I ‘Racconti del 64°’ è la storia di 185 ragazzi che nel lontano luglio del 1971 partirono verso Aosta per assolvere all’obbligo del servizio di leva.
Per sei lunghi mesi avrebbero frequentato la SMALP, la rinomata
Scuola Militare Alpina di Aosta, fiore all’occhiello
dell’esercito italiano. Poi, a corso terminato, sarebbero stati
smistati lungo l’arco alpino, per completare il loro servizio con il grado di
sottotenente.
I ‘Racconti del 64°’ è un libro un po’ guascone, allegro, talvolta
irriverente, nostalgico, sporadicamente profondo, che scorre veloce e piacevole
alla lettura.
"I baldi giovinotti che arrivano da noi sono spesso i
rampolli viziati dell’alta borghesia italiana. Partendo da zero ne facciamo dei veri
ufficiali. E' un'impresa fantastica. I sei mesi alla Scuola servono a svezzarli
prima e a temprarli poi. Entrano ad Aosta fanciulli e ne escono uomini!”,
era il ritornello preferito di un alto graduato della Smalp.
Niente di più vero.
La SMALP era considerata da molti come la più severa scuola di
addestramento per allievi ufficiali di complemento che esistesse in Italia, e
tra le più qualificate in Europa.
Per sei mesi filati i 185 ragazzi si alzarono alle 5.30 precise,
sudarono, marciarono con zaini di oltre 30 kg. sulle spalle, sbalzarono,
studiarono, dormirono nelle trune a temperature polari.
Per sei mesi filati furono incitati a resistere, a non mollare
mai.
Per sei mesi filati videro azzerata la loro personalità, l’obbedienza
doveva essere cieca ed assoluta.
‘Troverete
lungo’ dicevano sempre i ‘veci’
alle nuove leve che si succedevano alla caserma Cesare Battisti di Aosta.
Non erano dei ‘Rambo’,
era il ‘sistema scuola’ che funzionava.
La ricetta, del resto, era semplice.
Prendi un manipolo di ragazzi in perfetto stato di salute (i
controlli medici erano in merito scrupolosi), falli lavorare senza tregua per
sei mesi allenandoli nella testa e nel fisico, ed il risultato è assicurato!
Nulla a che vedere, beninteso, con gli ‘Alpini’
con la A maiuscola, quelli che combatterono sul fronte regalando alla patria il
loro sangue e la loro vita.
Loro erano degli eroi, i ragazzi del 64° soltanto dei giovanotti
che hanno avuto la fortuna di tornare alla vita civile con la consapevolezza di
aver vissuto qualcosa di straordinario.
I Racconti del 64° dalla SMALP al Battaglione Storie ed immagini
VJ Edizioni Verona
Copertina: Lorenzo Levrero
Vignette e caricature: Sandro Bazurro
© 2016, VJ Edizioni, Verona, via Unità d’Italia, 77
Ogni riproduzione dell’opera è vietata, salvo espressa autorizzazione da parte dell’editore.
A cura di:
SANDRO BAZURRO
STEFANO BENAZZO
MARCELLINO BORTOLOMIOL
MIRCO BOZZO
ROBERTO BRAGGION
GIORGIO BUIZZA
VINICIO CALLEGARI
MICHELE CASINI
PIER GIUSEPPE CERRI
ANTONIO DE PAOLI
FRANCO FERRARIO
MARCO FIORONI
LUCIANO IVALDI
GIULIANO LEVRERO
MARIO LORENZI
PIERGIORGIO MARGUERETTAZ
EVELINO MATTELIG
PAOLO MONETA
ALBERTO ORECCHIA
ALDo PERRON
FELICE PIASINI
GIANFRANCO REBULLA
FRANCO RIZZO
MARINELLA SALATI
MARIO SANDRONE
GIULIANO SECCHI
ANGELO SOAVE
PRESENTAZIONE
Un libro di ricordi dei sei mesi trascorsi alla SMALP?
E' più che probabile che più di uno, tra i compagni del 64°corso AUC, covasse nella propria testa qualcosa di simile.
Era solo necessario dar fuoco alla miccia.
