Eravamo in sette: oltre il sottoscritto, Michele Casini, Mario Lorenzi, Alfredo Marchelli, Roberto Salati, Roberto Tesio, Giuseppe Tropenscovino.
Tutti, tranne noi 'poveretti', sapevano già a quale Compagnia ognuno dei nuovi arrivati era stato assegnato.
Il Circolo comprendeva un lungo corridoio d'entrata che divideva due zone: la sinistra con il bar, cui seguiva la cucina ed in fondo i servizi igienici; la destra con l'ampia sala lettura cui seguiva la grande sala mensa.
Ovviamente fummo 'ricevuti' al bar ove ci fecero presentare uno per uno ad alta voce; capitò che nell'imbarazzo a qualcuno scappò di presentarsi con: “Allie... Sottotenente ...”, per cui ad ogni  stupidaggine 'sparata' seguiva, quale punizione, una bevuta o una 'pinciata' o qualcosa d'altro che si inventavano sul momento (non ci avevano lasciati spogliare ed eravamo con il 'castorino' … un caldo boia).
I nostri “vecchi” si erano messi in combutta con gli alpini del centralino posto al primo piano della palazzina comando vicino alla maggiorità; ad un certo punto ci ordinarono: <appena sentirete squillare il telefono in fondo al corridoio dovrete ad uno ad uno 'schizzare con il passo del leopardo'  (con il 'castorino' ed il cappello indossati) sino laggiù, alzare la cornetta e presentarvi a gran voce perché così distanti sentiamo poco!; se l'ordine sarà stato eseguito male o la voce non sarà chiara, sarà ripetuto il tutto!!>; qualche volta 'dovette' succedere e lucidammo quindi con il 'castorino' nuovo il bel pavimento del corridoio. 
Avevamo comunque il sentore che qualcosa non quadrasse …. ma non riuscivamo ancora a capire cosa.
Il Battaglione “Aosta” in quel tempo era operativo a tutti gli effetti per cui i nostri “vecchi” del 62° iniziarono a farci un quadro allucinante della vita nelle cinque Compagnie, mentre i 'fratelli maggiori' del 63° annuivano con grande deferenza: Comandanti tremendi, punizioni continue, fatiche immani, servizi continui, rischi di ogni tipo ….
Subito, disorientati, rimanemmo a bocca aperta ed occhi spalancati guardandoci supìti negli occhi, poi pian piano capimmo.....
Ci facevano domande e ad ogni minimo tentennamento o sbaglio dovevamo sottometterci ad una goliardica punizione che in ogni caso non fu mai eccessiva o malevola, ma abbastanza comica ed accettabile, compreso il 'bacio alla mula'... hem!!...qui non mi dilungo; 'dulcis in fundo' ci fecero saltare dalla finestra del bar che dava sul piazzale e correre sotto l'alzabandiera ad 'aquilare'.
Alla fine di tutto si svelarono e comprendemmo ciò che ci era parso un pò ... strano: alcuni “vecchi” si erano cambiati di ruolo con i baristi e viceversa; si fece tutti una grande risata con altre bevute e pacche sulle spalle.
Il giorno successivo ognuno di noi prese possesso delle proprie mansioni in Compagnia.

….Ma questi sono altri ricordi.



55.
QUADRI DI UNA ESPOSIZIONE...
(Vinicio Callegari)

Comandante ad interim di compagnia....
Qualche patema d‘animo leggendo i compiti a cui era preposto il Comandante. Esistevano nei reparti una “cassetta blindata” nella quale vi si trovavano sia i “codici per gli allarmi NATO” sia altre cose come “l’elenco dei segnalati” per reati di opinione (o per iscrizione a qualche partito politico) oppure per reati comuni contro il patrimonio o penali di vario tipo. Era chiaro che per i segnalati per reati veniva ‘vivamente sconsigliato di provvedere a incarichi di particolare importanza’.
Pieno di zelo e di sana curiosità mi ero deciso a spulciare quella lista dei dannati ma, guarda caso, cosa mi ero trovato? Fra gli incarichi da non assegnare assolutamente da me dipendeva anche il postino di Battaglione, l’incaricato dell’armeria di compagnia ed il magazziniere. Tutti questi baldi alpini si erano macchiati di marachelle più o meno “vivaci” ragion per cui decido di inviarli in licenza e di sostituirli con altrettanti titolati naioni, con laurea o senza ma con un profilo professionale confaciente con l’incarico.
Purtroppo dopo neanche un mese ho dovuto ricredermi delle scelte operate. La posta arrivava “a sbalzi”, dall’armeria era sparita una pistola ... (poi recuperata, ma quanti sudori freddi), ed il magazzino era diventato lo spaccio gratuito dei magazzinieri delle altre compagnie (prestami...che dopo riporto ... etc. etc.).
Reintegrati gli originali ed “imperfetti” (secondo gli alti comandi) incaricati il servizio postale ritornò ad essere puntuale, l’armeria uno specchio ed il magazzino con dotazione al completo. SIC.

I muli della CCS.
L’estate del 72 stava passando in fretta e bisognava prepararsi per il prossimo campo invernale. Anche i muli della CCS (a servizio della 127a Compagnia mortai da 120 del mio amico Viarengo) dovevano iniziare gli allenamenti per cui predisposi la prima uscita di sgambamento accompagnata oltre che dal Sergente salmerista anche dal Veterinario di Battaglione.
Questi era un ragazzone bolognese, gioviale, laureato in veterinaria e Stenente.
Dopo l’adunata la teora dei muli prese la porta carraia e si avviò verso il sito designato il cui nome era ed è “Maso Pineto”. Si trattava di una passeggiata di circa un paio d’ore seguita da sosta e rientro nel primo pomeriggio.
Ricordo che mi trovavo davanti l’infermeria per parlare con lo Sten. Spalti Medico di Battaglione, padovano, simpatico camerata quando vidi il cancello della carraia aprirsi e i muli rientrare verso la salmeria. A passo lento veniva verso di noi il Veterinario, tenendosi un fazzoletto premuto sulla bocca. Man mano che si avvicinava noi due cominciammo a notare che il fazzoletto bianco aveva cambiato colore. Immediatamente ricoverato, antidolorifici e di corsa all’ospedale cittadino. Era successo che una bizzoza mula, la Delfina, famosa perche riusciva a scalciare anche di lato aveva accusato un malessere addominale e lo zelante veterinario era riuscito soltanto in parte a schivare il calcio che però gli aveva portato via sette denti.
Non l’ho più rivisto e mi piacerebbe tanto incontrarlo ora.

Corso di sopravvivenza ...
1) Il primo incarico che ricevetti al mio arrivo in Battaglione fu quello di organizzare il trasporto di due CPM di legna per una casermetta a Varna (BZ). Avrei dovuto comandare un plotoncino di alpini per caricare a mano la legna presso un deposito vicino alla caserma e scaricarla dove convenuto. Boh...che fare? Vedo in piazzale due camion con autisti e 4 alpini in uniforme da lavoro. Capperi mi dico...l’Aiutante Maggiore oltre che dare l’ordine mi ha procurato tutto il necessario. Mi avvicino e do gli ordini. Vedo gli occhi degli alpini sgranarsi, mi dicono timidamente che hanno un altro ordine ma io non sento ragioni e si va. Rientro per ora di rancio e vengo preso per la collottola dal maggiore: quegli automezi erano destinato a trasporto munizioni e dovevano recarsi in polveriera... Però quella volta fu tacitamente ammirato il mio senso dell’arrangiarsi (spesi comunque mezzo stipendio al circolo per cancellare la cosa).

2) Ma il secondo e ben più importante incarico fu quello di comandare una squadra di terzo ciclo (quasi congedanti quindi) per un “corso di sopravvivenza”.
Si trattava di effettuare una traversata dal punto A al punto B identificati nelle cartine IGM nei dintorni di Bressanone, muovendoci solo nottetempo, non dovevamo essere notati da nessuno, dormire all’addiaccio o in truna e con solo n° 2 razioni K !!
Il territorio era coperto da un fitto manto di neve, muoversi di notte non era per nulla agevole, freddo intenso, evitare strade statali, provinciali, comunali, vicinali, mulattiere e sentieri frequentati cioe semplicemente nel bosco.
La squadra: io, un sergente del 32mo, un RT, un infermiere, un cap. magg. 3 alpini.
Portati con AR e CL in zona operazioni ci defilammo velocemente, era l’imbrunire. Ricordo la fatica di camminare nella neve profonda e farinosa anche se allenato e con le “ciaspe”. Dopo qualche ora raggiungemmo il primo punto previsto dall’itinerario e ci accampammo. Io divorai quasi completamente il contenuto della prima razione. Scavammo delle tane preferendo piccoli pendii e al mattino si era data la fine alla razione. Venne la sera e si ripartì verso il secondo punto identificato sulla carta. Avremmo dovuto stare fuori 6 giorni e 5 notti per arrivare a completare il tracciato. Alle 18,00 appuntamento radio per rapporto con la base. Con la seconda notte anche la seconda razione era quasi terminata quasi per tutti. Io mi chiedevo cosa fare in caso di...e gli occhi dei miei cercavano di leggere qualcosa dei miei pensieri.
Ci muovemmo verso il terzo punto, dopo aver di norma cancellato le tracce dello stanziamento e verso l’una di notte, ricordo una splendida luna che illuminava bene la zona ma col cielo stellato il freddo bruciava la faccia. Non avevo più niente con me, il sergente un paio di cioccolate, chi una scatoletta di carne ma 8 ragazzi giovani e affamati oltre che infreddoliti avevano bisogno di ben altro. Fu così che....
La terza sera vidi una luce che filtrava tra le piante del bosco e finchè con fermezza ordinavo ai ragazzi, con cui si era stabilito un certo rapporto cameratesco, di predisporre le tane per il riposo, chiamai il caporale che era un altoatesino e quindi bilingue e gli chiesi cosa ne pensava di raggiungere quella struttura che si intravvedeve e di chiedere un po’ di cibo. Sacrificai parte del denaro che mi ero portato da casa perchè lo stipendio era ancoa lontano. Dopo un paio d’ore questi rientrò con pane, burro, formaggi, vino e frutta. Evviva da parte di tutti. Lui disse che il maso aveva notato la nostra presenza (che asini che siamo stati ...) e potevano dare ospitalità nel fienile, bastava non fumare. Beh si trattava di un’ora di camminata e mai ci si è mossi così celermente.
Alla mattina facemmo colazione con pane fresco, burro, marmellata e latte appena munto. Pagai (poco) pù che volentieri e rimanemmo li fino a sera, sotto lo sguardo curioso dei marmocchi che diosà cosa frullava nel loro cervello nel vedere una marmaglia puzzolente (vero) con barbe lunghe e coi fucili.
Partimmo all’imbrunire quindi ma io avevo le idee chiarissime in testa: studiando il percorso avevo notato che con una piccola deviazione ci saremmo avvicinati ad un altro maso.
Naturalmente nei rapporti via radio, fra scariche e vuoti, facevo presente che a parte il freddo e la carenza di generi alimentari, non vi erano preoccupanti situazioni sanitarie e di sicurezza.
Arrivammo a notte inoltrata al quaro punto, avanscoperta del caporale lanzichenecco e voilà fienile caldo con desserts. Passò il giorno oziando e già pregustavo l’ultimo tragitto con ennesimo maso da occupare ma .... alle 18,00 il collegamento radio non fu il solito. Arrivò l’ordine di partenza immediata per raggiungere il punto C identificato nella tavoletta IGM per rientro al reparto.
Molto probabile che qualcuno avesse mangiato la foglia e cioè come fanno sti prodi alpini a restare senza viveri e camminare per oltre 3 giorni ?
Trovai l’AR per me ed il sergenteed il CL per i ragazzi.
Arrivati in caserma al buio ci venne a salutare il Colonnello a cui presentati la forza. Poi mi chiese di fare un rapporto dettagliato di questo corso all’indomani.
Con molta faccia tosta mi presenta in Comando, fui ricevuto dal Colonello e dall’aiutante maggiore e dal mio comandante di compagnia allora Ten. Arnaldo Soleri (ora generale a 2 stelle), feci il mio rapporto nel silenzio di tomba. Il commento finale del mio comandante di compagnia fu:”Tenente la vedo molto deperita....”. Per poco non scoppiai in una sonora risata.
Epilogo. Due giorni dopo durante l’adunata dell’alzabandiera fui chiamato assieme agli altri che avevano partecipato a questa avventura e ci fu consegnato “il fazzoletto giallo” da mettere sul collo sotto la camicia come segno distintivo.

Compagni di corso al Bolzano.
Viarengo, con cui dividevo la stanza e le scorazzate in auro con la sua FIAT 850 Coupè. La caserma non aveva alloggi per ufficiali e tutti si dormiva o in albergo oppure in qualche stanza in affitto.
Monti con cui dividevo i tour in moto (vedi foto, quello sono io).

Unterberger, compagno di laute cene e bevute che mi ha insegnato come si degusta il “pero” che si trova dentro la grappa di pere di una nota distilleria altoatesina....

Pfeifer con il quale ho condiviso il reparto ma che è sempre stato forza assente, spertuto in mezzo alle nevi con i suoi esploratori.


Di tutto ciò ho un ricordo caldo per le emozioni e l’amicizia che mi è stata regalata.



56.
LA RECLUTA CON IL BAMBINO
(Luciano Ivaldi)

Al CAR arrivò una nuova infornata di reclute. Fra i giovani che affollavano il piazzale, ne notai uno al fianco di una ragazza che teneva un bimbo in braccio. Mi avvicinai. Indossavano abiti sgualciti, capelli unti, lo sguardo di chi è cresciuto troppo in fretta. Il bambino, ad occhio, aveva un paio di mesi, non di più.
“Chi sei?” domandai al ragazzo. Mi mostrò la cartolina precetto. “Di chi è il bimbo?” chiesi. “E' mio, mio figlio”, rispose. “E lei è tua moglie?” aggiunsi guardando la ragazza. “No, non siamo sposati” rispose chinando il capo per celare l'imbarazzo.
Sapevo che i padri con moglie e figli a carico avevano diritto all'esonero dalla leva. Il caso che avevo di fronte, tuttavia, era formalmente differente e siccome sotto naia la forma è sostanza, chiesi lumi al Comando. Al telefono, un ufficiale, doveva essere un maggiore, sentenziò: “mogli, la circolare parla di mogli, non di ragazze madri!”. E il bimbo? Ci pensasse la famiglia, i nonni, gli zii ... le caserme non sono asili nido!
Ritornai dal ragazzo e abbozzai: “saluta la tua compagna e il tuo bambino. Potranno venire a trovarti tutte le volte che vorranno”. “Faccio il muratore, se resto qui e non lavoro, come fanno a mangiare” bisbigliò chinando un'altra volta il capo. “Non avete genitori in grado di aiutarvi?” obiettai. “Ci hanno sbattuti fuori casa”, fu la risposta che mi lasciò senza parole. Venivano da un paese del cuneese, a volte si faceva così, da quelle parti e anche altrove, per emendare la vergogna di un'incauta, prematura notte d'amore.
Fu allora che mi venne un'idea: concedere una licenza al ragazzo e affidargli una lettera da consegnare ai Carabinieri del paese. Nella missiva, dopo aver descritto il fatto, avrei chiesto di intercedere presso il sindaco per celebrare in tutta fretta il matrimonio. Il giovane avrebbe così ottenuto l'esonero dalla leva.
Ne parlai con Capitan Burdese che si tenne fuori: “Ivaldi, faccia come meglio crede”. Capii al volo che non era contrario. Padre di una figlia, sapeva cosa significa essere genitore.
Spiegai il piano ai due giovani. La ragazza mi guardò con disincanto. Stavo mandando a rotoli il più bel sogno della sua vita: un matrimonio in chiesa, l'abito bianco, i fiori sull'altare, l'Ave Maria, i chicchi di riso lanciati in aria, il bouquet alle amiche, le foto da incollare sull'album di famiglia....
A corto di tempo e di quattrini, intravedendo una via d'uscita, il ragazzo annuì: “se basta un matrimonio in municipio...”. “Basta e avanza”, risposi ostentando sicurezza per fugare ogni ripensamento.
Dettai la lettera ad un furiere e la consegnai al giovane papà che mai sarebbe diventato alpino. Aveva altre responsabilità, le incombenze e i trastulli della naia andavano lasciati ai coetanei con i grilli in testa.
“Che Dio vi assista”, sospirai accompagnando con lo sguardo i tre sventurati fino al crocevia che portava alla stazione.
Dopo una decina di giorni ricevetti un fonogramma dai Carabinieri. I documenti erano pronti, bisognava pazientare alcuni giorni per rispettare i tempi tecnici e poi si sarebbe celebrato il matrimonio. A quel punto la pratica di esonero sarebbe stata inoltrata al Ministero.
Non ne seppi più nulla. I mesi passarono in fretta, la vita di caserma dirottò altrove la mia mente. Un pomeriggio l'attendente (allora potevamo disporne) bussò alla porta per dirmi che ero atteso in portineria. Scesi lo scalone due gradini alla volta, entrai nell'androne e vidi un ragazzo e una ragazza che, all'istante, non riconobbi. “Tenente, si ricorda di noi? Siamo quelli del bambino, del matrimonio ...”.
Li abbracciai. Indossavano abiti dignitosi, capelli in ordine, sorriso allegro. Chiesi notizie del bimbo. Cresceva bene, per l'occasione l'avevano affidato ai nonni. La famiglia si era ricomposta. Il tempo, ancora una volta, aveva rimarginato le ferite.



57.
IL CALVARIODI ENRICO CASALEGNO
(Alberto Orecchia)

Evelino Mattelig e Franco Zanin, impegnati nella laboriosa ricerca dei componenti del nostro Corso per organizzarne un ritrovo, avevano appreso da Alessandro Cerrato che uno di noi, Enrico Casalegno, era stato aggredito nel 1998 da una rara e invalidantissima malattia. Già il suo nome esplicava la pena che comportava ai suoi sottoposti: la sindrome di Locked-In, cioè di chi si sente "chiuso dentro se stesso".  Enrico infatti non aveva alcun movimento motorio, praticamente era paralizzato, ma era consapevolmente vigile e riusciva solo ad esprimersi verbalmente con enorme fatica. Quella malattia degenerativa concedeva al malato un periodo di sopravvivenza molto limitato, superato solo in pochi casi al mondo. Enrico, se ricordo bene, era uno di quelle eccezioni. Nessuna cura era ancora riuscita a debellare quel rapace interiore che divorava inesorabilmente le sue malcapitate vittime. In quegli anni la ricerca medica di farmaci adeguati procedeva a passi lentissimi e infruttuosi. Forse le industrie farmaceutiche non ritenevano abbastanza remunerativo  lo sviluppo di medicinali destinati ad un numero di pazienti così ristretto. Un giro di telefonate riunì un nostro gruppetto. Andammo quindi a San Raffaele Cimena a fare visita al nostro compagno per portargli un poco di conforto. La moglie di Enrico ci accolse con grande affabilità e ci introdusse al suo capezzale. Encomiabile la dedizione della donna nell'accudire amorevolmente il marito in quelle povere condizioni con tanta instancabile determinazione. Lui stava percorrendo lentamente un'altra tappa della sua incredibile Via Crucis, avendo riacquistato solo da poco tempo l'uso stentato della parola. Finalmente allora riusciva a comunicare a voce con il mondo che lo circondava, anche se in modo faticosissimo. Quante e quali dolorose peripezie aveva già dovuto affrontare! Lui ci accolse con un sorriso spiazzante, disteso in quel letto di dolore. Mattelig, Zanin,Tosolini, Bugatti, più abili a nascondere il loro intimo dispiacere al suo cospetto, cercarono di coinvolgerlo scherzosamente nei vecchi ricordi della Smalp. Il rivangare quelle situazioni del passato fu per lui fonte di momentanea felicità, avendole condivise quando era ancora immune da quella pena. La nostra visita ottenne gli effetti auspicati di solidarietà. Sempre supportato nell'esprimersi dalla moglie, Enrico ci congedò, con voce flebile ed un sorriso disarmante sulle labbra, dicendoci: "Oggi sono molto contento: mi ha fatto grande piacere rivivere con voi certi episodi di Aosta. La vita é fatta di emozioni e io oggi sono tanto felice perché ne ho vissuta una grande grazie a voi e vi ringrazio di cuore!". La sua esternazione ci commosse. In quegli attimi si era sentito alleggerito del peso della croce che stava  portando! Non si può vedere soffrire una persona che ha il sorriso sulle labbra senza rimanerne colpiti nell'intimo. Tutti noi, con gli occhi lucidi che cercammo malamente di nascondere, lo salutammo  con l'impegno di ritornare a fargli visita. Che persona era Enrico nel suo dolore! Dopo il suo commiato rinvangammo l'accaduto seduti a tavola nel vicino ristorante; eravamo segnatamente felici  di aver momentaneamente alleviato la sofferenza inverosimile di quel nostro compagno rasserenando, anche se solo per pochi attimi, la sua giornata. Ancora oggi che Enrico non c'è più lo ricordo sempre nelle mie preghiere. 