E questa fiammella si è accesa, improvvisa e gradita, il 13 novembre 2015, alle ore 15:09, quando sulla nostra pagina facebook, di cui Luciano Ivaldi, Giovanni Lucchina, Evelino Mattelig, Aldo Perron ed Angelo Soave sono da sempre i saggi amministratori, comparve questo post, a firma Paolo Moneta: “Cari compagni del 64° corso AUC, cosa ne direste se, approfittando delle moderne tecnologie, che rendono il tutto più facile, scrivessimo un libro di ricordi di quel periodo? Io posso farmi, più che volentieri, parte diligente. Si potrebbe procedere così. Apro un blog dove fare pervenire i pensieri di ognuno (l’ideale sarebbe scrivere su temi specifici, es.: una marcia particolare, una notte nelle trune al colle San Carlo, tre giorni in cella di rigore, l’arrivo alla scuola, il percorso di guerra, ecc. ecc., ma comunque ogni pensiero sarebbe sempre gradito). Poi provvederei a dare una logica temporale e consequenziale agli scritti. Aprendo il blog, pertanto, tutti potrebbero vedere l’avanzamento dei lavori e dare il loro contributo in consigli e miglioramenti. Una volta considerata terminata l’opera, si procederebbe alla stampa. Ho già fatto qualcosa di analogo con i compagni del liceo, e ne è uscito un libro davvero piacevole.”
Probabilmente, nel momento stesso in cui lanciava questa iniziativa, Moneta si domandava se la proposta avrebbe avuto successo oppure, come tante idee che nascono stimolate da un impulso del momento, si sarebbe pian piano affievolita senza sollecitare alcun seguito concreto. Fu sufficiente un pomeriggio per fugare ogni dubbio.
Nel volgere di poche ore la proposta poteva contare su 22 visualizzazioni e su una significativa e popolare adesione.
Pier Giuseppe Cerri fu il primo a comunicare il proprio consenso con un propositivo: “Bella idea. Felice di contribuire “all’impresa”. Attendo istruzioni. Ciao”.
Poi, a seguire, e a stretto giro di minuti, arrivò una lunga serie di messaggi che confortarono sulla possibilità di realizzare davvero il nostro libro di ricordi.
In rigoroso ordine cronologico, così scrissero: Ugo Ferrando: “… anche se la memoria comincia a scarseggiare…”
Gianni Pasquino: “Ottima idea, per quanto posso, contribuirò.”
Dario Mensi: “Vai Paolo, son pronto a dare il mio contributo.” Aldo Perron: “Molto bene, sono d’accordo.”
Lorenzo Zordan: “Ciao a tutti. Dato che mi sembra che alcuni non siano iscritti al gruppo ho pensato di segnalare l’iniziativa, che mi sembra interessante, a Giuliano Secchi che tiene il registro dei contatti del 64°, sollecitandolo a comunicarla, a tutti via email. A presto.”
Alberto Roviaro: “Buonissima idea!!! Sono d’accordo!!!”
Giuliano Levrero: “Ottima idea! Cercherò di contribuire. Buona l’idea di Zordan (Ciao Lorenzo!) di coinvolgere Secchi. Sarà lunga, ma sono sicuro fruttuosa. Un abbraccio alpino a Titti !!!” (p.s.: con successiva correzione, Titti, forse con suo grande disappunto, si trasformò in tutti).
Vinicio Callegari: “Ci proverò. Ciao a tutti.”
Come inizio, era tutt’altro che male.
Il 16 novembre, dopo solo poche ore dal lancio dell’iniziativa, era già operativo il nostro sito web (www.smalp64auc.blogspot.com) ove far pervenire i singoli contributi e nel pomeriggio dello stesso giorno appariva il primo resoconto-ricordo. Era a firma Paolo Moneta che, così facendo ed in qualità di promotore della proposta, voleva significare uno stimolante buon esempio.
Il 25 novembre arrivava il secondo ‘articolo’, grazie alla scorrevole e sagace penna di Sandro Bazurro.
Il giorno successivo era il corista Vinicio Callegari a postare le sue pagine. La macchina del nostro libro si era definitivamente messa in moto.
Il 30 giugno 2016, data ultima stabilita per l’accettazione dei racconti, erano arrivati in redazione ben 87 contributi. Non ci resta che leggere…!
SOMMARIO
PARTE PRIMA: ALLA SCUOLA MILITARE ALPINA
1. Destinazione Aosta
2. L’ultima delle vergini
3. Il generale comandante Bruno Gallarotti
4. La puntura salvatutto
5. Allievo, stia punito!
6. La grande fuga… mancata
7. Caro amore, ti scrivo!
8. Il tedesco di Valerio Poggi
9. Pthirus pubis
10. Le valli del Natisone
11. Reato non previsto
12. Fidanza, al percorso di guerra!
13. Monate! Monate!
14. Dell’utilità degli addestramenti inutili
15. Ramazze e bidoni
16. Il giuramento
17. La tanatosi
18. E l’acqua fu trasformata in vino
19. Grappa alla pera
20. Rucola e bagna cauda
21. Un attimo di pausa
22. Al poligono del Buthier
23. Un mazzolino… nella canna del Fal
24. L’osteria di papà Marcel
25. La mascotte della SMALP
26. Una sana rivalità
27. Cella di rigore
28. La processione
29. Incubo bianco
30. La marescialla Giacomina
31. Il vallone di Orgère
32. Una notte sotto la neve 157
33. La vendetta del Colle San Carlo
34. Il servizio di guardia e una 500 rossa
35. Una notte a Pollein
36. L’esame di fine corso
37. Libera professione
38. Essere alpino
39. Pillole di SMALP
PARTE SECONDA: AI BATTAGLIONI
40. Il bacio alla mula
41. La Cuneo bene, una Giulietta Sprint e 20.000 Lire
42. La maledizione della polveriera
43. Il mulo impero
44. Il CAR di Bra, bibini e gallinacci
45. La 115a Compagnia mortai e il tenente Ippolito
46. Un alzabandiera travagliato
47. Missione a Cogne
48. Gli alpini vanno al mare
49. Un giro sulla giostra
50. Il renitente alla leva
51. Mal di naja
52. Barbara, protettrice dei montanari
53. La recluta con il bambino
54. Il capitano Albarosa
55. La mula delfina
56. Alpino a tutti i costi
57. Il mese più bello
58. Due ufficiali e una Fiat 124 Sport Spider
59. Corso di sopravvivenza
60. La tradotta
61. La valanga del Corno piccolo
62. Il soldato Colameo
63. Un tentativo del tutto inutile
64. Addio alle armi
65. Pillole dal Battaglione
PARTE TERZA: A CHI E’ ANDATO AVANTI
66. Il paradiso di Cantore
67. Franco Favini
68. Ciao, amici miei!
69. Il calvario di Enrico Casalegno
70. In ricordo di Franco Casati
PARTE QUARTA: UN PO’ DI NUMERI
71. I ragazzi del 64°: camerate, specializzazioni, destinazioni
72. Indice delle citazioni
PARTE PRIMA: ALLA SCUOLA MILITARE ALPINA
CAPITOLO 1
DESTINAZIONE AOSTA
Era il 5 di luglio dell'anno 1971, lunedì, giornata caldissima.
Sandro Bazurro il giorno precedente l'aveva trascorso al mare, ignaro di ciò che gli avrebbe riservato la sorte per i futuri quindici mesi.
Il postino, sudato ed ansimante, era comparso improvvisamente dalla curva della mulattiera che conduceva alla sua casa, posta sulla sommità della collina, nell'entroterra di Genova.
Lesse con ansia la cartolina che gli veniva consegnata.
Destinazione: Aosta, Scuola Militare Alpina.
Partenza immediata, il corso iniziava il giorno stesso.
Sandro non sapeva che fare, era assolutamente impreparato. Aosta poi gli sembrava così lontana, l'aveva vista solo in cartolina. Appena si riprese, si guardò allo specchio. Indubbiamente la sua chioma fluente da sessantottino non era appropriata per un simile evento. Con terrore ricordò che i barbieri il lunedì erano in riposo settimanale; risolse il problema la sua ragazza, telefonando alla sua parrucchiera, che si impegnò all'inverosimile per renderlo presentabile.