58.
ALPINO A TUTTI I COSTI – GENNAIO 1972
(Piergiorgio Marguerettaz)      

Per il servizio di prima nomina fui assegnato al Secondo Reggimento Alpini, il ‘Doi’, avente funzioni di Centro Addestramento Reclute.
Mi presentai con i miei colleghi sten del 64° alla caserma Cesare Battisti, sede del comando, a Cuneo.  Eravamo un bel gruppo: oltre al sottoscritto ricordo Sandro Bazurro, Piero Borro, Valerio Brunetto, Gianni Buffa, Enrico Casalegno, Sandro Cerrato, Luciano Ivaldi, Paolo Lupani, Paolo Masnata, Maurizio Moro, Adriano Peracchia, Gianni Pasquino, Aldo Perron (se ho dimenticato qualcuno spero si faccia vivo ..........)
Fui assegnato al Battaglione Orobica, Compagni Edolo, Caserma Ignazio Vian in località San Rocco Castagnaretta, periferia di Cuneo (allora un polmone verde circondato da una belle campagna).
Il Battaglione Orobica era così chiamato in quanto il suo bacino di reclutamento erano le Alpi Orobie. Le compagnie portavano i nomi dei battaglioni costituenti la Brigata Orobica, quindi: Edolo, Morbegno, Tirano, Cam. Orobica.
Dopo circa due settimane di attesa, finalmente, cominciarono ad arrivare le reclute ed il nostro primo impegno fu quello di accoglierle in Caserma. La selezione iniziava con l'identificazione quindi doccia, parrucchiere, visita medica, vestizione, attribuzione della compagnia.
Dal mattino fino a notte inoltrata (ben dopo l'arrivo dell'ultimo treno alla stazione di Cuneo dove andavamo a prenderli), la caserma era un ribollire frenetico di giovani di diverse provenienze, tutti spaesati, compresi quelli che facevano gli spavaldi.
Molti, prima di arrendersi definitivamente, mettevano in atto un ultimo tentativo per evitare la “naja” accampando le più diverse e fantasiose scuse: malattie improvvise, strane documentazioni sanitarie attestanti imperfezioni fisiche tali da mettere in dubbio l'idoneità a svolgere il servizio militare che chissà come la visita di leva non aveva riscontrato, impegni di lavoro inderogabili, genitori soli, fratelli da accudire ecc........
Fu pertanto una sorpresa quando lo sten. Medico mi venne a chiamare per uno strano caso.
Stava infatti visitando un ragazzo con cicatrici in varie parti del corpo e, cosa ancor più grave, una gamba più corta dell'altra. Il ragazzo però si guardava bene dallo sfruttare questa situazione come valido motivo per essere subito rimandato a casa.  Se ne stava col capo chino senza proferire parola, rispondendo a monosillabi alle domande del medico.
Ovviamente la cosa andava chiarita al più presto.
Dopo molti tentativi, messi in atto prima con le buone maniere e poi con qualche sollecitazione più brusca, finalmente riuscimmo, a notte ormai fonda, a scoprire l'arcano. Il ragazzo, proveniente da una sperduta frazione delle valli valtellinesi, subito dopo la visita di leva, cui era risultato abile e quindi arruolato, era stato vittima di un incidente d'auto che gli aveva causato quelle ferite. Dimesso dall'ospedale, si era ben guardato dall'informare il distretto di competenza, per cui al momento di ricevere la cartolina precetto si era presentato regolarmente al C.A.R.  A questo punto scoppiò in un pianto dirotto chiedendoci di chiudere non uno ma due occhi e di tenerlo in caserma, dove poteva, a differenza di  casa , mangiare regolari pasti . “Vede sig. tenente, alcuni miei compaesani, che sono stati qui prima di me, mi hanno raccontato che in caserma si mangia carne anche due volte al giorno mentre a casa mia faccio la fame”. Per alcuni lunghi minuti in infermeria ci fu un silenzio totale.
Prolungammo di proposito la selezione del ragazzo per tenerlo qualche giorno in caserma in modo che potesse usufruire della mensa.........
Naturalmente poi dovemmo informare il comandante di compagnia che a sua volta ne parlò col maggiore comandante ma non ci fu niente da fare: fu riformato per sopravvenute imperfezioni fisiche. Il caso naturalmente divenne di pubblico dominio in caserma.
In questo frangente   ebbi modo di conoscere direttamente cosa significa essere “Alpino”.
Venne organizzata  un colletta spontanea , cui partecipò tutta la caserma ,dai comandanti agli alpini . Fu raccolta una bella somma di denaro che il Maggiore comandante del Battaglione consegnò al povero alpino mancato sotto forma di “prestito a fondo perso”con l'abbraccio ideale di tutta la Famiglia  Alpina.
Fu con grande dispiacere che ,dopo altri dieci  giorni di “soggiorno”a San Rocco ,lo accompagnammo in stazione a prendere il treno che lo avrebbe riportato a casa.


59.
FORELLEN AUS DEM PASSEIERTAL
(Felice Piasini)

“…allora Tenente, cosa vogliamo fare? Redigere verbale ed esporre denuncia alle autorità, o…?”. 
Così si rivolgevano il guardiapesca e il messo comunale al comandante del distaccamento di Saltusio in Val Passiria, Felice Piasini, un caldo pomeriggio di fine luglio. I due se ne stavano all’ingresso della casermetta con due sacchetti di plastica rigonfi e gocciolanti e, all’invito del tenente ad accomodarsi, proposero che, per non sporcare, era meglio andare sul retro e fare due chiacchiere. 
Aperti i sacchetti, il comandante, scuotendo il capo, capì subito di che si trattava. I suoi naioni ne avevano combinata un’altra. 
Le ispezioni alle opere di difesa si svolgevano al mattino o al pomeriggio. 
Nel tragitto tra una postazione e l’altra, non si poteva resistere alla tentazione di fare un giretto nei boschi, in cerca di funghi, che poi venivano cucinati col risotto o impanati dall’ ex ciabattino bresciano, promosso cuoco sul campo!  
Al pomeriggio si preferiva andare sulla sponda opposta, che dava a nord, più fresca, ma si doveva passare per forza dal torrente. E, nonostante le raccomandazioni, la pattuglia si toglieva scarponi e mimetica e si rinfrescava o si metteva a prendere il sole sui massi levigati dall’acqua. 
Qualcuno, un po’ più attivo, cercava di acchiappare con mani e bastoni qualche trota, ma in genere senza successo. 
Quel giorno, fortuna volle, trovarono in una pozza isolata, vicino al letto principale del torrente un gran numero di trote rimaste là intrappolate. Prenderle era diventato un gioco. 
Così lo schiamazzo festoso dei baldi pescatori richiamò l’attenzione degli indigeni, che, gelosi delle loro cose e rispettosi della legge, avvisarono chi di dovere. 
Il resto è noto. 
Svanito ormai il sogno di gustare le famose “Forellen” del Passirio, al comandante non rimase che optare per la soluzione più vantaggiosa: “regalare”, seguendo il consiglio delle guardie, le trote alla Casa di Riposo di Rifiano, il paese vicino, e chiudere lì la faccenda.




60.
COMODO! COMODO!
(Felice Piasini)


La divisa in disordine, l’atteggiamento non proprio militare dei soliti imbecilli, sorpresi a fare autostop, non dovevano essere stati particolarmente graditi a un Generale di Merano a spasso con la moglie su per la Val Passiria, in una domenica d’agosto. Quindi, lavata di capo gerarchica a cascata: Generale, Ten. Colonnello, Capitano responsabile dei distaccamenti e Tenente, comandante dello stesso. Lunedì mattina squilla l’apparecchio di collegamento tra Vipiteno, sede del Battaglione e la casermetta di Saltusio. E’ il Ten Colonnello che si informa, tra il sornione e l’ironico, sulla vita del distaccamento. Domande ben precise, relative ad altrettante consegne, il più delle volte “formali”, la maggior parte delle quali non rispettate, come l’alzabandiera fra l’altro, ma note a tutto il sistema. Insomma, forse era troppo e si doveva cercare di mettere un po’ d’ordine e disciplina, in una “guarnigione” abbandonata a sé stessa a pochi passi dal confine nemico. E, solito more, cioè all’italiana, il comandante, Sten Felice Piasini, viene avvisato della visita “a sorpresa”, fissata per il venerdì successivo. Settimana di fuoco per tutti. Si fa lavare e stirare la bandiera da una signora che abita di fronte. Pulizie generali. Si mette il grasso alle carrucole e si provano e riprovano. Si esercitano adunate e schieramento della “forza”fino alla nausea. Venerdì mattina, cinque minuti prima dell’ora fissata dal regolamento, spuntano su dalla salita che porta al distaccamento due penne bianche. Sono il Ten Col. Vittone, comandante del Valchiese, il Maggiore, seguiti da un capitano e dal maresciallo. Ci siamo! Vittone dice al comandante del distaccamento di procedere, come da prassi, al rituale dell’alzabandiera. Gli alpini escono dalla casermetta, si schierano e il caporale corre davanti al Colonnello. Scatta sull’attenti, alza fiero il braccio destro all’altezza della visiera del cappello e comincia, con palese emozione: “Cacà..cacà…cacacà…” . Avrebbe dovuto presentarsi: “Caporale Casazza M.” e poi presentare la forza del distaccamento. A sbloccare la situazione ci pensa un calmo e bonario: “Comodo! comodo!” del Colonnello, un piemontese dalla corporatura imponente, intransigente ma anche comprensibile, vista la buona volontà del caporale, un biondino della Lomellina, ubbidiente e sempre disponibile, buono come il pane.




61.
UN ALZABANDIERA TRAVAGLIATO
(Alberto Orecchia)


Ero da poco approdato a Feltre, Ufficiale di prima nomina, assegnato alla 64ma Compagnia dell'omonimo Battaglione. Una sera, girovagando alla scoperta dei locali nei dintorni, in un bar di Pedavena impattai con piacevole stupore in un mio concittadino, il sergente Caddeo Sergio, di Genova Sampierdarena, in servizio di ronda esterna. Inevitabile l'accenno a quelle lontane amate sponde che tanto ci accomunavano. Ero al Battaglione solo da pochi giorni e già tornava a fare breccia nel mio cuore la nostalgia dei luoghi e degli affetti lasciati a malincuore per quel posto così lontano! Ma era impossibile usufruire già di una licenza. Sprovvisto di un veicolo in loco, per una fugace scorreria avrei dovuto affidarmi esclusivamente a trenini e treni. Quella distanza chilometrica da coprire in un tempo estremamente limitato era un pesante deterrente per quel mio intento. Severe sanzioni erano inoltre previste per chi si recava oltre i confini del Presidio senza autorizzazione. La riuscita indenne di quell'estenuante viaggio era dunque pura utopia! Non avevo scampo! Sergio però mi confidò di essere un esperto collaudato di quei colpi di mano e mi prospettò una sua nuova escursione fuori porta. Aveva un Maggiolone Volkswagen verdone, ottimo cavallo di troia per sfondare quel perimetro forzato. Quelle quattro ruote erano dunque la panacea del mio impellente nuovo tormento! Senza esitazione accettai i rischi di quell'imprevista chance offertami. Dopo sole due settimane, al primo sabato pomeriggio esenti entrambi dai servizi di compagnia, iniziò la toccata e fuga verso la nostra amata Genova. E allora vai! Feltre, Cittadella, Padova, con lui che al volante fischiettava all'ossessione il motivetto della quinta sinfonia di Beethoven, sua cabala collaudata per la riuscita indenne dei raid. Arrivati velocemente a Padova, via sul primo treno per Milano e da lì su quello per Genova. Quando il convoglio oltrepassò i Giovi sentii già aria di casa. Finalmente sotto la Lanterna! Ad attenderci sui binari ritrovammo le nostre morose in trepidazione per quelle risicate ore da trascorrere insieme. Proprio vero quel vecchio proverbio che recita "Tira più un pelo di donna che una coppia di buoi"! Rientrammo a Feltre al mattino del lunedì, giusto in tempo per presenziare all'Alzabandiera. Con Sergio quale sottufficiale d'ispezione svolsi anche dei servizi di picchetto. Di uno ho un ricordo particolare per le vicissitudini affrontate. Era una gelida mattina di fine inverno e mi apprestavo a quel compito già svolto in altre occasioni deciso a portarlo a termine senza guai osservando a menadito le consegne sino al cambio del giorno successivo. Tante erano le incombenze che comportava. La Zannettelli era una caserma che ospitava entrambi gli schieramenti col cappello alpino, il Battaglione Feltre ed il Gruppo Agordo. Da tempo un capitano degli artiglieri nostri dirimpettai in caserma, un personaggio particolarmente pedante con tutti i subalterni, mal sopportato per i suoi metodi dagli stessi suoi uomini, era solito eseguire il compito di capitano d'ispezione con un'acredine smisurata verso tutta la guardia comandata, ancor più se composta da alpini. Già più volte si era scontrato caratterialmente anche con il mio comandante di compagnia, suo pari grado, ricevendone in cambio colorite rimostranze verbali. E quella sera era di servizio! Con Sergio, che mi affiancava, mi premurai quindi di istruire il caporale maggiore capoposto e la muta della guardia sulle consegne da osservare durante la notte. La guardia montante alla caserma era stata assegnata agli alpini della mia stessa compagnia. Quei ragazzi facevano parte di uno scaglione da poco arrivato dal BAR piemontese della Cadore ed in quel periodo di nuovo ambientamento erano stati sottoposti ad un duro addestramento atto a farli entrare nel vivo del loro servizio di leva. Alla sera tutti gli alpini e gli artiglieri rientrarono alla spicciolata dopo la loro libera uscita. All'ora prestabilita feci chiudere il portone principale e richiamai il capo muta della guardia rimarcandogli le consegne. Il piantone di guardia, osservando dallo spioncino chiunque si fosse presentato, aveva compito tassativo di informarne Sergio che mi avrebbe rintracciato ovunque fossi stato. Celermente avrei provveduto ad identificare personalmente il visitatore per concedergli l'eventuale ingresso in caserma. Tutti temevamo quel capitano d'ispezione che era uso fare improvvisi blitz notturni per coglierci in fallo. Era ovvio che se si fosse presentato il comandante di Battaglione o un qualsiasi altro ufficiale superiore avrei dovuto farli entrare senza esitazione. Ma altri, senza più che valida giustificazione, sarebbero rimasti inesorabilmente fuori. Compii i miei giri di controllo interno alla caserma, alle armerie, alle camerate, un giro anche alle salmerie: tutto a posto. Rientrai al corpo di guardia, ormai era tarda notte. Accusai una leggera stanchezza e decisi di buttarmi sulla branda nell'attigua saletta a me riservata. Avrei dovuto riposare con un occhio solo chiuso, sdraiato completamente vestito, con gli scarponi che mi stringevano i piedi, il cappotto, il cinturone e la pistola! Accennai a chiudere gli occhi ma ero impedito da quel pesante fardello. Memore di altri servizi di picchetto passati insonni, decisi di trasgredire alle consegne per concedermi una defatigante dormita. Mi liberai allora della fascia azzurra, del cappotto, del cinturone e degli scarponi per abbandonarmi agiatamente anche solo per pochi minuti nelle braccia di Morfeo. Finalmente mi colse un profondo sonno ristoratore. Sapevo di essere punibile se scoperto, ma pensai di essere esente da sorprese, tutelato dalle disposizioni impartite alla guardia e confidando della complicità di Sergio. Invece... Quella stessa sera gli ufficiali della mia compagnia avevano invitato a cena il nostro capitano. Beati loro, pensai, saranno a fare bisboccia ed io sono qui di servizio! Ma forse per gli effetti della loro abbondante libagione o per semplice goliardia quel gruppo decise di giocarmi un tiro mancino, rompendomi le scatole in piena notte. L'alpino di guardia al portone sentì bussare e aprì lo spioncino. Ma non era il capitano d'ispezione! Riconobbe invece quei visi che aveva innanzi: erano gli ufficiali della sua compagnia e soprattutto era con loro anche il suo e nostro capitano! Impietrito da quella presenza dimenticò la perentoria consegna e passivamente aprì la porticina a quel gruppo un pò alticcio che invase il corpo di guardia. Sprofondato nel mio sonno ristoratore non avvertii quanto mi sta succedendo intorno. Uno Sten. attuò un malizioso scherzo a mie spese che avrebbe  potuto rivelarsi oltremodo pesante: con un colpo di mano fece veloce irruzione nella mia stanza e trovatomi addormentato si appropriò furtivamente della mia fascia azzurra e della mia pistola. Con quei trofei se ne uscì dalla caserma ostentando le sue prede e osannando rumorosamente la sua vittoria. Mi destai per quello schiamazzo e con immenso dissapore mi accorsi del furto patito. Mi rivestii velocemente. Quel gruppetto di colleghi era fuori dal portone e l'autore di quella marachella, ebbro oltre ogni limite, indossata la fascia sui suoi abiti borghesi stava scorrazzando sù e giù nel viale antistante la caserma inforcando il suo ciclomotore Ciao. Era un nostro "padre" del 63° che di lì a poco si sarebbe congedato. Abitava nelle immediate vicinanze, fortunato o divinamente super raccomandato per quella insolita assegnazione logistica. Uscii e cercai invano di rincorrerlo supplicandolo di restituirmi il maltolto. Presagi di nefaste sventure fecero prepotentemente breccia nella mia mente al pensiero delle successive conseguenze penali se non fossi riuscito a recuperare quegli indispensabili accessori. Niente da fare: quello sparì nella notte ed io, imprecando, rimasi solo con le mie inquietudini. Era già quasi mattina; poco dopo avrei dovuto presenziare all'Adunata con la successiva Alzabandiera ed ero ancora in ambasce per quelle privazioni! Fortunatamente un altro Sten. Era già arrivato di buona lena in caserma e grazie a lui, mia ancora di salvezza, posi fine momentanea a quell'impaccio. Mi procurò la sua fascia e si recò nel mio alloggio, una villetta nelle vicinanze della caserma, dove recuperò una pistola-giocattolo, una Jaguarmatic, che avevo precedentemente acquistato perché riproduzione molto similare della pesante Beretta di ordinanza. Con quella nella fondina e con quell'azzurro rimediato ero pronto per iniziare la mattinata, pur con il martellante pensiero del recupero dell'arma sottrattami, da riconsegnare in armeria. Per mia fortuna la notte aveva portato consiglio a quel ladruncolo rinsavito che forse impietosito dalle mie paure decise di riconsegnarmi il tutto solo all'ultimo momento, prima dell'Adunata. Decadeva così il mio palesato timore di dover finire come novello Silvio Pellico a guardare i muri del carcere militare di Peschiera. Ripresi il mio servizio rinfrancato: Adunata, Alzabandiera e successiva presentazione della forza presente in caserma all'arrivo del comandante di Battaglione. Tutto filò liscio, anzi, quasi tutto. Finalmente smontato dal turno, ritornai dopo qualche ora alla mia compagnia. Il mio "team" di colleghi ufficiali mi aspettava al varco in fureria pronto con gesso e lavagna a rimpinguare abbondantemente il nostro 'bottigliometro'. Cosparso il capo di cenere per l'accaduto, accettai poi l'inevitabile cazziatone del mio capitano. Sarebbe stato Inutile rimarcargli la sua partecipazione altamente condizionante a quella combriccola di buontemponi. Quella notte agitata vissuta balordamente nell'ansia foriera di una punizione biblica mi servì da lezione e successivamente svolsi sempre con la dovuta diligenza i compiti propri del mio ruolo. Certamente non è edificante raccontare tale malefatta. Ma credo che simili 'cappelle', forse peggiori, le abbiano combinate tanti di noi. Non credo che il nostro servizio militare sia stato tutto costellato da episodi da libro Cuore e allora chi è senza peccato scagli la prima pietra! Ho riportato quanto accadutomi per sottolineare come talvolta tante persone che reputiamo 'amici' si rivelino in realtà i peggiori infingardi della nostra vita.



62.
ARRIVEDERCI AMICI
(Giuliano Levrero)

Comandavo un plotone di assaltatori alla 42^ Compagnia del Battaglione Aosta alla Caserma Testafochi di Aosta; Mario Lorenzi, mio compagno di camera (alloggiavamo in una camera della Compagnia allestita appositamente dal nostro comandante per gli Ufficiali), comandava l'altro plotone.
La Compagnia era comandata dal Capitano Francesco Albarosa, mentre addetto alla contabilità era il Maresciallo Capo Giancarlo Zampa.
Gli ultimi mesi di servizio divenni comandante di Compagnia in quanto il Capitano, Lorenzi, Tesio ed altri furono aggregati al “Susa” nel Battaglione Logistico in partenza per la Norvegia sede delle manovre della NATO; con il sottoscritto erano rimasti Traversone del 65° e Vissà del 66°.
Di seguito la Compagnia fu destinata a trasformarsi in “Compagnia Sperimentale Addestramento Reclute”, per cui il nuovo Comandante di Battaglione Ten. Col. Piero Monsutti, succeduto a Cesare Di Dato, mi diede la consegna, tra l'altro, di: riordinare e rinnovare tutti gli ambienti della Compagnia per ospitare i 'borghesi' che sarebbero giunti in 'collegio'; di selezionare un numero preciso di alpini al fine di tenere loro il corso per la nomina a caporale; di aggregare il resto della Compagnia (cosa molto ingrata perché, tra l'altro, i miei alpini erano 'i vecchi') alle altre quattro Compagnie al fine di 'liberare' le camerate e poter eseguire i lavori.
Si può immaginare con quale spirito quel giorno dovetti adunare gli alpini sul piazzale per dar loro la 'bella' notizia e quali fossero state le reazioni, seppur composte, ed i commenti.
In quel periodo giunsero al Battaglione gli ACS divenuti Sergenti.
Alla 42^, tra gli altri, giunsero i Sergenti Michele Candiani e Fabrizio Legrenzi, due bravi ed intelligenti ragazzi con cui strinsi buona amicizia.
Finiti i lavori in tempo utile iniziarono ad arrivare i 'borghesi' e, tra alterne vicende legate alla disciplina della nuova vita comunitaria, giunse il momento di passare le consegne 'per terminato servizio di prima nomina' a Guido Traversone in quanto il Capitano Albarosa era ancora trattenuto in Norvegia.
Era la fine di settembre 1972.

Allora abitavo con i miei genitori a Torino ed ero rimasto amico di un collega del 62° Corso che abitava non molto distante da me: Franco Garabello che aveva comandato il Plotone Comando e Servizi della 42^.
Ogni tanto trascorrevamo qualche ora passeggiando per Torino ricordando anche qualche aneddoto o particolare di quel bel periodo passato l'anno precedente.
Un giorno di maggio 1973 pensammo di tornare ad Aosta per rivivere l'atmosfera della nostra vecchia caserma e salutare il nostro Capitano, gli Ufficiali rimasti e qualche altro amico.
Franco prese l'iniziativa e telefonò in caserma per concordare il giorno adatto per il pranzo al Circolo; Albarosa che era 'Capo Calotta' ne fu molto contento e tutto fu organizzato.
Dopo alcuni giorni una mattina, era il 16 di maggio 1973, uscito di casa incontrai mio padre che, scuro in volto, mi disse <leggi cos'è successo> porgendomi il giornale “La Gazzetta del Popolo”; lo apersi: “Elicottero cade ad Aosta: bruciati vivi sette militari – La sciagura causata dall'improvviso arresto del turbomotore”; sotto il titolo, le foto di due Ufficiali ed un Sottufficiale, poi un lungo articolo che subito non lessi, ma continuai a sfogliare sulla pagina della Valle: “La Valle in lutto per i suoi soldati – I sette militari morti carbonizzati nell'elicottero precipitato a Pollein”.
Mi sentii girare la testa.
Sotto il titolo, le fotografie: il Capitano pilota Elia, il Tenente copilota Arata, il Sergente Candiani, il Sergente Maggiore Galliano meccanico, il Sergente Legrenzi, Il Maresciallo Capo Zampa, Il Capitano Albarosa. Ancora sotto, la foto di ciò che rimaneva dell'elicottero: un troncone di coda...... Ero impietrito.
Sconvolto cercai subito Franco che era già al corrente e contattammo quei pochi di cui avevamo il recapito; telefonammo poi in caserma per avere ulteriori notizie più precise riguardo le esequie.
I feretri avvolti nel tricolore furono allineate nella cappella del Castello Gen. Cantore sede del Comando e vegliati da due militari del Battaglione e da due allievi della Scuola.
Il diciassette, giovedì, la mattina alle ore dieci erano previste le esequie.
Arrivammo puntuali e presenziammo al corteo funebre ed alla messa in Cattedrale: fu straziante.
Abbracciammo poi la vedova del Maresciallo Zampa e la giovane moglie del nostro Capitano che ci accolse con ammirevole, tragica compostezza e mitezza.

Già conoscevo la Signora Francesca: una persona minuta, molto sensibile e mite, ma forte e con grande spirito. Conoscevo anche i tre piccolini: Umberto, Stefano e Gabriele.
Il Capitano Albarosa aveva trentadue anni, cinque più di me.
Lo avevo conosciuto come persona tranquilla, molto obbiettiva, pratica e di grande buon senso; non lo vidi mai infuriarsi; le eventuali disattenzioni, mancanze o altro erano sempre gestite intelligentemente con fermezza, senza alterigia o presunzione, facendo capire ai subalterni dove si era sbagliato; non ricordo punizioni.
Il Maresciallo Capo Zampa, di quarant'anni, aveva anch'egli tre bambini; era un ottimo Sottufficiale molto competente nell'amministrazione della Compagnia, attento e attivo; era anche istruttore di sci e campione militare di tennis.
Il Sergente Legrenzi, di ventisei anni, era perito tessile ed avrebbe terminato il servizio a giugno.
Il Sergente Candiani aveva ventitré anni, studiava medicina a Pavia e sarebbe tornato a casa a luglio.
Di loro due divenni amico anche per le loro qualità anche umane e mi dettero un notevole aiuto nella conduzione delle operazioni di addestramento delle reclute.

Usciti dalla Chiesa salutammo tutti gli Ufficiali e Sottufficiali di nostra vecchia conoscenza e ci fermammo a parlare con il Maresciallo Usai, Comandante del Minuto Mantenimento di Battaglione, che fu tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro: ci chiarì ancora scioccato le condizioni in cui trovò i corpi ancora imbrigliati con le cinture di sicurezza … e qui mi fermo.
Successivamente ci recammo, con il Maresciallo che ci volle accompagnare, a Pollein e constatammo. La zona era transennata e piantonata. Era rimasto un breve troncone di coda; tutto il resto era bruciato o carbonizzato dall'enorme quantità di cherosene.
Il Maresciallo Usai ci riferì ciò che gli fu chiarito da chi vide personalmente l'evolversi della tragedia e dagli addetti dell'aeroporto di Aosta che seguivano per radio l'elicottero.
I sette tornavano da una ricognizione nel Vallone di Orgere ove dopo poche settimane si sarebbero svolte esercitazioni.
L'elicottero, normalmente e senza alcun problema, seguiva il suo tracciato di avvicinamento all'eliporto costeggiando il monte; poco prima di virare per raggiungere l'eliporto oramai vicino il turboreattore improvvisamente si bloccò quindi il pilota tentò l'autorotazione per attutire la caduta, ma le pale si stavano lentamente fermando mentre il velivolo scendeva inesorabilmente di quota: erano oramai molto bassi. Si trovarono di fronte cavi dell'alta tensione e poco dopo due case, quindi il pilota fu costretto ad inclinare l'elicottero per oltrepassare i due ostacoli; riuscì nella manovra, ma il mezzo si impennò precipitando, impattò con la coda sul campo in declivio coltivato, si rovesciò ed esplose istantaneamente bruciando tutto il cherosene. Per l'equipaggio non c'era più scampo: i soccorritori trovarono i resti carbonizzati ancora imbrigliati alle cinghie di sicurezza.

La moglie del Maresciallo Zampa mi inviò un ricordo con la foto del marito ed il ringraziamento.
La moglie del mio Comandante Albarosa mi inviò un pieghevole con la foto che riprendeva la bella famiglia felice in campagna: all'interno aveva inserito un foglio piegato in quattro con una preghiera scritta dal marito: “La preghiera di un soldato per i figli” che qui ho piacere di ricordare:

 


Cari ricordi che tengo tra le cose importanti di quell'intenso periodo e che rimangono indelebili.




63.
DUE UFFICIALI E UNA FIAT 124 SPORT SPIDER
(Sandro Bazurro)

Era il giugno del 1972 e le Compagnie del Secondo Reggimento Alpini di Cuneo si preparavano al giuramento delle reclute del secondo contingente, previsto per i primi di luglio.
Come ogni anno, il 2 giugno si celebrava a Roma la festa della Repubblica Italiana con la solenne parata militare lungo la via dei Fori Imperiali.
Per l'occasione il Secondo Alpini inviò un reparto con la bandiera di guerra portata con grande fierezza dal sottotenente Aldo Perron, alfiere del Reggimento; l'ufficiale, molto rappresentativo e motivato era stato subito scelto tra i giovani subalterni del Comando.
Tutta questa premessa riguarda ovviamente i compiti istituzionali del reparto, ma la cosa che più interessa in questa memoria, è che il tenente Perron possedeva una Fiat 124 Sport Spider, magnifica, bianca, carburatore doppio corpo, vettura sportiva 2+2 posti, 2000 cc. rombanti, invidia di tutta la caserma, tenuta come un bambino.
Orbene, dovendo quindi assentarsi, per i motivi sopraesposti, l'alfiere Perron fu costretto ad affidare, anche se per un breve periodo la sua creatura; la scelta cadde sul suo fido commilitone sottotenente Sandro Bazurro, con il compito di sorvegliarla, curarne la manutenzione ed usarla, raccomandando ovviamente, con le dovute cautele.
Sandro conscio della grande responsabilità e della fiducia attribuita, pensò di parcheggiarla diligentemente a fianco della propria 600, posizionandole entrambe a portata di vista e controllandole periodicamente.
Inizialmente l'intenzione era quella di avviare il motore saltuariamente, in modo che non si scaricasse la batteria, e così fece per un po’; poi un giorno mentre effettuava l'operazione di ricarica, si accorse che il rombo del potente motore aveva attirato l'attenzione di alcune leggiadre passanti, cosa mai avvenuta per la medesima operazione, effettuata con la propria Fiat 600.
Pensò allora di fare un giro attorno alla caserma, a passo d'uomo, fino al distributore di benzina più vicino, imprecando per il fatto che il commilitone avesse lasciato poco carburante nel serbatoio, forse presagendo le intenzioni dell'amico.
Passando nei pressi del portone centrale incontrò l'amico e collega sottotenente Maurizio Moro, il quale sovente, quando libero da impegni di servizio e di ...cuore, accompagnava Sandro nelle scorribande serali alla fabbrica di abiti Vestebene, ubicata lungo la provinciale via Genova, all'ingresso di Cuneo.
Sembrerebbe superfluo precisare che alla Vestebene erano impiegate decine di ragazze, che come un fiume defluivano dai cancelli della fabbrica alla fine del turno, nel tardo pomeriggio, per avviarsi a piedi verso il centro città o aspettando la corriera che le avrebbe condotte in uno di quell'infinità di paesini, sparsi nella Provincia Granda.
Quello era il territorio di caccia di tanti Alpini della Cesare Battisti.
Come rinunciare all'occasione così ghiotta di mettersi in evidenza con una simile vettura, tenuto conto che i due ufficiali erano soliti presentarsi o con la 600 di Sandro o la 500 di Maurizio.
Fatto sta che, rabboccato il serbatoio con ben 5.000 lire, partirono con il vento in fronte ed il sole che rifletteva gli ultimi raggi nello specchietto retrovisore. Arrivarono giusto in tempo per avvicinare le ultime uscite dai cancelli, che il caso volle si infilassero subito sulla corriera nel frattempo sopraggiunta.
Restarono mollemente appoggiati all'auto ancora per un po' di tempo, tanto per gustare gli sguardi di ammirazione di qualcuno e di invidia di qualcun altro, poi decisero di proseguire lungo la provinciale, nella speranza di avere miglior fortuna.
Giunti all'altezza dell'incrocio per Roata Canale e Roata Civalleri pensarono di deviare, sperando di trovare la scorciatoia per Boves anche perché si era fatta l'ora di mettere qualcosa nello stomaco.
La strada era un po' sconnessa e Sandro l'affrontò con grande cautela, conscio di doversi arruolare nella legione Straniera, qualora qualcosa fosse capitato all'ammiraglia che stava guidando.
Ad un tratto sulla banchina di destra si materializzarono due snelle figure, che speditamente si dirigevano verso l'abitato.
Dapprima le superarono decisamente, avendo comunque il tempo di apprezzarne i fini lineamenti, quindi con uno sguardo d'intesa, senza proferir verbo, ai due amici sembrò doveroso offrire loro un passaggio, considerato che il sole era da tempo scomparso all'orizzonte e l'imbrunire stava sopravanzando speditamente.
Le ragazze accettarono senza tentennamenti, anche perché avevano perduto l'ultima corsa della corriera ed ai due ufficiali restò sempre il dubbio se tale repentina decisione fosse merito delle stellette dorate che stavano bene in evidenza sulle spalline, o del potente mezzo di trasporto sul quale stavano mollemente seduti.
Le due splendide ragazze erano di Roata Canale e lavoravano presso uno studio professionale di Cuneo.
Se non fosse stato che i due avevano entrambi il cuore impegnato in storie affettive molto profonde, si sarebbe potuta configurare la netta volontà di approfittare della circostanza, per approfondire la conoscenza delle due giovani.
L'arrivo in paese ebbe un successo enorme ed un'eco altrettanto sonora, considerato che le due ragazze nulla facevano per minimizzare il fatto a parenti ed amici.
Comunque i due ufficiali oltre i ringraziamenti rimediarono anche un abbondante spuntino con pane salame e formaggio, che divorarono letteralmente sotto un pergolato meraviglioso, non senza perdere d'occhio due ragazzini assai intraprendenti, che impossessatisi dei loro copricapi si pavoneggiavano, marciando nella corte polverosa.
Ma come si sa, da cosa nasce cosa, ed i due trovandosi a loro agio in quell'ambiente sereno, lo elessero a meta fissa per le loro passeggiate serali.
Una sera di quelle, giungendo nei pressi del grande casale, notarono parcheggiata nella corte una Alfa Romeo Giulia dei Carabinieri.
Si avvicinarono e chiesero al militare che stava a bordo che cosa fosse successo.
In quel mentre, un altro carabiniere stava scendendo la scala esterna che conduceva ai piani superiori, accompagnato da una delle due ragazze, che ivi abitavano, visibilmente in grande imbarazzo.
I due ufficiali che per l'occasione non indossavano la divisa, rivolsero la stessa domanda al nuovo arrivato; egli per tutta risposta chiese con fare brusco i documenti ai due allibiti tenentini che immaginando quanto stava succedendo, palesarono il loro grado, esibendo contemporaneamente i rispettivi tesserini di riconoscimento.
Il capo pattuglia annotò i loro dati su di un taccuino e con fare altezzoso, a voce alta e ferma, badando bene di essere udito dalla piccola folla che nel frattempo si era radunata, sentenziò che per il momento la cosa sarebbe finita lì, demandando a successivi non ben precisati provvedimenti.
Fu allora che Sandro chiese al medesimo di declinare le proprie generalità e quale giustificazione potesse avere un tale comportamento. Venne risposto evidentemente solo alla prima domanda: “capo pattuglia carabiniere scelto “XXXXXXX” in servizio di pattuglia sul territorio”.
Fu così che a Maurizio sfuggì un “va là che vi scelgono bene”, la frase biascicata non passò inosservata dallo “scelto” che, rosso in viso, intimò loro un “potete andare” che non ammetteva repliche.
La situazione era chiara: lo “scelto” era in realtà un uomo geloso che si trovava in quel sito per “pattugliare” la morosa ed era sua intenzione scoraggiare gli eventuali presunti rivali.
Sandro e Maurizio facendo ricorso a tutto il loro buon senso, salutarono i presenti, tutti visibilmente in imbarazzo per l'increscioso fatto, considerato il buon rapporto che si era instaurato tra di loro e con grande apparente tranquillità, abbandonarono rombando il luogo della disfida.
Il giorno successivo il caso venne portato a conoscenza dei superiori e se ne interessò direttamente il Comandante di Battaglione. Un tale ingiustificato comportamento nei confronti dei due ufficiali, venne ritenuto all'unanimità, assolutamente inaudito.
Nel frattempo anche lo “scelto” subodorando le possibili complicanze della vicenda, aveva relazionato al suo superiore e da lì fino ad arrivare al comandante della Tenenza. Costui, assiduo frequentatore del circolo ufficiali della Cesare Battisti, persona di grande buon senso, portò le sue scuse personali e quelle dello “zelante” e focoso militare ai due ufficiali ed a tutta la calotta. Lo accompagnava una grande figura di carabiniere, il maggiore Tuttobene, in visita al Reparto ed ospite del Comando del Secondo Alpini.
Per la cronaca il colonnello Tuttobene medaglia d'oro al valor civile alla memoria, verrà assassinato insieme con il suo autista a Genova, il 25 gennaio 1980, in un attentato rivendicato dalla colonna Berardi delle brigate rosse.
La cosa finì lì senza infamia né lode, né vinti né vincitori, le motivazioni e le scuse si sprecarono da entrambe le parti in causa, e come nelle migliori tradizioni alpine con un paio di buone bevute, offerte ovviamente dalla Benemerita.
Nel frattempo il tenente Perron era rientrato dalla missione a Roma e riprese possesso della potente vettura, ignara causa di tutto questo; i due giovani ufficiali, Sandro e Maurizio, ritornarono alle vecchie abitudini, ad onor del vero con molto minore successo … e le due ragazze ... beh! vennero più volte notate a passare e sbirciare dentro la caserma attraverso il portone centrale, ma furono ignorate con grande eleganza.
Ed i nostri due baldi tutori della legge, probabilmente, istruiti a dovere dai loro superiori, spinsero altrove il loro turno di pattuglia del territorio, lasciando la tutela della morosa ai momenti liberi dal servizio.
Per fortuna all'oscuro di tutta la vicenda, restarono le rispettive fidanzate di Sandro e Maurizio, che un mese più tardi vennero invitate dal Comandante di Reggimento ad assistere alla cerimonia di Giuramento, applaudendo con calore la sfilata dei due tenentini, in testa ai loro reparti.

C'è da chiedersi se analogo comportamento avrebbero tenuto qualora informate dell'increscioso fatto capitato ai loro belli ufficiali, ma mai lo seppero né mai lo sapranno, se non leggendo queste memorie, ma ormai è passato così tanto tempo....



64.
LA VITA A FORNI AVOLTRI
(Mirco Bozzo)

Dopo la licenza di fine corso, a Gennaio 1972, Bruno Brachet, Valerio Poggi ed il sottoscritto, raggiungemmo la nostra destinazione presso l'8° rgt Alpini ed accorpati all'11^ compagnia, btg. Mondovì a Forni Avoltri, Friuli.
Passati pochi giorni, incominciò il campo invernale (10 gg fisso + 20 mobile)
Per il campo fisso fu scelta un'altura sopra il paese. Effettuammo le consuete esercitazioni, alloggiando in una malga (Casera Tuglia), messa a nostra disposizione dagli allevatori che la utilizzavano per il ricovero del bestiame, condotto al pascolo, nel periodo estivo.
Avremmo dovuto ricevere i rifornimenti trasportati dai muli della compagnia, ma il sentiero era sommerso da una consistente nevicata. Fu subito trovata una opportuna alternativa: le marmitte con il vitto e tutto il necessario giornaliero, furono caricati sulle spalle dei robusti conducenti muli ed ogni giorno ricevemmo il vitto caldo, grazie a questi volenterosi alpini, trasformati in (nel senso migliore del termine) animali da soma.

Un breve, ma significativo inciso, ci ricorda la dura vita degli abitanti della zona.
Campo estivo a Forni di Sopra (20 gg fisso + 30 mobile).
Durante uno dei vari trasferimenti in montagna, facemmo sosta presso una stalla-caseificio in alta quota dove acquistammo dell'ottimo formaggio e ricotta affumicata prodotti in loco.

Ci disponemmo a consumare la ricotta sbucciandola accuratamente (era scura dal fumo). Ci raggiunsero alcuni bambini, parenti degli allevatori, che condividevano il lavoro e l'alloggiamento rurale con i congiunti. I ragazzini raccolsero con sapienza i nostri avanzi e si affrettarono a divorarli. Capimmo che quel formaggio non andava sprecato. Donammo loro, con commozione, il cioccolato a nostra disposizione.



65.
LAVAGGIO STRADA
(Giuliano Levrero)

Fine febbraio 1972.
Quell'inverno di Aosta era già ben conosciuto da tutti noi per le abbondanti nevicate ed il gelo sopportati durante i precedenti servizi di guardia di novembre e dicembre alla Scuola, e per le ultime nevicate di gennaio e febbraio.
Io e Lorenzi eravamo ancora convalescenti da una potente bronchite che ci aveva costretti al ricovero, con contorno di iniezioni di antibiotici, per diversi giorni in infermeria della Testafochi di Aosta.
Ironia della sorte: eravamo nella stessa Compagnia, la 42^; comandavamo due plotoni di assaltatori vicini in occasione dello schieramento della Compagnia e di marce; dormivamo vicini di letto nella stessa camera allestita in Compagnia per gli Ufficiali; ora anche in infermeria eravamo nella stessa camera e vicini di letto ….. sotto sotto ci sarà mai stato qualcosa?... mah.
Terminata comunque la malattia una mattina il Capitano Albarosa mi convocò nel suo ufficio per disposizioni giuntegli dal Comando di Battaglione; ero impensierito e nel contempo curioso: cosa ci sarà di così importante ed urgente?
Mi fece accomodare alla scrivania del suo studio e mi avvisò che ero stato comandato per scegliere e scortare alpini che fossero già istruttori di sci, o comunque allievi maestri, a Cogne perché là avevano bisogno di gente che si occupasse delle piste di Fondo.
Onestamente gli chiarii (ma non ce ne era bisogno avendolo già lui constatato di persona) che sugli sci da fondo me la cavavo appena sufficientemente, quindi non ero il soggetto 'ad hoc'.
Mi rispose che così era stato stabilito e che comunque avrei avuto il solo compito di accompagnarli e riportarli sani e salvi la sera in Caserma, nel mentre avrei dovuto tenere i contatti con le Autorità locali; tutto questo per una decina di giorni.
Al solo il pensiero di starmene fuori 'collegio' per dieci giorni che prevedevo di pacchia, e in più a Cogne, dentro di me saltai di gioia; finalmente si poteva 'respirare' un po'.
Al Battaglione “Aosta” 'soggiornavano' molti valdostani; ne conoscevo alcuni già istruttori di fondo per cui ne scelsi una dozzina tra i migliori.
A Cogne si sarebbero svolti dal 7 all'11 marzo i “Campionati italiani assoluti femminili di fondo” e di seguito il “Campionato italiano giovani maschile e femminile di fondo” il cui logo ho piacere di allegare (oramai vecchio ricordo).
La 'levataccia' era comunque sempre alla stessa anche per noi, che credevamo in quel momento 'particolare e magico' di essere del tutto dispensati dalle formalità e completamente autonomi essendo noi 'gli eletti' che avrebbero dovuto occuparsi di 'cose ben diverse' dalla vita terrena e quotidiana di caserma! 
Difatti: sveglia tragica, battaglione schierato sul piazzale, alzabandiera, plotoni e squadre incolonnati e destinati ai propri servizi, ecc.
Un ACL era già fermo vicino alla porta carraia e tutti i giorni, subito dopo l'alzabandiera, ci portava a destinazione e la sera ci riportava 'a casa'.
Fu comunque una vera pacchia indimenticabile per tutti noi benché facesse un freddo allucinante.
Il primo giorno, giunti presto a Cogne sulla Piazza principale di fronte al Comune, una piccola folla ci stava già aspettando. Erano le autorità del paese: Sindaco, Assessore, Vigile, Autorità della Valle, Pro Loco, Ente Parco, Istruttori di Fondo, Responsabili delle piste ed altri.
Fummo accolti con il naturale e consueto calore bonario della gente di montagna che è consapevole e rispetta i valori delle cose.
I responsabili delle piste spiegarono quali fossero le incombenze da svolgere sotto la loro guida e, dopo una salutare e robusta colazione offerta, i miei alpini furono divisi in piccoli gruppi che si incamminarono  per i vicini prati di Sant'Orso e per altri siti in cui battere le piste, con gli accordi di essere tutti presenti a mezzogiorno per il pranzo.
Io 'poveretto' rimasi (tutto) solo sulla Piazza, ma continuamente 'vigilato e scortato' da qualcuno che si sentiva in dovere di 'offrirmi qualcosa' nel solito bar di fronte al Municipio: il “Café du Centre”.
Non potevo assolutamente staccarmi di lì, passeggiare o fare qualche giro per il paese: ero sempre avvistato, pedinato e bloccato; d'altra parte non potevo nemmeno rifiutare l'offerta di 'bere qualcosa in compagnia': qualcuno avrebbe potuto offendersi!
Questa situazione si protrasse tragicamente per dieci giorni sia la mattina, sia il pomeriggio, tranne le poche volte che dovevo, necessariamente ma temporaneamente, recarmi in qualche ufficio; ma gli uffici erano tutti sempre troppo vicini al bar, di fronte!
A mezzogiorno i miei tornavano stanchi e con una fame che quasi si materializzava, mentre io, poco affamato per la mattinata passata al bar e per nulla stanco, tendevo a temporeggiare.
Eravamo ospitati in un ottimo ristorante lì vicino in Via Limnea Boreaslis, che purtroppo attualmente è stato trasformato in Residence: ”Au vieux Grenier” e che in seguito rivisitai qualche volta con mia moglie.
Il pomeriggio le stesse ardue attività sia per gli alpini, sia per il sottoscritto.
La sera all'imbrunire verso le 17,30, dopo aver salutato tutti previo l'ultimo 'giro' di grappa, si tornava in caserma.
Probabilmente sarà stato il grande freddo ad aiutarmi, ma non sono mai riuscito a capacitarmi come abbia potuto non prendermi qualche solenne sbornia con tutto quel “popò” di alcool ingurgitato durante la giornata.
Trascorsero velocemente quindi, come già detto, i dieci giorni di spensieratezza e allegria e venne il momento di tornare definitivamente in 'collegio' dagli altri; oramai le piste per il Fondo erano tutte tracciate: non c'era più bisogno di noi.
Il pomeriggio dell'ultimo giorno le autorità locali decisero di festeggiare con i miei alpini il lavoro eseguito con grande successo e perizia; mentre io ero rimasto sempre 'solo' sulla piazza, anzi nel bar, con le rimanenti autorità che si avvicendavano.
Giunta l'ora di tornare (l'ACL era puntualmente pronto come sempre sulla piazza a fianco del Municipio) vidi in distanza avvicinarsi lentamente e a fatica come si arrampicasse su qualche erto sentiero, con fare tra il sinuoso e lo scomposto, un gruppetto di alpini canterini e vocianti che occupava tutta la strada.
Alcuni erano sbronzi al punto giusto, ma non mi preoccupai molto in quanto la festa di ringraziamento era stata meritata egregiamente da tutti loro.
Le autorità ringraziandoci calorosamente ci riempirono di depliants, vetrofanie, portachiavi, ecc. a ricordo dell'evento che si sarebbe svolto i giorni successivi.... e si fece l'ultima bevuta!
Riuscii a fatica a far caricare, quasi come sacchi di cemento, i più sbronzi sul camion mentre gli altri, i più 'savi', riuscirono a fatica a guadagnare il loro posto sul cassone dell'ACL.
Ad operazione terminata ci mettemmo in cammino stanchi, (alticci è un eufemismo), ma tranquilli e contenti.
Fortunatamente l'autista era lucido.
Dall'abitacolo di guida si sentiva cantare, vociare, ridere e pareva che comunque tutto procedesse normalmente; poi finalmente arrivammo sul piazzale della Testafochi.
Con il freddo la combriccola era quasi del tutto rinsavita e su di morale ed i funi dell'alcool si erano dispersi e lasciati lungo la strada.
Chiesi “come va? Tutto bene?”. I più savi avvicinandosi mi riferirono ridendo che molti di loro lungo il viaggio avevano 'lavato' tutta la strada da Cogne ad Aosta. Quindi non avevano 'lasciato e disperso' solo i fumi dell'alcool lungo il cammino!!!!

Sorrisi, una pacca sulla spalla ad ognuno, e ci salutammo calorosamente entusiasti per l'ospitalità ricevuta. 



66.
OSTERIA PAPA’ MARCEL
(Sandro Bazurro)

Come ho già avuto modo di dire, al mio arrivo alla Scuola Militare Alpina, conoscevo ben poco della città di Aosta.
Per fortuna, già dopo qualche giorno venni invitato da un nostro istruttore, caporal maggiore ACS, grazie ad un amico comune, ad effettuare il turno di “ronda” durante l'orario di libera uscita.
Fu così che oltre a scoprire le strade di Aosta, ebbi modo di prendere conoscenza delle sale cinematografiche e delle osterie, luoghi abitualmente frequentati, nelle ore libertà, dagli allievi della Cesare Battisti e dagli alpini della Testa Fochi.
A quel tempo ad Aosta giravano per la città, nelle ore serali, due “ronde”, una della scuola Allievi Ufficiali e Sottufficiali e l'altra del battaglione Aosta, pattuglie di militari guidate da un sottufficiale o da un graduato di truppa, al fine di controllare che i militari in libera uscita si comportassero correttamente.
Fu così che scoprii l'osteria Papà Marcel, anche se non ne divenni mai un cliente abituale.
Ubicata nel centro storico di Aosta in rue Croix de Ville, da decenni era il naturale ritrovo di tanti alpini.
Una tipica piola, osteria, in dialetto piemontese, una scura stanza con un bancone, una attigua saletta con tavoli di legno, intarsiati da generazioni di alpini con il coltellino tattico e sui muri tante firme, dediche, frasi tra il serio ed il faceto, che testimoniavano spesso la tristezza per la baita lontana, la morosa, il lavoro forzatamente abbandonato per servire la patria.
L'oste, il baffuto papà Marcel, baffoni portati ad onor del labbro, forse a compenso della calvizie incipiente, a volte sfoggiava un supertirato cappello alpino; qualcuno mi disse che in realtà non era mai stato alpino, ma cosa importava, era un brav’uomo e questo bastava per avvicinarlo e confessargli il proprio stato d'animo, come ad uno di casa.
Gli alpini lo adoravano, e quando la cena non era stata ottima ed abbondante, si compensava con un super panino pancetta e peperoni, e poi il frizzantino per mandarlo giù e perchè no, il mitico giro di caffè valdostano, bevuto dal beccuccio della “coppa dell'amicizia”, chiamata da taluni erroneamente “grolla”, che è invece un altro tipo di calice, alto e stretto.
Quando libero dal servizio, superato il controllo per la libera uscita, riuscivo a varcare indenne il portone della Cesare Battisti, ovviamente munito di fazzoletto regolamentare, sessanta centimetri di carta igienica in un taschino e pettine griffato esercito italiano nell'altra, mi recavo solitamente al caffè “Crestani”, dove restavo assorto nei miei pensieri per una buona mezz'ora, gustando un ottimo caffè con panna, poi passavo dalla vecchia  piola di Marcel e se l'ambiente mi sembrava di mio gradimento entravo per una sosta di un'oretta  e lì qualche sorso di caffè valdostano ci scappava sempre.
Una sera ero al caffè Crestani, particolarmente giù di morale, e complice il bel tramonto, mi venne una grande nostalgia di casa. Su un tovagliolo, mentre riflettevo, iniziai a disegnare un tramonto sul mare, poi aggiunsi la spiaggia ed un uomo tranquillamente allungato su una sedia a sdraio. Era ciò che ricordavo dell'ultimo giorno da borghese, prima della partenza per la Scuola Militare.
Ad un tratto mi parve di essere osservato; seduta ad un tavolino ad un livello leggermente più in alto, una ragazza stava sbirciando incuriosita ciò che avevo disegnato.
Visto che mi ero accorto di lei, mi sorrise, si scusò per aver spiato il mio disegno, giustificando la sua curiosità per il fatto che le era parso strano che stando di fronte alle montagne, un alpino disegnasse un tramonto sul mare.
Le spiegai brevemente il motivo di quel disegno ed iniziammo a parlare. Lei viveva a Monaco di Baviera ed era ad Aosta in visita alla nonna, amava il disegno e frequentava una scuola d'arte.
Parlammo per un bel po', mentre l'orologio della torre civica scandiva le ore e poi ad un certo punto si alzò per accomiatarsi, dicendomi che per lei era ora di rientrare.
La casa della nonna era in Rue Trottechien, sulla strada per la piola di Papà Marcel: mi offersi di accompagnarla ed accettò di buon grado.
Mi salutò cordialmente, ma ebbi l'impressione che quel “arrivederci a domani” celasse la volontà di approfondire quella conoscenza fugace.
Proseguii la mia strada verso Papà Marcel, assorto nei miei pensieri: quell'incontro non era stato certamente rilassante.
Mi soffermai sull'uscio, ne intravidi quello sguardo confortante sopra i simpatici baffoni, accompagnato dal cenno della mano che mi invitava ad entrare.
Marcel aveva la grande capacità di capire le situazioni, senza nulla chiedere e, mettere quella parola buona che ti aspettavi di sentirti dire.
Un giro di coppa dell'amicizia e mi sentii subito meglio.
Sull'uscio mi disse: “Me la devi proprio far conoscere la tua morosa, deve essere proprio speciale”.
Ancora una volta aveva colto nel segno.
Non ebbi mai occasione di fargliela conoscere, la mia morosa, durante la permanenza ad Aosta.
Smisi di frequentare il caffè Crestani per un po' di tempo, non era proprio il caso di complicarmi ulteriormente le vita, per quello ci pensavano già i nostri superiori.
Anche questo è naia.
Ritornai ad Aosta anni dopo, in viaggio di nozze, e tra le tante cose da condividere con mia moglie, non poteva mancare l'osteria papà Marcel, ed i suoi panini.
Obiettivamente non credo mi abbia subito riconosciuto, ma inquadrato certamente sì: ero uno dei suoi alpini.
Ora Papà Marcel non è più dietro il bancone, in rue Croix de Ville, è andato avanti il 2 gennaio 2010, e forse lassù nel Paradiso di Cantore, aspetta che quei ragazzi di tanti anni fa arrivino ansimando e smoccolando con lo zaino affardellato, nell'ultima faticosa salita, per accoglierli con il suo sguardo buono e ristorarli con quell'ottimo frizzantino.



67.
VODKA A LA THUILE
(Franco Ferrario)

La notte era profonda e spettrale, nel nero assoluto del cielo brillavano tonnellate di stelle.
La luna, che illuminava pallidamente il silenzio abissale della conca innevata de La Thuile, il cui aspetto appariva sinistro perfino alla luce del giorno, esaltava quello scenario insieme tetro e affascinante.
Di fianco alla caserma Monte Bianco una brutta spigolosa costruzione sembrava un’astronave aliena appena giunta dalla cintura di Orione.
Era invece ‘fortunatamente’ solo un fabbricato, adibito a residence, in stile moderno nettamente contrastante con il contesto architettonico dell’antico borgo; per sovrappiù era adornato da lampade e faretti che irradiavano una inquietante luce bluastra la quale contribuiva a rendere l’atmosfera di quella notte di dicembre 1971 maledettamente più siderale.
Erano circa le due; l’allievo ufficiale Franco Ferrario stava diligentemente svolgendo il suo turno di sentinella percorrendo il cortile della caserma tra alte mura di neve e superfici ghiacciate.
Ad un certo punto vide comparire, uscito da una palazzina, uno degli alpini esploratori di stanza alla Monte Bianco, che attraversò lo spiazzo per raggiungere l’edificio del corpo di guardia.
Notò Franco e gli porse una bottiglia: “Tié’! Bevi!”
“Cos’è?”
“Bevi!”
Quasi costretto, pur sospettoso, bevve alcuni sorsi.
“Grazie,” restituendo la bottiglia, “ma è acqua?”
“Veramente è vodka, è il freddo bestiale che la fa sembrare acqua”.
Come era apparso, così scomparve.
Franco, astemio (o da considerarsi ormai ex?), rimase ad interrogarsi sulle strane proprietà alchemiche e termodinamiche testé direttamente sperimentate.
Nel frattempo aveva infatti con stupore realizzato di non avere più freddo.
L’autonomia termica coprì abbondantemente il periodo del turno di guardia.




68.
NONNISMO
(Sandro Bazurro)

Era l'Agosto della calda estate del 1971 e gli Allievi del 63° Corso AUC, terminati i primi cinque mesi di addestramento, stavano per essere nominati Sergenti AUC ed inviati ai Battaglioni operativi per gli ulteriori tre mesi di passione, prima dell'ottenimento dell'agognata stelletta.
In effetti il 63° Corso fu l'ultimo che prevedeva il sergentato AUC, prima della nomina ad ufficiale, mentre il nostro 64° Corso, prevedeva la nomina diretta al grado di sottotenente, dopo sei mesi di Scuola Militare.
Questa novità, già di per sé poco gradita dagli allievi del 63° Corso, andò ad incrementare, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'atavica voglia di mantenere vive le antiche regole, ovviamente non scritte e le tradizioni del rispetto per la gerarchia acquisita con l'anzianità, in una mistura di goliardia e nonnismo naione, che portava a festeggiare le varie ricorrenze dell'iter militare con scherzi vari, pressioni, ricatti,  nei confronti dei giovani colleghi, che peraltro presto l'avrebbero sperimentati a loro volta sui nuovi arrivati.
Tutti gli allievi del 64° Corso, ovvero quello dei ‘giovani’ della Prima Compagnia per intenderci, aspettavano quindi con trepidazione e malcelato timore ciò che si vociferava avvenisse in tali occasioni.
Taluni scherzi, quali gavettoni ed abbondante spreco di  dentifricio e schiuma da barba, scherzi veramente bonari in realtà, erano già stati sperimentati all'arrivo alla Scuola, però qui si parlava di cose terribili, gente ‘sbrandata’ in pieno sonno, che aveva riportato traumi gravi, lucido da scarpe passato senza parsimonia sui visi assonnati, orecchie e capelli compresi, e poi si sa radio naia ingigantiva a dismisura quanto tutti legittimamente temevano e quanto veniva insinuato dalle mezze frasi fatte circolare dagli stessi persecutori, per portare il terrore tra le fila della Compagnia antagonista.
Era in questo clima che tutta la Prima Compagnia e quindi anche la mia camerata, la numero otto,  si preparavano ad affrontare l'evento; i consigli si sprecavano, c'era chi contava sull'amicizia di qualche ‘vecchio’, meglio se tra i più rappresentativi del Corso,  per essere risparmiato, chi studiava a tavolino contromisure da adottare e non sapendo di preciso il momento dell'attacco, si progettavano turni di guardia, che ovviamente finivano miseramente verso la mezzanotte, quando stanchi della lunga giornata di esercitazioni tutti crollavano in un sonno ristoratore, tanto profondo quanto traditore.
Fu però che grazie ad una subdola delazione, gli allievi della camerata numero otto, ma penso anche tutti gli altri allievi della Prima Compagnia, vennero a sapere quale sarebbe stata la notte fatidica, durante la quale i ‘vecchi’ avrebbero portato il loro attacco agli ‘indifesi’, si fa per dire, ‘giovani’ del 64°corso.
Rapidamente venne fatto un consiglio di camerata, e non ricordo più chi in particolare, ma senz'altro uno stratega degno delle migliori tradizioni, suggerì una tattica tanto antica quanto efficace, largamente sperimentata nel mondo animale: la tanatosi ovvero il fingersi già morti per evitare l'attacco e le inevitabili letali conseguenze.
Altro paragone, assai calzante per l'adottata contromisura, potrebbe essere quello dell'abbiamo già dato
In pratica dopo il contrappello serale, tutti ci preparammo regolarmente per la notte, chi in ciabatte e pigiama, chi in mutande e canottiera e così via; poi rapidamente rovesciammo i letti e drizzammo le brande contro i muri ed in quel parapiglia di coperte, lenzuola, cuscini attendemmo con rassegnazione ed atteggiamento di circostanza, l'arrivo degli incursori della Seconda Compagnia, che non tardarono, annunciati dal vociare delle camerate che via via visitavano.
Arrivati alla nostra, restarono stupiti dello sconquasso che si presentava ai loro occhi e di ciò che altri ipotetici squadroni di allievi erano riusciti a combinare in così breve tempo, precedendoli nell'operazione; quindi complimentandosi tra loro per la lezione impartita, visibilmente soddisfatti, proseguirono oltre.
Passato il pericolo ed atteso congruo tempo, al fine di scongiurare l'eventualità che ulteriori ripensamenti e conseguenti incursioni si verificassero, tutto venne rimesso a posto nell'ordine più perfetto con un'efficienza ed una tempistica degna di nota.

L'arrivo della ronda degli istruttori, che nel frattempo attirata dai rumori dell'evento verificatosi, si era attivata con la consueta solerzia, pur lasciando il tempo affinché gli annunciati eventi seguissero il loro corso, trovò la camerata numero otto perfettamente in ordine e gli allievi  raggomitolati nelle loro brande tranquillamente addormentati; ma chi avesse meglio illuminato l'ambiente, avrebbe notato sui loro volti apparentemente tra le braccia di Morfeo, un beffardo sorriso di vittoria.



69.
IMPOSSIBILE DIMENTICARE IL PERIODO DI NAIA …
(Marcellino Bortolomiol)

Cari Compagni del 64° Corso AUC,
mi è impossibile dimenticare il periodo di naia: il 12 luglio 1971 mi sono laureato in economia a Cà Foscari con tesi sull’economista e Premio Nobel Markovitz (Efficient diversificator of investments).
Serata e nottata al ristorante “Alla Cima” di Valdobbiadene con abbondante libagioni ed innaffio di prosecco Bortolomiol o meglio quasi una doccia con amici e parenti.
A mezzanotte saluto tutti e partenza per prendere il treno da Padova per arrivare ad Aosta poco prima di mezzogiorno del 13 luglio con fermata a Chivasso, calpestato sul corridoio da ragazzi in gita. Treno strapieno e il sottoscritto mezzo “sbronzo” e con sonno da recuperare dalle notti precedenti, si è ritrovato alla stazione di Aosta “mi sembra” in ritardo, con i commilitoni in jeep pronti a portarmi in caserma. Tralascio l’arrivo, il taglio della chioma e quant’altro a voi ben voto.
Il pomeriggio subito a lezione in prima fila dopo che il capitano aveva rimarcato al sottoscritto il fatto che gli altri già da 10 giorni erano attenti scolari e sapevano tutto sul tiro, sulle armi etc.
Ricordo il periodo da allievo ufficiale abbastanza con simpatia perché pur di fronte a materie nuove, la conoscenza dei compagni “d’arma” mi faceva dimenticare velocemente lo studio dell’economia e del diritto e le attività fisiche e le pesanti marce con arrivo nel percorso di guerra mi conducevano a sogni tranquilli anche se in camerata c’erano vari tipi di musica.
Ricordo con grande piacere il nostro coro a cui ho anche partecipato dopo che avevo lasciato in Veneto sia il Coro Monte Cesen di Paolo Bon che il Tre Pini di Gianni Malatesta.
La giornata che ha marcato il più bel ricordo del periodo è stata quella del giuramento: mi ha raggiunto ad Aosta mio fratello Giovanni (promettente rocciatore) vestito da marinaio, scelto per le sue scuole tecniche (con 24 mesi di naia da passare) e la bellissima foto fatta assieme sul piazzale della Caserma di Aosta.
Essere stato scelto tra i sei allievi ufficiali esploratori è stato un momento memorabile ed impegnativo considerato il “breck ground” di qualche collega.
Dopo le prime marce ed ascensioni ho visto che le mie doti di sciatore e rocciatore erano state ben comprovate nei dieci anni di pratica in montagna con i vari CAI di Feltre, Bassano e Conegliano.
Alfredo Marchelli ha tentato più volte a staccarci in salita ma eravamo sempre “alle costole” anche se con il fiato corto. Colleghi esploratori, mantengo un bellissimo ricordo di quel periodo: al corso di roccia al Castello, alle esercitazioni sugli sci a La Thuile, al percorso di sci alpinismo sul Colle San Carlo con pernottamento sugli igloo con notte insonne ma indimenticabile.
L’arrivo in caserma al 7° Alpini battaglione Feltre è stato per me un regalo: a 20 km da casa tra le vette Feltrine, e alla Caserma di Belluno e di Pieve di Cadore in mezzo alle Dolomiti.
Con il gruppetto di esploratori abbiamo battuto le piste per la gara del mondo di sci a Cortina, e preparato con corde fisse ascensioni al Cimon della Pala (San Martino di Castrozza) sotto una nevicata di luglio e dopo aver pernottato in quattro nel bivacco Fiamme Gialle per ben due notti di bufera di neve.
Le stupende discese dagli elicotteri dal Col Margherita sul Passo San Pellegrino con sci ai piedi in divisa bianca!!
Siamo stati fortunati tutti noi del 64° corso perché nel nostro anno cadeva il 1° centenario della fondazione degli Alpini: aver portato il gagliardetto dalle Dolomiti bellunesi, e superando il Monte Peralba (sorgente del Piave) raggiungere le vette del Friuli con il generale in attesa è stato grandioso! I tempi di percorrenza erano anche previsti percorrenze quasi di corsa.
Tralascio la vivace vita militare da sottotenente esploratore quasi sempre tra rocce e nevi e/o percorsi di montagna, con poca caserma.
Non posso dimenticare però il periodo invernale trascorso a L’Aquila. L’intero battaglione Feltre con muli, centinaia di alpini, camionette, camion su una lunghissima tradotta partiva da Feltre ed arrivava alla Caserma de L’Aquila per essere vicino a Roma (per rischio di sommosse politiche) prima della primavera del 1972, su richiesta credo, dell’allora Ministro Andreotti (così si diceva).
Attraversare la Piana di Campo Felice con i muli (gli alpini avevano scavato un varco alto 2 metri di circa 3 km sulla neve!) paesetti come Ovindoli, Roccaraso, sulla Maiella innevata, e sul Gran Sasso.
Sono percorsi che non si possono cancellare dalla mente. Nella settimana in cui dovevamo attrezzare la salita al Corno Piccolo del Gran Sasso, (dormivamo nei tunnel di cemento umido di Campo Imperatore, ex roccaforte del duce) si partiva al mattino alle cinque col buio fino a raggiungere l’inizio del lungo costone di neve da attraversare per portare in vetta la compagnia artiglieri tra nevi e rocce.
Una mattina verso le 8.30 – 9.00 nell’attraversamento abbiamo tagliato la costa innevata non mantenendo le distanze e di conseguenza il peso ha fatto partire una slavina.
Eravamo in 10: sette alpini esploratori, il capitano in coda, il sergente in testa ed il sottoscritto in mezzo.
Noi cinque centrali fummo coperti dalla neve della valanga che intanto cresceva e dopo un volo nello strapiombo di decine di metri fummo sommersi dalla massa nevosa. I quattro a fianco, due per parte, del sottoscritto furono buttati lateralmente ed io in centro continuavo a scendere sul plateau.
Mi ricordai di nuotare per emergere, e così riuscii a vedere un grumo di rocce sporgere dalla neve prima di iniziare il pericoloso canalone tra gli impervi spuntoni, mi ci buttai a capofitto, perdendo la pelle delle mani, riuscii a tenere la testa bassa finché tutta la neve mi passò sopra, resistetti, urlai e mi salvai. Nello stesso giorno in Trentino 7 alpinisti furono sommersi da una valanga: non ricordo quanti si salvarono!
Fui soccorso e recuperato e rientrai alla roccaforte di Campo Imperatore. Fui medicato alle mani. Gli altri, hanno avuto piccole escoriazioni ma niente di grave.
Il generale voleva dopo due giorni sorvolare con l’elicottero il Gran Sasso e godere la vista della compagnia con armi al seguito in cima al Corno Piccolo!
Nonostante tutto il giorno dopo ritornavo a completare il lavoro con gli altri esploratori mettendo delle corde fisse.
Il giorno successivo infine la compagnia con i pezzi degli obici e delle mitragliatrici raggiunse la vetta del Corno Piccolo; uno spettacolo, ma con immensa fatica e grande fu il contributo dei miei esploratori.
Tralascio le imprecazioni degli alpini e dei gloriosi esploratori che dovettero portarsi in spalla pezzi di mortaio e quant’altro. La montagna fu conquistata!!
Fui congedato il 30 settembre 1972.
Il primo ottobre domenica ero a Milano per iniziare il 2 ottobre il lavoro di revisione nella Peat Marwick Mitchell & Co società internazionale, era una delle Big Nine dell’audit. Dalla caserma al lavoro in 24 ore: addio alla vita di montagna dopo 15 splendidi mesi.
Ne serbo ancora un bel ricordo!
Vi ringrazio ancora tutti, perché leggendo le vostre mail ho ripercorso quel periodo di intensa vita alpina e mi sono sentito in dovere di riportare qualche frammento di quel percorso.
Non so se potrò esserci alla prossima adunata a causa di un impedimento.
Ci saremo tutti, lo spero, all’adunata del 2017 a Treviso.
Vi aspetto!

Marcellino Bortolomiol



70.
LA TRADOTTA
(Sandro Bazurro)

Il Secondo Reggimento Alpini, CAR, venne costituito il primo luglio 1963 e successivamente inquadrato nella Brigata Alpina Taurinense, con sede e Comando a Cuneo. Lo stesso CAR verrà sciolto, a seguito della ristrutturazione dell'Esercito, il 31 ottobre 1974.
Era composto dai Battaglioni Cadore, Orobica, Tridentina e Taurinense.
Operativamente venne suddiviso tra le Caserme Cesare Battisti di Cuneo con il Comando Reggimento, la Giovanni Cerutti di Boves sede dei reparti della Cadore, la Caserma Raffaele Trevisan di Bra, la Caserma Giuseppe Galliano di Ceva, con la Compagnia Pieve di Cadore, la Caserma Giuseppe Galliano di Mondovì Piazza, la Caserma Ignazio Vian di San Rocco Castagnaretta ( CN), con i reparti dell'Orobica,  la Caserma Trossarelli di Savigliano con i reparti dell'artiglieria da montagna Taurinense.
Nella caserma Cesare Battisti di Cuneo oltre il Comando di Reggimento, c'erano le Compagnie Trento, Bolzano, Bassano e CAM (Compagnia Artiglieri da Montagna) Tridentina.
Al termine del ciclo di addestramento di circa due mesi e mezzo, le reclute venivano accompagnate ai vari Reggimenti di destinazione, solo una piccola aliquota restava al Secondo Reggimento, per il cosiddetto CAR avanzato. Alcuni di costoro, tra i più motivati, potevano aspirare a diventare caporali istruttori e passare così nel Quadro Permanente del CAR.
Come ho già avuto modo di narrare in altra memoria, al mio arrivo al Reggimento di destinazione, il “doi” di Cuneo, (il suo motto: “Vigilantes”), l'11 di gennaio del 1972, venni assegnato alla Compagnia Artiglieri da Montagna Tridentina, ed il primo contingente reclute iniziò ad affluire in Caserma il 18 gennaio seguente.
Al mio plotone, il quarto, vennero assegnate 88 reclute, non so come fosse per gli altri giovani tenentini, ma a me sembravano un numero enorme; questa bellissima prima esperienza da istruttore era destinata a terminare con il finire del primo ciclo di addestramento, e quindi l'invio ai Reparti di destinazione.
La CAM Tridentina preparava la maggior parte degli alpini per il gruppo Asiago della Brigata Tridentina, con sede a Dobbiaco (Toblach), Caserma Piave, ma ne “perdevamo” molti durante il percorso, destinati in altre caserme, a Bressanone e Brunico ad esempio. Il collega Moro Maurizio, sottotenente della Compagnia Trento, ricorda perfettamente che la sua Compagnia formava alpini con destinazione Monguelfo (Welsberg), Dobbiaco, San Candido (Innichen).
La partenza per i Reparti di destinazione, tra una concitazione incredibile, avveniva solitamente di sera, in quanto considerato il percorso da effettuare e la velocità della “Tradotta”, si viaggiava tutta la notte, per giungere all'alba ai primi Punti di smistamento.
Il percorso della tradotta era a grandi linee il seguente: Partenza Cuneo stazione di Cuneo Altipiano,  Fossano, Savigliano, Torino, Milano, Brescia, Verona, dove venivano staccati i locomotori elettrici e venivano attaccate due locomotive a vapore e poi via sbuffando, verso Trento, Bolzano (Bozen), Bressanone (Brixen), Fortezza (Franzensfeste), con deviazione a Vipiteno ( Sterzing), oppure verso Brunico (Bruneck), Monguelfo (Welsberg), Dobbiaco (Toblach), ed infine capolinea San Candido (Innichen). 
La partenza, dunque: dopo un affrettato rancio, tutti inquadrati ci avviavamo verso la stazione di Cuneo, carichi oltremisura con zaini, borsa valigia, borsa da viaggio ed a volte qualche pacchetto ben nascosto o tollerato, di generi di conforto, che non avevano trovato spazio nel corredo di ordinanza.
Un vociare incredibile caratterizzava la partenza, incontenibile ed inarrestabile nonostante gli sforzi degli addetti all'accompagnamento; presto questo vociare si sarebbe affievolito, complice la notte da passare seduti sulle dure panchine di legno dei vagoni, fino a scemare naturalmente ed inesorabilmente alla vista dei luoghi ove i giovani alpini avrebbero trascorso lunghi, lunghissimi mesi di naia vera, complice anche il comparire della stazione di destinazione lungo la cui banchina si potevano scorgere i “vecchi” dal cappello abbuferato e lo sguardo truce che li attendevano, per accompagnarli ai nuovi Reparti.
Praticamente la “Tradotta” effettuava solo scali tecnici, durante i quali nessuno poteva scendere o salire dai vagoni, possiamo quindi immaginare cosa succedeva all'interno, in quel lasso di tempo di almeno tredici e più ore di viaggio.
Gli ufficiali addetti all'accompagnamento viaggiavano in “prima” classe sulle vecchie panchine rivestite di velluto, in uso fino alla fine degli anni ottanta, che comunque erano scomodissime e sembravano fatte apposta per tenere svegli.
Ricordo che a tarda sera, mentre mi stavo appisolando,  venni chiamato da un caporale del mio plotone per un problema che si era presentato; mi alzai insonnolito e mi recai nello scompartimento  assegnato al reparto, per vedere di che cosa si trattasse; in realtà un gruppetto di toscani, peraltro recidivi, avevano riempito due gavette di cipolla finemente tritata con l'aggiunta di tonno e fagioli, il tutto condito con molto sale ed abbondante olio e mi invitarono a dividere con loro quella che chiamarono “l'ultima cena”. Ovviamente non poteva mancare il vino e fu così che dopo una solenne mangiata di quell'insano intruglio e parecchi brindisi tornai barcollante, ma si trattava dell'incedere incerto e scomposto dovuto al percorso tortuoso del treno, verso il mio scompartimento e mi sedetti senza fare il minimo rumore, badando a non svegliare nessuno. Beh! per fortuna il treno era pieno di rumori, cigolii, sferragliamenti, e casualmente ci trovavamo vicini al servizio igienico; fatto sta che ad una certa ora ed era ancora buio, uno dei colleghi che dividevano con me lo scompartimento, bofonchiando spalancò la porta inveendo contro la scarsa pulizia dei vagoni ferroviari causa dell'olezzo di cipolla che indubbiamente proveniva dai consunti rivestimenti delle panchine e dal locale igienico attiguo. Io ovviamente finsi di dormire, cercando di reprimere i sordi rumori che inesorabilmente salivano e scendevano dal mio povero stomaco.
A parte questo piccolo inciso, tutto funzionò a meraviglia ed arrivammo all'alba verso le prime stazioni di destinazione, dove gli alpini via via scendevano a piccoli gruppi, guardandosi attorno spaesati, spesso alzando gli occhi verso le montagne innevate, avviandosi a piedi inquadrati o salendo rapidamente sui camion che li attendevano, non senza volgere un ultimo sguardo verso i loro compagni che forse non avrebbero più o almeno per un bel po' di tempo, rivisti.
Arrivammo infine a Dobbiaco, che era la mia destinazione, mentre altri proseguivano per il capolinea finale San Candido. Era il 27 Marzo dell'anno 1972.
L'amico Sottotenente Moro Maurizio, arrivato a quella destinazione, ricorda che li aspettava un “vecchio” caporale cappello abbuferato su una capigliatura ed una barba decisamente fuori ordinanza, che volutamente o naturalmente faceva paura solo a vedersi. Uno dei più coraggiosi giovani alpini guardando i monti innevati, ostentando baldanzosa ancorché prudente sicurezza, osò rivolgersi a lui con un “.... e noi dovremmo salire lassù, e magari con i muli ???” “Certamenterispose costui, senza volgere lo sguardo,” sì ci sono i muli e voi andrete e li porterete là, problemi non ce ne sono, tranne che a volte occorre scolpire nel ghiaccio con la piccozza i gradini per il mulo, quando rischia di scivolare!” Quei poveri ragazzi ammutolirono e raccolti da terra i loro bagagli, a testa bassa seguirono il capobranco: anche per quella decina di alpini era iniziata la naia vera.
A Dobbiaco, alla Caserma Piave sede del Gruppo Asiago, il cui motto “Tasi e Tira” la diceva lunga sulla gloriosa storia di quegli artiglieri, la consegna delle reclute al Reparto avvenne con le poche formalità di rito. Il Comandante mi consegnò il foglio di ritorno con la data in bianco e mi disse: tenente se desidera farci compagnia per altri due giorni è il benvenuto, ma penso che come tanti suoi colleghi non vedrà l'ora di rivedere i suoi cari, si regoli Lei di conseguenza.
Ovviamente corsi a prendere il primo treno per il ritorno, mi pare fosse verso mezzogiorno, il tempo per un panino e scrivere due cartoline. Sul treno incontrai il Tenente Moro che di ritorno da San Candido aveva avuto la mia stessa idea, eravamo felici, avevamo due giorni di libertà tutti per noi e per fare una sorpresa a casa e ...cosa che non guastava affatto, ci spettavano dodici mila lire di diaria in più da spendere.
Arrivai a Genova con l'ultimo treno e riuscii a salire sull'ultimo autobus, che mi avrebbe avvicinato almeno un po' di più a casa, (ormai a quell'ora non c'erano più mezzi per il mio paese) e poi dal capolinea su a piedi per sei chilometri fino alla casa sulla sommità della collina.

Comunque, pensai, ben poca cosa rispetto alle marce sfiancanti che aspettavano i miei alpini nei nuovi Reparti di assegnazione!



71.
LA PARTENZA
(Michele Casini)
 
La mattina di giovedì 1° luglio 1971 a Milano fa caldo. Michele Casini e Roberto Salati si incontrano al Distretto Militare di Via Mascheroni, ciascuno con la cartolina gialla in mano, così come altri giovani che devono prestare il loro servizio militare. I due non si conoscono, ma apprendendo che in giornata devono presentarsi alla caserma Cesare Battisti di Aosta per iniziare il corso Allievi Ufficiali presso la Scuola Militare Alpina cominciano a fraternizzare senza neppure immaginare il rapporto di grande amicizia che li legherà in futuro. Scambiano quattro chiacchiere e si danno appuntamento in Stazione Centrale per prendere un treno in partenza per Torino intorno a mezzogiorno. Roberto, previdente, ha già la valigetta pronta e comunica a Michele che, essendo già sposato ha salutato la moglie a casa preferendo evitare nuovi saluti che, data la situazione, creerebbero solo ulteriore sofferenza. Michele di tutta fretta va a casa per prendere la propria valigetta, già pronta, e raggiungere la Stazione Centrale dove, insieme a Naila che nel 1973 diventerà sua moglie, si incontra nuovamente con Roberto. Sul marciapiedi del binario dove è in partenza il treno per Torino arriva una giovane donna che vedendo Roberto lo abbraccia e bacia appassionatamente. Michele e Naila, già informata che Roberto è sposato, si guardano e al momento rimangono un po’ sorpresi dall’atteggiamento dei due. Immediatamente Roberto presenta la giovane donna come sua moglie Marinella e, quindi, si spiega l’arcano. Infatti Marinella, saputo l’orario di partenza del treno, è corsa in stazione, accompagnata dalla mamma Alice, per un nuovo saluto a Roberto. Saliti sul treno Roberto e Michele sistemano il proprio ridotto bagaglio e si affacciano al finestrino per un ultimo saluto a Marinella e Naila. Michele fa una battuta che vuole solo sdrammatizzare la situazione e dice: “coraggio che fra un anno mancheranno ancora tre mesi”. Marinella in futuro più volte dirà a Michele che in quel momento lo ha odiato profondamente per la “feroce” battuta. A Santhià avviene il cambio di treno e si sale su quello che arriverà direttamente ad Aosta. Su questo secondo treno ci sono, sempre provenienti da Milano, Massimo Flematti, Maurizio Grassi e Paolo Moneta. Tutti fanno presto a comprendere la comune destinazione (è sufficiente valutare l’età, la capigliatura già organizzata e un atteggiamento di dubbio per il prossimo destino). Prima che il treno giunga a destinazione i cinque si propongono, una volta arrivati, di fare un “giro largo” per andare in caserma, cogliendo così l’occasione di attraversare il centro della città. All’apertura delle porte del treno e discesi i pochi gradini il programma viene immediatamente modificato in quanto un sottufficiale ed un graduato invitano (si fa per dire) i nuovi arrivati a trasferirsi sul cassone di un camion militare che li porterà alla loro destinazione. Il percorso dura qualche minuto in quanto la distanza della stazione ferroviaria dalla caserma è breve e, una volta raggiunta la porta carraia i cinque nuovi allievi vengono fatti scendere ed entrare nel cortile; uno degli allievi di guardia del 63° corso (precedente a quello che frequenteranno Roberto, Michele, Massimo, Maurizio e Paolo) al momento dell’ingresso dice “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”. In fondo un incoraggiamento beneaugurante non si nega a nessuno!!!  I nuovi cinque amici vengono condotti nel corridoio dove si aprono le camerate e, considerato che sono arrivati come primi allievi del corso, prendono il proprio posto nella camerata n. 1 nei primi cinque letti (lato destro); questo fino alla nuova distribuzione delle camerate a seguito della suddivisione degli allievi in base alla specialità assegnata. Da quel giorno inizia l’avventura del corso allievi ufficiali che durerà fino al successivo mese di dicembre. Dopo la fine del corso Roberto e Michele, acquisito il grado di Sottotenente, vengono destinati al Battaglione Aosta presso la caserma Testafochi (Roberto alla 41° compagnia fucilieri e Michele alla 134° compagnia mortai). L’amicizia tra Roberto e Michele, nella quale restano coinvolte le rispettive mogli, durerà fino all’agosto 2009 quando Roberto “andrà avanti” e rimarrà immutata anche dopo. 



72. 
IL SILENZIO
(Michele Casini)
 
Alla caserma Testafochi del Battaglione Aosta una sera di primavera 1972 c’è un po’ di fermento dovuto al fatto che i Sottotenenti del 62° corso AUC il giorno dopo andranno a casa in quanto il loro periodo di servizio militare (15 mesi) è terminato. Sono passati pochi minuti dopo le 23 ed è già suonato il silenzio a conclusione della giornata, Michele Casini, Sottotenente della 134° compagnia mortai, decide di fare un regalo ai “nonni” congedanti e, facendosi aprire dalla guardia di turno il portone della “carraia”, porta la propria macchina al centro del cortile della caserma. Apre completamente le due portiere dove sono collocati gli altoparlanti e inserisce un nastro Super 8 (chi li ricorda?) con le suonate del celeberrimo trombettista Nini Rosso. Posiziona il nastro sul “silenzio” e a tutto volume inizia la riproduzione.  È completamente buio e, appena il suono prende voce, il silenzio all’interno della caserma è assoluto. Tutti quelli che sono all’interno si avvicinano alle finestre e ascoltano il silenzio cosiddetto “fuori ordinanza”. È un momento di grande emozione che coinvolge i partenti ed anche, ovviamente, chi resta. L’ufficiale di picchetto quella sera non è un Sottotenente di complemento, come solito, ma un tenente. Infatti nelle ultime settimane sono arrivati in caserma dei tenenti provenienti dalla Scuola di Applicazione per fare un po’ di esperienza al Battaglione anche come Ufficiali di Picchetto. Al termine del brano musicale Michele riporta l’automobile fuori dalla caserma e rientrando l’Ufficiale di Picchetto lo informa che il Comandante del Battaglione (Ten. Col. Cesare Di Dato) lo ha chiamato in merito al “fuori programma” per avere spiegazioni comunque rinviate al mattino successivo. Michele tranquillizza il Tenente dichiarando che l’indomani avrebbe informato il Comandante della propria responsabilità. Regolarmente il mattino successivo Michele, con colpo di tacco perfetto, entra al Circolo Ufficiali salutando i Colleghi ed il Comandante dichiarandosi responsabile del “silenzio” della sera precedente e, considerato che si è trattato solo di un regalo, apprezzato in verità da tutti, si dichiara disponibile a fare ammenda con un brindisi a suo carico. La proposta viene accolta positivamente da tutti, compreso il Ten. Col. Cesare di Dato, ottimo Comandante e gentleman. 

Gli strani casi della vita faranno sì che Michele Casini e Cesare Di Dato, dopo oltre 30 anni, si frequenteranno ancora per qualche anno. Questo perché Michele tra il maggio 2005 ed il 2011 sarà Consigliere Nazionale dell’Associazione Nazionale Alpini con il ruolo di Tesoriere Nazionale; per qualche anno, nello stesso periodo, Cesare Di Dato frequenterà le riunioni del Consiglio Nazionale in qualità di Direttore del mensile “L’Alpino”.



73.
IL FORTE DI BARD 
(Giorgio Buizza)


Allora il forte di Bard ospitava il deposito di munizioni dove anche la Smalp si riforniva periodicamente, in vista di esercitazioni al poligono o di altre esercitazioni a fuoco.
Personalmente non sono mai andato a Bard durante il 64° corso, ma credo che qualche allievo abbia partecipato a qualche trasporto di munizioni insieme ad un ufficiale o un sottufficiale.
A Bard operava in quel periodo una delle rare figure femminili inquadrate nell’Esercito Italiano: per la sua unicità, per la sua figura e per il suo ruolo era soprannominata “la marescialla”; risiedeva a Hone (dove risiede tuttora) e grazie al suo titolo di ragioniera, in mancanza di altro personale maschile qualificato, era stata assunta dall’Esercito e faceva la spola quotidiana tra la sua casa di Hone e l’ufficio al Forte di Bard.  Controllava la movimentazione delle munizioni e teneva il registro di carico e scarico e svolgeva quindi un compito di grande responsabilità.
La sua presenza ingentiliva quel luogo cupo e inaccessibile che era allora il Forte di Bard.
La signora Giacomina B.- coniugata G.- , è originaria di Lecco,  da dove si è trasferita in gioventù per seguire il papà minatore, operaio nelle gallerie delle centrali idroelettriche; vive a Hone, è mamma di tre figlie, tutte coniugate e nonna di numerosi nipoti. Recentemente ha raggiunto il grado di “bisnonna”.
La ricordo qui anche perché è la cugina di Manuela B., rimasta lecchese, che è diventata mia moglie nel 1978.
Nel 1971 non frequentavo Manuela e non potevo prevedere che in futuro avrei avuto un motivo in più per tornare di frequente in Valle d’Aosta. Il mondo a volte si rivela molto piccolo e provoca cortocircuiti imprevedibili.
Giacomina ricorda con un po’ di nostalgia i tempi del suo incarico alla polveriera dove ha continuato a lavorare fino all’età della pensione, tiene in alta considerazione lo Spirito Alpino, e cita con un certo compiacimento il suo ruolo, che anche le figlie bonariamente le riconoscono, di “marescialla”.
Coloro che nel 1971 sono stati al Forte di Bard e ricordano la sua presenza possono avere il piacere di incontrarla per risvegliare reciproci ricordi di gioventù.
Da allora le presenze femminili nell’Esercito sono entrate nella norma e non fanno più notizia. Oltre alle marescialle ci saranno, immagino, anche le capitane e le colonnelle.
Oggi il Forte di Bard, grazie ad un accurato restauro, è diventato sede di grandi eventi di alto livello culturale (mostre, convegni) nonché sede museale permanente, vivace e attraente, per giovani ed adulti. Per i “vecchietti” è stata costruita anche la funicolare di accesso. Merita sicuramente una visita.



74.
GLI ALPINI VANNO AL MARE
(Piergiorgio Marguerettaz)

Come ho avuto modo di raccontare in un'altra memoria, l'11 gennaio 1972 sono stato assegnato al Secondo Reggimento Alpini con sede a Cuneo. Qui sono stato destinato al Battaglione Orobica, Compagnia Edolo, Caserma Ignazio Vian, San Rocco Castagnaretta. 
I plotoni alle nostre dipendenze erano costituiti, come ha avuto modo di spiegare l'amico Sten. Sandro Bazurro, da un numero molto più elevato di alpini rispetto allo standard dei reparti, circa 80 soldati. Veramente impegnativo trasformare dei giovani borghesi, spesso insofferenti alla vita militare della leva obbligatori, in soldati. Comunque è stata una esperienza molto gratificante in quanto oltre che soldati abbiamo iniziato a farne degli Alpini, operazione perfezionata poi dai nostri colleghi presso i reparti operativi.
Al termine del periodo di addestramento, a fine marzo, gli alpini venivano inviati ai battaglioni cui erano destinati.
Non tutti in quanto circa una sessantina veniva trattenuto in forza al “Doi” per svolgere, al termine del corso della durata di 2 mesi, il compito di Caporale Istruttore delle reclute.
Insieme ad altri colleghi Sten fui comandato alla caserma Cesare Battisti, sede del corso, per partecipare allo svolgimento dello stesso.
Il comandante era il cap. Camusso della compagnia Trento (quella del nostro collega Sten. Maurizio Moro)                                                                  
Il corso ebbe inizio ai primi di aprile 1972.
Verso fine mese ci venne comunicato che, a seguito dello svolgimento delle Elezioni Politiche anticipate (le prime della storia repubblicana) il plotone degli allievi caporali era stato comandato per il servizio di guardia ai seggi elettorali. La nostra destinazione sarebbe stata la Liguria, in particolare la provincia di Imperia.
Fu così che venerdì 5 maggio 1972, di buon mattino, il corso caporali partì dalla stazione ferroviaria di Cuneo con destinazione Imperia.
Il corso annoverava tra le sue fila un discreto numero di altoatesini di lingua tedesca, con buona conoscenza dell'italiano, allo scopo di avere dei graduati istruttori in grado di fare da interpreti nei confronti delle reclute che dicevano di non conoscere l'italiano o che, ed erano sempre numerose, facevano fatica a farsi capire.
Naturalmente non erano molto contenti di essere stati trattenuti in Piemonte per tutta la durata del servizio militare al contrario dei loro compaesani ritornati in alto Adige e manifestavano questo malessere con mugugni continui. Tra questi spiccava l'alpino Pfeifer, proveniente dalla compagnia dello Sten Aldo Perron (la Bolzano).
Il ragazzo per sottolineare il suo malumore per essere stato trattenuto si era chiuso a riccio e partecipava a tutte le attività in maniera critica e scontrosa e a nulla servivano i vari tentativi di noi istruttori per sciogliere questa corazza.
Sarà stato per l'atmosfera allegra e goliardica che si respirava negli scompartimenti, nei quali, grazie anche alla bonaria tolleranza del cap. Camusso, si era instaurata una complicità alpina, fatto sta che ad un certo punto Pfeifer si sciolse e cominciò parlare, scherzare ridere con tutti.
Poi, aperto il finestrino dalla parte del vagone rivolta verso il mare, sporgendosi con mezzo busto fuori, informava il mondo che “gli alpini vanno al mare”, con il suo marcato accento tedesco. Finalmente si era aperto: ci confessò poi che era la prima volta che vedeva il mare.  Sicuramente il paesaggio e lo iodio della Liguria ci stavano dando una mano.
Durante il viaggio il Capitano ci informò che quella sera avremmo alloggiato presso la caserma Pietro Crespi sede del 89° reggimento Fanteria Salerno. I primi commenti furono ironici nei confronti dei “buffaioli” e subito dopo si manifestò lo spirito di corpo sotto forma di voglia di far vedere ai buffaioli di quale pasta sono fatti gli alpini.
     
Detto fatto: il tragitto dalla stazione fino alla caserma, comprensivo, su richiesta degli stessi allievi, di tre giri del grande cortile interno, fu percorso con un perfetto inquadramento, come se fossimo alla parata del 2 giugno ai fori imperiali.
Ricordo ancora la soddisfazione del capitano Camusso quando al Circolo Ufficiali oltre ai convenevoli di rito ricevemmo i complimenti del colonnello comandante la caserma (quando battono il passo sembra un colpo di mortaio...).
Il mattino successivo sabato 6 fummo destinati ai seggi elettorali. Io con una trentina di alpini e il sergente Ugo Possetto fui inviato a Borgomaro, piccolo centro sul torrente Maro nella prima parte della valle Impero. Il comune, di 900 abitanti, comprende 7 frazioni dislocate su altrettante alture, distanti tra loro poche centinaia di metri in linea d'aria ma diversi km. di strada a volte molto tortuosa. Impiegammo quindi tutta la giornata tra il trasferimento da Imperia e il dislocamento degli alpini ai seggi, in comune e nelle frazioni, ognuna delle quali aveva un suo seggio elettorale.
Finalmente, tutti sistemati, fui accolto dal sindaco che mi accompagnò presso la caserma dei carabinieri dove avrei alloggiato per il periodo di permanenza a Borgomaro.
Ebbe così modo di informarmi che il suo era un comune a prevalente reclutamento alpino, sede di gruppo alpini ANA, e quindi molto onorato delle nostra presenza.
Inutile dire che durante i 4 giorni di permanenza fummo coccolati da tutto il paese mettendo a dura prova stomaco e fegato sempre sotto stress visto che ogni occasione era buona per “offrire” amicizia sotto forma di cibi e bevande al sig. tenente e al suo sergente.
La sera di lunedì 8 maggio, terminati gli scrutini, gli alpini furono alloggiati per la notte presso la scuola materna in un'aula appositamente predisposta.
Quella notte nessuno dormì in quanto, complice il gruppo alpini di Borgomaro, fu organizzata una festa cui partecipò buona parte del paese, nel corso della quale potemmo gustare molte specialità della cucina locale annaffiata da ottimi vini, fraternizzando con gli abitanti, ragazze comprese, il tutto allietato da canti musica e balli.
Il mattino del 9 maggio, martedì, al momento dei saluti, visto che Borgomaro è il regno dell'olio extravergine dell'oliva taggiasca fummo omaggiati di una bottiglia ciascuno di detto olio.  Fu così che, con occhi gonfi di sonno arretrato, ma con l'animo pieno digioia e riconoscenza per l'affetto e l'amicizia dimostrati nei confronti di noi alpini, lasciammo un po' a malincuore questo borgo dell'entroterra ligure.



75.
L’ARTISTA E IL SOMMELIER
(Luciano Ivaldi)

L'artista.
Durante la selezione delle reclute al CAR di Bra, lo Sten. Sandro Cerrato, laurea in lettere, poeta, sognatore, si trovò ad esaminare un giovane che disse di essere musicista e pittore.
La selezione terminò all'istante. Sandro non volle che quel ragazzo finisse in pasto alla truppa. Tra commilitoni, un buon bevitore di grappa valeva più di un artista di talento!
Fu così che l'ufficiale arruolò il giovane come attendente da condividere con il compagno di camera, lo Sten. Enrico Casalegno.
Enrico, dopo una settimana, di quell'artista ne aveva le tasche piene. Ore e ore di solfeggi, il mattino, invece di rifare i letti. Ore e ore con i pennelli in mano, il pomeriggio, invece di lucidare gli scarponi. Ma che razza di attendente era quello!
Se ne lamentò con Sandro, che non volle sentir ragioni: le opere dell'ingegno venivano prima dei lavori di manovalanza!
Si giunse infine ad un compromesso: l'attendente della sessione successiva sarebbe stato scelto da Enrico Casalegno.

Il sommelier.
Più avveduto si dimostrò lo Sten. Adriano Peracchia quando selezionò i militari da assegnare al Circolo Ufficiali. Tra gli altri, scelse un giovane che era sommelier al Muscatel, un ben frequentato bar-ristorante della Cinzano, sulla provinciale Alba-Bra.
Al Circolo, dietro il bancone del bar, in giacca viola e guanti bianchi, il militare preparava gradevolissimi aperitivi che serviva, ghiacciati, in calici ornati con spicchi di limone e   bucce d'arancia.
Il nostro alpino dava però il massimo alla Mensa Ufficiali dove, in occasione delle feste, esibiva il suo talento proponendo grandi vini d'annata da abbinare a cibi di alta qualità.
Scelta la bottiglia e mostrata l'etichetta, il sommelier descriveva le caratteristiche organolettiche di quel nettare prezioso, poi con un temperino elicoidale estraeva il tappo dalla bottiglia, annusava il sughero e versava un sorso di quel sangue di Bacco nel bicchiere dell'ufficiale più alto in grado.
Questi, annusati i profumi e tastati i sapori, con l'autorità che gli era conferita dalle stellette, approvava la scelta e dava il via alla libagione con un formale cenno del capo.


76.
IL RENITENTE ALLA LEVA
(Luciano Ivaldi)

“Rifiuto il servizio militare!” furono le parole proferite da un giovane di leva allo Sten. Luciano Ivaldi. Si capiva da lontano che quel ragazzo era allergico alla polvere da sparo. Aveva capelli lunghi, barba incolta e occhialini tondi con una sottile montatura metallica. 
L'ufficiale gli disse che, per il codice penale militare, i renitenti alla leva erano equiparati ai disertori e condannati con la reclusione di almeno tre anni, da scontare nel carcere di Peschiera.
Il ribelle rispose che con il codice militare si sarebbe pulito il culo. Poi iniziò ad inveire contro il governo, i giornali e la TV (c'era solo la Rai). Al diavolo finirono anche banche e multinazionali, ce l'aveva con il mondo intero. Troppa marijuana?  Chissà?
Per sancire la renitenza alla leva, la procedura prevedeva che, in presenza di due testimoni, l'ufficiale intimasse alla recluta di imbracciare un'arma, nella fattispecie il Garand M1. In caso di rifiuto, il regolamento prescriveva che l'ordine venisse intimato altre due volte e, al terzo diniego, che il ribelle fosse consegnato ai carabinieri.
Il ragazzo si oppose due volte all'ordine e lo Sten. Ivaldi decise di rimandare all'indomani il terzo tentativo. Se si fosse trattato di stupefacenti, smaltiti gli effetti allucinogeni, forse il giovane avrebbe cambiato idea. In un caso precedente la ricetta aveva funzionato.
L'obiettore venne accompagnato in CPR, che per i non addetti ai lavori significa Cella di Punizione di Rigore.
L'indomani mattina l'ufficiale andò dal ragazzo, che trovò sdraiato sul tavolato di legno che fungeva da letto in quella camera disadorna. Si avvicinò abbozzando un sorriso e gli chiese di raccontargli qualcosa della sua vita.
Il giovane, con uno sbuffo d'insofferenza, disse di essere uno studente e di far parte di un collettivo autogestito. Era in disaccordo con i genitori, troppo benpensanti e conformisti.
Ribadì di essere contrario al servizio militare (erano i tempi della guerra del Vietnam).
L'ufficiale abbozzò: “gli alpini non sono fomentatori di guerre, soccorrono chi è in disgrazia, i terremotati, gli alluvionati...”.
Non riuscì a terminare la frase. Il ribelle si alzò di scatto e urlò di farla finita con quella predica da oratorio. A suo dire, tutti i militari erano guerrafondai e tutti quanti leccavano il culo agli USA. Che lo mettessimo in galera, avrebbe sputato in faccia ai secondini.
Aveva il sangue agli occhi e ansimava come una belva ferita.
In presenza di due testimoni, Luciano Ivaldi certificò il terzo e definitivo rifiuto, poi uscì in cortile per respirare l'aria fresca del mattino. La sua laurea in Economia e Commercio non gli consentì di risolvere quel caso che esulava dai manuali di gestione societaria.
Ma mai avrebbe immaginato che, alcuni anni dopo, economisti e dirigenti di società pubbliche e private sarebbero diventati uno dei bersagli più colpiti dalle Brigate Rosse.
Il ragazzo ribelle, dopo aver rifiutato il servizio militare, dopo aver scontato almeno tre anni di carcere, si era forse arruolato come volontario in quel gruppo eversivo?

Negli anni di piombo i capi delle Brigate Rosse rivendicarono l'assassinio di molte persone. Tra queste:
Vittorio Bachelet (professore)
Massimo D'Antona (dirigente)
Aldo Moro (politico)
Ezio Tarantelli (economista)
Girolamo Tartaglione (magistrato)
Walter Tobagi (giornalista)
Guido Rossa (sindacalista)


77.
UN GIRO SULLA GIOSTRA
(Luciano Ivaldi)

Lo Sten. Enrico Casalegno era un ragazzo buono come il pane. La prima domenica dopo l'arrivo delle reclute, toccò a lui svolgere il servizio di ufficiale di picchetto al CAR di Bra.
Non essendo ancora in grado di distinguere i gradi dei superiori, agli alpini in erba venne negata la libera uscita. Di questa restrizione essi si dolsero perché, in quel giorno festivo, avrebbero voluto girovagare in Langa e Monferrato, sulle colline che in seguito l'Unesco avrebbe dichiarato “Patrimonio dell'Umanità”.
Per vincere la noia in quel caldo pomeriggio, alcuni militari si sedettero all'ombra dei platani con un libro in mano, altri accesero la radiolina per ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”, i più si ritrovarono a cazzeggiare. 
Enrico Casalegno, dopo una pennichella consumata sulla brandina della stanza riservata all'ufficiale di picchetto, uscì in cortile per sgranchirsi le gambe. Poi imboccò lo scalone che conduceva alle camerate e, in fondo ad un corridoio, vide alcune reclute che si intrattenevano in ordine sparso.
Si avvicinò, erano una decina. In quell'istante da una camerata uscì un giovane alpino che con movimenti goffi si allacciò la cintura dei pantaloni.
“Tenente, se vuole fare un giro sulla giostra, per lei è gratis”, disse il più furbo della compagnia nel tentativo di limitare i danni.
Enrico irruppe all'interno della camerata e su di un letto vide una giovane donna nuda, in posizione supina, le gambe leggermente divaricate. Con sguardo furtivo ne notò il seno turgido e le cosce ben tornite.
“Che cazzo ci fai qui?” sbottò.
La prostituta si coprì il seno con le mani, rannicchiò le gambe per nascondere la vulva e guardò di sottecchi quell'ufficiale alto quasi due metri, con le spalle larghe e i baffi minacciosi.
“Hai cinque minuti per sparire”, urlò l'ufficiale alla sgualdrina che aveva i capelli neri e arruffati come i corvi d'inverno e la pelle bianca e luminosa come la luna d'estate.
Poi uscì dalla camerata e ordinò ad un caporale di inquadrare sugli attenti, nel cortile della caserma, quegli incoscienti che tanto avevano osato per soddisfare le loro pulsioni giovanili.
Dopo dieci minuti tornò sul luogo del delitto, della prostituta non vi era traccia. Andò alla porta carraia, si trattenne al Circolo Ufficiali e con comodo ritornò sul piazzale della caserma per guardare negli occhi quegli scriteriati.
Il sole ardeva in un cielo senza nubi e le giovani reclute, non ancora temprate alla vita militare, avevano i visi paonazzi e gli occhi che imploravano pietà. Essendo sugli attenti, non potevano muovere neppure la punta del naso. Gocce di sudore scivolavano dalle fronti alle gote prima di cadere sull'asfalto rovente e svanire nell'aria.
Il gigante buono squadrò uno a uno quegli scapestrati e, mosso da compassione, ordinò al caporale di porre fine alla punizione.
Poi si avvicinò all'alpino che gli aveva offerto il giro gratis sulla giostra. “Qual'era la tariffa?” gli chiese sornione. “500 lire a testa, una diaria” disse il furbetto. “E com'è entrata in caserma?” aggiunse l'ufficiale. “Dal portone principale, mentre lei faceva la pennichella!” fu la risposta che mise fine alla conversazione.




78.
MAL DI NAIA
(Sandro Bazurro)

Il CAR di Cuneo, un mondo nuovo, racchiuso dietro un muro, dove ragazzi di vent'anni entravano portando i loro problemi, spesso sottovalutati, una realtà di vita che avrebbe dovuto contribuire a trasformarli in uomini, un aiuto educativo complementare alla formazione del cittadino e del buon padre di famiglia, pilastro della nuova società.
Era arrivato al CAR di Cuneo con il primo contingente reclute 72'. Una persona educatissima, sensibilissima, si capiva subito che aveva avuto una educazione superiore.
Proveniva da una famiglia benestante di floricoltori della riviera ligure, un bel ragazzo, serio e motivato.
C'era però nel suo sguardo un qualcosa di inquietante, insieme con una profonda tristezza, un male di vivere, vi si leggeva una tacita richiesta di aiuto. Certe cose spesso a quei tempi venivano sottovalutate, anzi si diceva che la naia faceva bene e così era stato probabilmente l'unanime giudizio della commissione di leva, quando lo avevano assegnato alle truppe alpine. Ad onor del vero lui stesso non aveva mai voluto sottrarsi ai suoi doveri di uomo e di cittadino, lui stesso era convinto che la naia gli avrebbe fatto bene, avrebbe risolto se non tutti almeno parte dei suoi problemi e ce ne volle a convincerlo, ultimati i mesi del primo ciclo di addestramento, ad accettare un impiego in fureria. Cercammo tutti di metterlo a suo agio, dai commilitoni al comandante di squadra, a quello di plotone, fino al comandante di Compagnia, degnissima figura di ufficiale e di buon padre di famiglia. I suoi genitori, convocati a colloquio ci descrissero brevemente i problemi del loro ragazzo; essi avevano sempre cercato e cercavano di spianargli la strada in ogni modo, ben consci della lotta interiore che questo giovane stava vivendo.
 Aveva una bella automobile parcheggiata innanzi la Caserma, gli avevano affittato un piccolo appartamento in città per trascorrere serenamente i momenti di libera uscita, ma sembrava esserci qualcosa che lo tormentava all'interno.
Ricordo che spesso mi intrattenevo con lui a parlare dei suoi interessi, della vita militare che asseriva essere per lui era uno sfogo, un impegno che lo distraeva dai suoi pensieri, un toccasana per la sua fragilità, per la sua solitudine e la sua incertezza di vita, i suoi sensi di colpa, cercando nel mio piccolo di fornirgli le risorse necessarie a completare le sue, nei momenti di maggiore necessità.
Scrupoloso nel suo lavoro, improvvisamente si abbatteva, ed io dovevo improvvisarmi psicologo, impreparato per un compito più grande di me e disperato della mia incapacità, ma non volle mai essere considerato un malato, anzi guai a parlare di ospedale militare, l'unica via verso il congedo anticipato.
Comunque tutto proseguiva tra alti e bassi, di pari passo con le esercitazioni delle reclute al greto Gesso, il torrente che scorre in fregio alla città, ove la CAM Tridentina e le altre Compagnie del Battaglione effettuavano le loro esercitazioni,  mettendo in atto i vari passi del gatto, del gattino, il percorso di guerra, l'addestramento formale per il giuramento, l'istruzione basilare propedeutica al lancio della bomba a mano, ovvero insegnare a lanciare pietre nel rio, scoprendo con orrore che qualcuno dei ragazzi non aveva mai lanciato pietre , nemmeno nell'acqua. Immaginiamoci poi lanciare la bomba a mano SRCM, cose dell'altro mondo, da inorridire.
Fu proprio dal ritorno da una delle suddette esercitazioni sul fare del mezzogiorno, una bella giornata di sole, di quelle che ti fanno sentire in grado di conquistare il mondo, che entrati in Caserma, dalla porta carraia, ed arrivati nei pressi della CAM Tridentina, vedemmo un capannello di persone, in atteggiamento inequivocabile. La prima cosa che mi venne in mente fu proprio quella, terribile, che popolava i miei incubi. Quel caro ragazzo, quell'alpino, quell'essere che stava combattendo la più tremenda delle battaglie, aveva posto fine al suo male di vivere, così semplicemente, scavalcando il davanzale della fureria, e senza un attimo di ripensamento giù a capofitto fino ad incontrare l'asfalto del cortile antistante il suo Reparto, senza un grido.
Lascio ad ognuno immaginare la pena tremenda che la tragedia ebbe su tutti, dall'ultimo degli alpini alle più alte sfere della gerarchia militare.
Alla base di tutto c'era il fallimento di tutto ciò in cui fermamente si credeva a quel tempo: un po' di naia fa bene a tutti e guarisce tutti i mali.
Invece lo Stato aveva fallito, non aveva saputo proteggere uno dei suoi ragazzi che gli erano stati affidati, non aveva saputo aiutarlo a guarire dal suo male e quel gesto estremo che il poveretto aveva voluto si concretizzasse proprio nella sua Compagnia, nella sua Caserma, stava a testimoniarlo, era l'ultimo suo silenzioso rimprovero al sistema.



79.
LE VALLI DEL NATISONE
(Evelino Mattelig)


Luglio 1971.
Originario delle Valli del Natisone, ai confini con la Slovenia, arrivai alla Scuola Militare alpina affascinato dalle montagne che circondavano la Valle d’Aosta; mai viste prima, così possenti, alte, sovrane; ignaro che nei sei mesi successivi le avrei frequentate con ogni situazione climatica nell’attività della scuola, caratterizzata da disciplina, studio e grande attività fisica, prima di essere destinato ai reparti operativi. Fu un esperienza di vita indimenticabile, da augurare a tutti i giovani, che mi fece innamorare della montagna; un amore che lo porti indissolubilmente con te per tutta la vita, come una droga e non puoi farne a meno; ti è anche di grande aiuto nei momenti difficili e, posso confermalo, anche quale speranza durante le malattie.
Una sera dopo il contrappello, con altro compagno di camerata, decidemmo di restituire uno scherzo ‘najone’ subito dagli allievi di un'altra camerata. In silenzio nella notte posizionammo una bacinella colma d’acqua sopra la porta d’ingresso della loro camerata, in modo che il primo che fosse uscito avrebbe ricevuto una bella doccia rinfrescante. Sfortuna volle che proprio quella sera il sergente di giornata decise di ispezionare a sorpresa alcune camerate nel corso della notte e, sfortuna nella sfortuna, decise di entrare anche in quella da noi presa di mira, con la conseguenza che la doccia rinfrescante, da vestito, la ricevette lui. Non poté, naturalmente, non informare il comandante della compagnia dell’accaduto, il quale, la mattina seguente, dopo l’Alzabandiera che ogni mattina, a buon ora, segnava l’inizio delle attività, chiese che gli autori dello scherzo subito dal sergente, si presentassero fuori dallo schieramento. Con il compagno di camerata mi feci avanti ed il comandante ci convocò a rapporto nel suo ufficio per l’ora della libera uscita.

La sera, puntuali dal comandante. Questi, che purtroppo durante il servizio prematuramente è ‘andato avanti’ e di cui serbo un indimenticabile ricordo per le sue alte qualità di lealtà, umanità oltre che professionali, dopo l’inevitabile “ramanzina”, ci punì non con CPS o CPR e che avrebbe potuto pregiudicare la nostra valutazione a fine corso, ma con alcuni giri di corsa del perimetro della caserma (che era molto estesa!) sotto il controllo dell’ufficiale di picchetto. Inoltre per una settimana non ci fu concessa la libera uscita, rimpiazzata dal lavaggio delle marmitte e dei vassoi che venivano utilizzati per il rancio. Stavamo uscendo dal ufficio del comandante dopo averlo salutato come previsto dal regolamento, quando questi disse: “Allievo ufficiale Mattelig Evelino”, prontamente mi girai, sbattei i tacchi, mi misi sull’attenti e con tono fermo e deciso risposi “comandi!” e lui: “Tu con questo cognome che termina con la ‘g’ non puoi essere originario che delle Valli del Natisone in Friuli”. "Signorsì!" risposi. Lui continuò: “Ma di che paese?”, con fermezza ed orgoglio ribattei: “di Ponteacco”. Lui aggiunse: “Ponteacco, Ponteacco … ma di che borgo? Petrina, Corene o altro?” Stupito e meravigliato dell’appropriata domanda, guardandolo fisso negli occhi, sempre sull’attenti, prontamente risposi (non saper rispondere al comandante significava altri giri di corsa della caserma e non era proprio il caso), inventando al momento, senza alcuna esitazione pronunciai: “di borgo butiga (negozio in dialetto sloveno, in quanto i mei genitori gestivano il negozio/emporio del paese)” e lui, con un sorriso appena abbozzato: “ma va là, va là,… vai a correre con il tuo amico e fatevi passare i bollenti spiriti e poi divertitevi in cucina a lavare le marmitte ed i vassoi!”




80.
ESSERE ALPINO
(Mario Lorenzi)

Ciao,
sono Mario Lorenzi, 64 corso AUC.
Ho esitato molto prima di scrivere qualcosa perchè non mi piace, in generale, rievocare il passato.
A quel tempo io avevo 25 anni, ero già sposato e mi mancava perciò la spensieratezza dei vent'anni.
Venivo da un pesantissimo corso di laurea al Politecnico di Torino e la prima cosa che ho apprezzato è stata l'attività fisica, alla quale avevo dovuto rinunciare per tanto tempo. Mi piaceva (e tuttora mi piace) usare il corpo fino allo sfinimento e lì avevo trovato pane per i miei denti. Mi piacevano le montagne, la vita all'aperto, alzarsi presto al mattino, ecc ecc.
Essere un alpino non mi dava una sensazione particolare: avevo cercato di esserlo soprattutto per poter restare vicino alla mia città (e a mia moglie).
Nel periodo successivo, da sottotenente, il mio atteggiamento è cambiato; ho capito quale può essere la generosità degli alpini, avendo avuto la fortuna di appartenere alla compagnia del capitano Albarosa e del maresciallo Zampa, due persone meravigliose morte in quel maledetto incidente di elicottero.
Con loro ho capito che essere alpino vuol dire soprattutto essere una persona che si impegna per soccorrere chi è in difficoltà, la componente militare essendo un aspetto secondario.
Non ho ricordo di molti episodi specifici del periodo del corso AUC; l'unico che mi viene in mente riguarda il capitano Z... ( non ne ricordo il nome, mi sembra iniziasse per Z) che era subentrato verso la fine del corso. Lui ci strapazzava e ci portava volutamente al limite della sopportazione, evidentemente per vedere come reagivamo.
Ricordo che un giorno ci aveva radunati e aveva urlato più volte "Va tutto bene? Non c'è nessuno che abbia qualcosa da dire?", sapendo perfettamente che "non poteva andare bene". All'ennesimo urlaccio io, tremando come una foglia, parlai e dissi qualcosa del tipo "Lei ci tratta troppo malamente". 

Questo episodio mi valse il massimo di attitudine militare, come il capitano Z... ebbe a dirmi successivamente.



81.
FREGATO (una piccola soddisfazione per entrambi)
(Roberto Braggion)

Subito dopo che i ìvecchi’ facenti parte della truppa della 76^ Compagnia di stanza a Chiusaforte, finita la  naja, se furono andati, i loro posti furono presi, nel giro di un paio di giorni, da altrettanti ‘civili’.
Ben presto sarebbero diventati dei bravi militari a tutti gli effetti.
Ma la cosa non era automatica. Tutti questi bravi ragazzi dovevano passare attraverso la trafila che, come noi, i loro Ufficiali, ci eravamo sottoposti a nostro tempo: addestramento alle armi, alla disciplina, alla fatica, ai servizi, alle marce e a tutto il resto di fatiche che il Servizio Militare prevedeva.
Ogni Sottotenente aveva il suo Plotone da seguire e ogni sera, nell'ufficio del Capitano, avevano luogo le riunioni per fare il punto sulla situazione.  Tutto procedeva bene: erano tutti bravi ragazzi con desiderio di imparare. Si erano tutti affiatati fra loro in breve tempo e portavano avanti il programma di istruzione aiutandosi a vicenda.
Tutto a posto, insomma.
Invece no.
Fra i miei alpini c'era il soldato Colameo. Abruzzese di nascita e di cocciutaggine. S'era messo in testa che lui, con la naja, non voleva averci niente a che fare. Anzi, doveva fare qualcosa “contro”.
Per carità, buono come il pane, tranquillo e gentile ma, tutto quella che faceva, era l'esatto contrario di quello che facevano gli altri. E con la ferrea volontà di esibire questa sua diversità.
Questo in tutte le materie di istruzione: ma una su tutte era quella che prediligeva boicottare. Ed era marciare con la compagnia in preparazione di una parata.
Ad ogni ‘passo’ il suo piede batteva subito dopo quello degli altri, era sempre disallineato, girava la testa sempre quando doveva stare ferma, e così proseguendo.
Per il suo carattere mite era ben tollerato dai suoi commilitoni; ma molto meno dal mio Capitano.
Prima velatamente e poi sempre più chiaramente mi fece capire che avrei dovuto, in qualche modo, risolvere il problema.
Altrimenti ci avrebbe pensato lui.
Devo confessare che la cosa cominciò a preoccuparmi: in quella sua ribellione c'era qualcosa di strano. Ad ogni marachella che combinava il suo sguardo cercava di incrociare il mio ma con leggera sfida e allo stesso tempo dispiacere nei miei confronti: mi sembrava di interpretarla come una scusa: “mi spiace per te ma io ho la mia missione antinaja da compiere”.
Queste sfide a me piacciono e la raccolsi in pieno. Mi interessava molto che il ‘mio’ alpino non si facesse del male da solo e non andasse incontro a brutte conseguenze.
Cominciai a ‘marcarlo stretto’, anche cercando di dialogare con lui in tutti i momenti possibili, senza risultato. Ma la data del parata si avvicinava. E il Capitano fremeva sempre di più.   A seguito delle mie rassicurazioni che tutto sarebbe filato liscio sfoggiò una calma “pericolosa” come a dire che eventuali guai li avrei pagati io.
L'idea mi venne lo stesso giorno della parata.
Era l'alpino Colameo piccolo di statura, anche se non fra i più piccoli, e nella predisposizione dell'allineamento della Compagnia gli assegnai comunque il primo posto, quello più in vista.
Sarebbe stato visto per primo e in pieno da tutto il pubblico, alti Ufficiali, un Generale, ma, soprattutto, dalla sua morosa e dai suoi famigliari che erano arrivati da un paesino disperso della provincia de L'Aquila a Chiusaforte e come lui mi aveva confidato in un momento di tranquillità.
Inutile dire che marciò a tempo, impeccabile nell'allineamento e nella marziale postura che assunse durante tutta la parata. Soprattutto con lo sguardo felice. E dopo il suo atteggiamento cambiò.
Sicuramente fra i due il più felice fui io quando il Capitano, qualche tempo dopo, chiese il mio parere sulla sua decisione di promuovere l'alpino Colameo a Caporale ed affidargli l'incarico di addestratore.
    


82.
APPUNTI
(Aldo Perron)


Prologo
18 gennaio 1970, Wiblingen Baden Wuettenberg, Repubblica Federale di Germania.
Ore 7:00. Squilla il telefono, ma non è il capoturno della stazione di pompaggio di Altheim, bensì mia madre agitatissima che mi annuncia la visita dei carabinieri per notificarmi la chiamata alle armi! Mi fiondo a Torino al distretto e riesco a presentare i documenti per il corso AUC. Si chiude un periodo splendido della mia vita ed inizia un nuovo capitolo.

Luglio primo impatto
Il giorno 4 arrivo ad Aosta e nonostante la mia esperienza di vita e professionale vengo preso dalla sindrome della recluta ovvero il disorientamento che ti fa muovere goffamente come una foca.
L'alba successiva serena e molto fresca mette in scena l'alzabandiera: lo spettacolo del Tricolore che sale lentamente con sullo sfondo l'Emilius mi commuove e così sarà per i prossimi sei mesi

Agosto giuramento
Passato circa un mese di addestramento formale e marcia in ordine chiuso siamo quasi pronti alla sfilata con i plotoni inquadrati in sestiglie e con tutte le manovre con il fucile, fino alla marcia a spall'arm con il tenente colonnello cerimoniere che controlla l'allineamento delle baionette con un'asta quadrata di legno e fino a quando l'allineamento non è perfetto ci guadagniamo un altro giro di cortile.
A sera si vedranno chiaramente le scie lasciate dagli scarponi, quasi come nell'autodromo dopo una corsa!
Un episodio curioso avverrà durante un passaggio davanti al corpo di guardia: ad un certo punto si sente la voce dello sten. (Malfa?) che si strozza il mio plotone sbanda allargandosi facendomi vedere un paio di cosce femminili superbe scoperte fino all'inguine con seguente risata della cameriera del bar a fianco della caserma. Come un plotone di allievi viene sbaragliato non dalle armi, ma da una visione celestiale di grazie femminili.
Il giorno del giuramento sarà un grande festa con tutte le famiglie diffuse in tutta la valle: forse sarà l'ultimo giorno spensierato del corso poiché inizierà l'addestramento duro specialmente per noi fucilieri.

Settembre, ottobre
In questi mesi rimaniamo sempre meno in caserma con marce, addestramento a quota 801, poligono del Buthier, pattuglie nei dintorni di Aosta.
Naturalmente ci saranno tutti i servizi di corvée e di guardia per cui specialmente i picchetti toglieranno molte ore di sonno.
Unici giorni di riposo, tre, a seguito della donazione del sangue e della famosa puntura polivalente durante la guardia all'eliporto di Pollein il capitano Elia ci offrì il caffè: lo ricordo con commozione poiché a maggio del 1973 perirà con altri sei a causa della caduta dell'elicottero di ritorno da La Thuile

Novembre
Siamo pronti per il campo invernale ed il tempo diventa decisamente invernale con neve e freddo sotto zero.
Io e Bazzurro (che ha descritto in modo anonimo l'episodio) siccome nel cuore della notte ci svegliavamo per andare a mingere una notte prima della partenza, quando i mortaisti erano già pertiti, ci alziamo ci guardiamo e senza proferire parola saliamo al primo piano, prendiamo il tavolo dell'allievo di giornata e lo portiamo nel sottotetto dove rimarrà alcune sere dopo prenderemo Brociero già addormentato alle sette di sera con il letto e lo porteremo in cortile, ma siccome iniziò a nevicare e Ernesto non dava segno di svegliarsi quando ormai era coperto da due dita di neve fresca precipitosamente lo recuperiamo e quando è nuovamente in camerata si sveglia e chiese cosa fosse successo.

Dicembre
La Thuile e fine corso il campo si svolse in un ambiente completamente innevato con dei panorami fantastici, che mi davano forza di continuare anche quando ero quasi al limite, dovendo salire più di tutti in quanto dovevo portarmi ‘mariagrazia’ sulla postazione di sinistra: unico ricordo una fotografia in bianco e nero in cui si vede il plotone schierato prima dell'attacco a fuoco.
Il ritorno ad Aosta attraverso il colle S. Carlo rimarrà memorabile: dopo circa quarant'anni Folegnani mi riconoscerà e si ricorderà il mio cognome.
L'ultima settimana di corso rimaniamo praticamente consegnati, poiché qualcuno pensò bene di appendere al pennone della bandiera l'albero di Natale dei figli! Inoltre si verificò che molti di noi non vollero partecipare al regalo tradizionale per cui fummo sottoposti a diverse pressioni a tutti i livelli gerarchici.

Comunque il 23 caricata la macchina partii da Aosta con destinazione al secondo reggimento dove sarò destinato alla compagnia Bolzano con Angelo Rossi. 


    
83.
MARINELLA, ROBERTO E BARBARA
(Marinella Salati)

Sembrava il racconto della campagna di Russia.
In una fredda mattina di gennaio il battaglione partì per i campi invernali, una missione dura ma esaltante.
Negli anni successivi, quando Roberto parlava di questa avventura, essa veniva sempre più arricchita di particolari che la rendevano straordinaria, eccitante, impossibile da dimenticare, quasi eroica.
Nel ricordo, tra gelide notti passate di guardia, si alternavano momenti di puro eroismo, dove gli alpini, chiamati a difendere i valligiani dai disastri dell'inverno, venivano calati dall'elicottero in mezzo a cumuli di neve per portare in salvo uomini e animali.
Roberto esprimeva in questo modo, forse un poco esagerato, tutto il suo amore per il corpo degli alpini, per la Valle, per quella che considerava una esperienza straordinaria, unica, che gli aveva aperto la mente e il cuore e della quale aveva sicuramente grande nostalgia.
Terminata l'emergenza dell'inverno, quando la neve e i ghiacci erano solo un ricordo, la Valle si vestiva di colori, sempre più decisi e intensi.
Passati i mesi primaverili, veniva il momento dei campi estivi. Roberto amava moltissimo la montagna e la Valle d'Aosta che aveva frequentato fin da bambino con suo padre, egli stesso Alpino che aveva partecipato alla campagna di Russia.
Proprio durante i campi estivi, tra tappe quotidiane, nonostante la fatica e il sudore, l'amore per i monti e i boschi trovava la massima soddisfazione.
Quell'anno, però, c'era un importante novità per Roberto: sua moglie Marinella aspettava un bambino, che sarebbe nato proprio nel bel mezzo dei campi estivi.
Fu un periodo piuttosto complicato per i due giovani sposi. Marinella aveva dato, due settimane prima della data prevista per il parto, il quarto e ultimo esame orale di letteratura tedesca con ottimi risultati ma con grande fatica ad entrare nel banco, non previsto per gestanti al nono mese.
Roberto faceva tappe giornaliere su e giù per le valli, non sempre poteva telefonare alla moglie e la cabina telefonica non era sempre a portata di mano. Se fosse accaduto qualcosa di imprevisto, come raggiungerlo in tempi brevi?
Il padre di Marinella, direttore di una delle molte filiali della Sip, si incaricò del problema. Furono avvisati i centralini dei paesi dove Roberto avrebbe sostato per la notte. Arrivò il momento. Il futuro papà, nel timore di non arrivare per tempo, aveva negli ultimi giorni, escogitato un trucco: aiutato da tutti i commilitoni era riuscito a portare la macchina nella località più vicina, spostandola via via.
Non si sa esattamente come, ma, alle prime avvisaglie, messi in moto i complicati meccanismi di avvertimento, Roberto arrivò in un tempo considerevolmente breve a casa.

Falso allarme. Ma, come spesso succede, poche ore dopo, l'allarme risultò veritiero e l'alpino Salati divenne padre di una bambina, alla quale venne dato il nome di Barbara, protettrice dei montanari.



84.
DUE PILLOLE
(Luciano Ivaldi)


Un bocconiano atipico

Renato Barberis arrivò ad Aosta da Quattordio, il paese dove viveva con i genitori in un bel   cascinale di campagna lungo la statale Asti - Alessandria.
Aveva un grande rispetto per la natura, amava la vita all'aria aperta e nell'orto di casa coltivava ogni tipo di verdura.
In autunno si alzava all'alba per andare a cercare i funghi nei boschi del Sassello, sui monti che marcano il confine tra il Piemonte e la Liguria.
Era un AUC intelligente e riservato, sempre pronto ad aiutare i compagni. La zappa e la vanga avevano irrobustito il suo corpo, saliva sui pendii senza affanno portando in spalla lo zaino e il Garand.
Terminato il Corso ad Aosta andò a prestar servizio nella brigata Julia, a Tarvisio, un paese così lontano da Quattordio da far pensare che il nostro ufficiale non avesse santi in paradiso.
Laureato alla Bocconi con compagni di corso come Philippe Daverio e Marco Tronchetti Provera, era così diverso dallo stereotipo di quei giovani rampanti, da rinunciare ad una promettente carriera nella City londinese per un impiego in banca vicino al suo paese.


Il gagliardetto

Il gagliardetto del 64° AUC sventola per merito degli ufficiali alpini che, partiti da Aosta nel lontano 1972, rispondono “presente!” alle adunate, ai raduni e alle commemorazioni.
Franco Zanin, Evelino Mattelig, Giuliano Secchi e Angelo Soave sono gli alfieri di questo gruppo virtuoso.
Franco è la memoria storica del 64° e ricorda nome, cognome e numero di camerata di tutti i suoi compagni di Corso.
Evelino ha cercato e ritrovato quei ragazzi che, diventati adulti, si erano persi di vista.
Giuliano notifica gli eventi e aggiorna la lista dei presenti e degli assenti.
Ogni anno Angelo invita i compagni di Corso a Bruno, sulla collina della chiesetta della Misericordia (sec. XVI) dedicata alla  Protezione Civile.
Il gagliardetto del 64° AUC sventola per merito degli alpini che rispondono “presente!” e rende omaggio ai compagni di Corso che sono “andati avanti”.




85.
IN RICORDO DI FRANCO CASATI
(Franco Rizzo)

Sensibilizzato da Sandro Bazurro, a sua volta mosso da input di Paolo Moneta, circa l’opportunità di un doveroso ricordo dei nostri compagni andati avanti, voglio qui ricordare un caro amico oltre che compagno del 64° che ho avuto modo di frequentare anche e soprattutto nella vita civile.
Con Franco Casati abbiamo vissuto fianco a fianco la seconda parte del corso in quanto entrambi mortaisti ed appartenenti allo stesso plotone seppure in camerate diverse, poi siamo stati assegnati allo stesso Reggimento, il 5° quando dopo il giuramento da ufficiali al comando di Bolzano le nostre strade si sono separate: lui al Battaglione Edolo a Merano ed io al Battaglione Tirano a Malles Venosta.
Solo diversi anni dopo la naia, grazie a conoscenze comuni, ci siamo ritrovati ed abbiamo preso a frequentarci anche con le famiglie, trascorrendo insieme serate a cena (Franco era un ottimo cuoco) e al cinema (sua grande passione oltre all’hobby del collezionismo di soldatini di tutte le epoche che dipingeva a mano) o week end a casa mia in campagna, nonché qualche “rancio alpino” del mercoledì al Gruppo ANA di Genova. Abbiamo partecipato insieme agli incontri del 64°ad Aosta, Breganze, Bassano e Lavagna e ad alcune Adunate Nazionali.
Abbiamo pertanto avuto modo di conoscerci meglio e da parte mia apprezzare la bontà d’animo di Franco che traspariva dal suo attaccamento alla famiglia e dal sentimento di amicizia e fratellanza Alpina che manifestava, che mi ha fatto molto affezionare a lui.
DI Lui mi ha colpito profondamente la sua compostezza nell’ultimo periodo della sua vita, nella consapevolezza dell’ineluttabile, che ho potuto constatare in particolar modo in occasione di una cena a casa sua sotto Natale 2010 quando già le cose volgevano al peggio.

A febbraio 2011 Franco ci ha lasciato e noi genovesi del 64° lo abbiamo salutato insieme.



86.
UNA MONTAGNA … DI RICORDI
(Giuliano Levrero)

Giunto alla Testafochi all'inizio di gennaio 1972, comandava il Battaglione l'allora Tenente Colonnello Cesare Di Dato: persona coerente, corretta e comunque tranquilla, ma giustamente severa. Questi, terminato il servizio come Generale di Brigata, sul finire degli anni 2000 divenne direttore de “L'Alpino”, carica che tenne per diversi anni.
Per inciso, si narrava che, quando succedeva in caserma qualcosa che 'non andava', chiamasse al telefono l'Ufficiale di Picchetto dicendo: <Sono Cesarino!>; pronto, il povero Sten scattava sull'attenti rispondendo: <comandi signor Colonnello ….>, caricandosi sul groppone ogni pesante rimprovero.
Passarono i mesi sino a quando si verificò il naturale avvicendamento al comando dell'”Aosta”.
Pochissimi giorni prima del commiato, Di Dato radunò al Circolo Ufficiali diversi suoi amici, pari grado e non, per organizzare la festa di addio; anzi chiamò qualcuno, che conoscevo di fama, anche da Torino e dintorni. Casualmente, io e l'amico Sten Franco Garabello della mia Compagnia, ci trovavamo lì, tanto che anche noi fummo invitati alla sua festa!
I 'saluti d'addio' furono celebrati, piacevolissimamente, una sera, in un night club di Saint Pierre da dove uscimmo TUTTI molto contenti e soddisfatti....per l'ospitalità.
Gli succedette il Tenente Colonnello Pierino Monsutti.
Del Colonnello Monsutti serbo con grande piacere e onore una lettera del 29 febbraio 1988 che mi inviò da Padova a seguito di mie felicitazioni quando divenne Generale Vice Comandante della 'Regione Militare Nord Est', che recita:
“Caro Levrero, mi ha fatto molto piacere ricevere il Suo scritto e  ricordare i vecchi bei tempi del Battaglione “Aosta”.
La ricordo benissimo e la ringrazio per le Sue parole, tanto gradite, anche perché mi giungono da un collaboratore validissimo quale Lei è stato, in ogni situazione nell'attività e nella vita di caserma.   ….. ecc.”.
 Cambiando il Comandante, comunque, cambiò anche 'l'aria' che si respirava in caserma.
Era il periodo in cui il mio Capitano Francesco Albarosa, che non ebbi più modo di vedere e salutare causa la tremenda disgrazia occorsagli assieme ad altri e di cui ho già parlato, era stato con alcuni del nostro Battaglione aggregato al “Susa” per le imminenti manovre NATO che si sarebbero svolte in Norvegia.     
Essendo lo Sten più anziano rimasto, divenni quindi Comandante di Compagnia: la vita e le attività divennero maggiormente onerose, complesse e rischiose.
Quasi tutte le mattine ero a rapporto nell'ufficio del Comandante per disposizioni di ordine generale e particolare circa la Compagnia che stavo comandando assieme a Traversone del 65° e Vissà del 66° Corso.
Il nuovo Comandante l'”Aosta” aveva la consuetudine di dormire pochissimo, quindi era spesso 'in giro' per la caserma, tant'è che la guardia e l'Ufficiale di Picchetto erano continuamente all'erta.
Io dormivo in una camera posta al primo piano sotto le camerate della 42^, appositamente sistemata ed arredata dal mio Capitano ed a disposizione degli Ufficiali; per raggiungerla dovevo necessariamente attraversare in diagonale il piazzale, non potevo assolutamente defilarmi.
Molte volte la notte giungendo tardi, trovavo il piazzale illuminato, la guardia schierata sull'attenti ed il Colonnello che parlava con l'Ufficiale di Picchetto. Accorgendosi della mia presenza licenziava il picchetto e si intratteneva a parlare col sottoscritto passeggiando per la caserma.
Ricordo che le prime volte chiedeva pareri circa i possibili varchi da cui gli alpini avrebbero potuto scavalcare il muro di confine per 'andare in fuga', soffermandosi zona per zona per la valutazione (punti ben conosciuti da tutti noi, ma tenuti sempre segreti!). A volte ragionava sulla fattibilità di operare per migliorare l'ordinamento e la vita di caserma; a volte si parlava della mia vita futura. Era senza dubbio piacevole ragionare con lui, ma la stanchezza ed il sonno aumentavano ad ogni passo.
Comunque, ogni volta che lo incontravo la sera, terminava la discussione dicendomi: <Lei Tenente è in gamba, ci pensi seriamente, ci pensi, abbiamo bisogno di persone come lei! Sono sicuro che farebbe un'ottima carriera>. Ed io ogni volta 'arrampicandomi sui vetri' cercavo un argomentazione nuova per chiarirgli che oramai la mia vita era decisa, avevo ventisei anni ed avevo studiato per fare l'architetto ... non era facile distoglierlo da quell'idea fissa.
E giunse il giorno del termine del servizio di prima nomina per noi del 64° corso.
Quel giorno era previsto per le undici un rinfresco di commiato nel salone del Circolo Ufficiali.
Annusando già aria di casa ed avendo preparato precedentemente le valigie, la mattina decisi di non presenziare all'alzabandiera, ma di starmene tranquillamente a dormire sino all'appuntamento per il rinfresco.
Alle otto e mezza circa bussarono alla porta: era un piantone che mi avvisava di recarmi urgentemente dal Colonnello. Staccando diversi 'moccoli' e pensando: “ma cosa dovrà ancora dirmi?”, mi preparai il più velocemente possibile e raggiunsi il suo Studio.
Mi fece accomodare e mi dette disposizioni precise e puntuali facendomi raccomandazioni per come avrebbe dovuta essere condotta la Compagnia da parte del collega che mi avrebbe sostituito da quel momento sino al ritorno del Capitano Albarosa, ancora trattenuto in Norvegia.m
La 'lezione' durò talmente tanto che il Colonnello ed io giungemmo al Circolo per il 'rinfresco' con quasi mezz'ora di ritardo.
Dopo il rinfresco ed il pranzo caricai l'auto, compresa ...... una gabbietta con un 'verdone' regalatomi da un mio caporalmaggiore, e tornai finalmente e definitivamente a casa, nonostante tutto, con una …. montagna di ricordi e di nostalgia.            
  


87.
ALLA MEMORIA DI FRANCO CASATI
(Sandro Bazurro)

Era un piovoso lunedì dei primi giorni di marzo dell'anno 2009, quando ho visto per l'ultima volta l'amico Franco Casati.
Un triste giorno, dove entrambi eravamo a porgere l'estremo saluto ad un altro caro amico e collega, il capitano Franco Gardella, capogruppo di Genova Centro, prematuramente andato avanti dopo lunga e dolorosa malattia.
Al termine della cerimonia funebre, mentre ero sulla via del ritorno, udii un'automobile fermarsi alle mie spalle ed un colpo di clacson attirò la mia attenzione.
Era Franco che mi invitava a salire per un passaggio. Accettai di buon grado anche se ero ormai nelle vicinanze di casa, ma... sentivo di dover accettare quell'invito. Ci eravamo già salutati all'uscita della chiesa ma mi andava di scambiare quattro chiacchiere con un vecchio compagno di naja.
Mi confidò tra l'altro di avere qualche problemino di salute, ma nulla più: “siamo alpini” mi disse congedandosi, “abbiamo la pelle dura” e mi strinse forte la mano.
Ho avuto poi sue notizie nel dicembre 2010, dal nostro giornale del gruppo di Genova Centro “Sei nappine nuovo” allorquando pubblicò la sua foto in occasione del matrimonio della figlia Franca, che nell'immagine abbracciava con grande dolcezza e compiaciuto orgoglio di padre.
Poi le nostre strade si divisero ancora, fino a quel terribile giorno di febbraio 2011, quando mi giunse la notizia che Franco il capitano dott. Franco Casati, ci aveva lasciato per andare avanti, verso il Paradiso di Cantore.
Ho conosciuto Franco alla Scuola Militare, ma non ci frequentammo mai molto, lui alla camerata 16 ed io alla 8, lui mortaista ed io fuciliere, lui al Battaglione Edolo a Merano ed io al “Doi” a Cuneo, alla CAM Tridentina.
L'ho rivisto in seguito da congedato, in occasione di un'esercitazione con l'UNUCI presso il “Primo Reggimento Paracadutisti” impegnato in un lancio nella Piana di Cecina; per l'occasione sfoggiava con fierezza un bel distintivo da paracadutista, brevetto acquisito privatamente, che andava ad impreziosire il taschino destro dell'uniforme.
Per il resto ci frequentavamo con saltuari appuntamenti nel suo studio dentistico di Passo dell'Acquidotto a Genova, o in quello di Via Caterina Rossi a Sestri Ponente ed in verità erano sedute molto lunghe, in quanto tra una carie e l'altra parlavamo di tutto, dai ricordi del periodo del militare, alla sua passione per le uniformi, a quella per i soldatini di piombo, che lui stesso realizzava con grande maestria.
Ricordo quella volta che decantando la mia altissima soglia di sopportazione del dolore, mi propose di devitalizzare un dente senza anestesia.
Stupidamente accettai la sfida: non saprei descrivere il dolore tremendo di tale operazione, da lui condotta con grande maestria, unita ad un pizzico di bonario sadismo, per interromperla prontamente quando ebbe la meglio sul maledetto nervo malato. Ciò avvenne esattamente poco prima che la sopportazione, avendo di gran lunga superato la tanto decantata soglia del dolore, guidasse la mia mano destra ad impadronirsi dei suoi attributi virili, per stringerli in una morsa, la cui intensità doveva essere direttamente proporzionale a quanto stavo provando.
Il tutto fu prontamente sistemato con un bel sorso di grappa friulana, attinto da una bottiglia improvvisamente materializzatasi sul ripiano di un candido armadietto dello studio.
Questa avventura andò per gli anni a seguire ad accompagnare i nostri racconti ed i nostri ricordi, anche in occasione di qualche cena, cui partecipammo nella Sede del Gruppo di Genova Centro.
Questo era il nostro caro Franco, simpatico e brillante compagno dei bei tempi che furono, che anche nella vita borghese sapeva cogliere momenti di sano divertimento, tipici di una fresca gioventù mai tramontata.
Il giorno del suo funerale, tra le lacrime, la figlia Franca disse rivolta a noi, suoi compagni di corso : “ non dimenticatelo il mio papà per favore, non dimenticatelo mai!”...
Tranquilla cara, perchè noi Ufficiali del 64° corso il tuo papà non lo dimenticheremo mai!













1 commento:

  1. ma proprio senza alcun dubbio siamo stati, lo siamo e saremo sempre un "grande 64 corso AUC".

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