“Soldi buttati”, pensò Sandro, quando, di lì a poco, Cochise, il figaro della caserma, avrebbe rovinato quell'opera d'arte. Un rapido saluto a parenti ed amici servì anche ad incassare un po' di soldi, come si usava al suo paese per salutare coloro che partivano per il servizio militare. Il giorno successivo, Sandro partì col primo treno per Aosta. Una fastidiosa dissenteria, probabilmente di origine nervosa, lo accompagnò per tutto il viaggio. Giunse ad Aosta nel primo pomeriggio.
***
Quel giovedì dei primi di luglio anche a Milano faceva molto caldo.
Michele Casini e Roberto Salati si incontrarono al distretto militare di via Mascheroni, ciascuno con la cartolina gialla in mano, così come altri giovani che dovevano prestare il servizio militare.
I due non si conoscevano, ma apprendendo che in giornata avrebbero dovuto presentarsi alla caserma Cesare Battisti di Aosta per iniziare il corso allievi ufficiali presso la Scuola Militare Alpina, cominciarono a fraternizzare, senza neppure immaginare il rapporto di grande amicizia che li avrebbe legati in futuro.
Scambiarono quattro chiacchiere dandosi appuntamento in stazione per prendere un treno in partenza per Torino intorno a mezzogiorno.
Roberto, previdente, aveva già la valigetta pronta e raccontò a Michele che, essendo già sposato, aveva preferito salutare la moglie a casa evitando nuovi saluti che, data la situazione, avrebbero creato solo ulteriore sofferenza. Michele di tutta fretta andò a casa a prendere il proprio bagaglio, poi raggiunse la Stazione Centrale dove, insieme con la propria fidanzata Naila, si incontrò nuovamente con Roberto.
Sul marciapiedi del binario dove era in partenza il treno per Torino arrivò una giovane donna che vedendo Roberto lo abbracciò e baciò appassionatamente. Michele e Naila, già informata dal fidanzato che Roberto era sposato, si guardarono rimanendo un po’ sorpresi dall’atteggiamento dei due. Immediatamente Roberto presentò la giovane donna come sua moglie Marinella e, quindi, si spiegò l’arcano. Infatti Marinella, saputo l’orario di partenza del treno, era corsa in stazione, accompagnata dalla mamma, per un nuovo saluto a Roberto.
Saliti sul treno Roberto e Michele sistemarono il proprio ridotto bagaglio e si affacciarono al finestrino per un ultimo saluto a Marinella e Naila. Michele per sdrammatizzare la situazione fece una battuta: “Coraggio che fra un anno mancheranno ancora tre mesi”. Marinella rimproverò più volte Michele per quella feroce battuta.
A Chivasso avvenne il cambio di treno ed i ragazzi si trasferirono su quello che li avrebbe portati direttamente ad Aosta. Su questo secondo treno incontrarono, sempre provenienti da Milano, Massimo Flematti, Maurizio Grassi e Paolo Moneta. Tutti compresero la comune destinazione; fu sufficiente valutare l’età, la capigliatura già organizzata e un atteggiamento di dubbio per il prossimo destino. Prima che il treno giungesse a destinazione i cinque si proposero, una volta arrivati, di fare un giro largo per andare in caserma, cogliendo così l’occasione di attraversare il centro della città. All’apertura delle porte del treno e discesi i pochi gradini il programma venne immediatamente modificato in quanto un sottufficiale ed un graduato invitarono (si fa per dire) i nuovi arrivati a trasferirsi sul cassone di un camion militare che li avrebbe portati alla loro destinazione.
***
Stefano Benazzo, appena ricevuta la fatidica cartolina, aveva in un primo tempo cercato di risolvere gli aspetti più pratici: andare dal barbiere per evitare di giungere in caserma con una chioma non previamente regolata, preparare un sacco ridotto con il minimo necessario per rendere un poco più confortevole la permanenza, informare amici e amiche che le comunicazioni sarebbero state ridotte per diverso tempo.
Ma era soprattutto l’aspetto mentale che più metteva in subbuglio il ragazzo.
Sarebbe stato meglio cercare di ignorare l’ignoto psicologico rappresentato dal periodo di naja? Oppure era meglio convincersi che la naja avrebbe dovuto comunque essere assolta, anche se tanti la evitavano?
Poteva aiutarlo prendere coscienza che il periodo di naja era solo una sosta, in attesa di poter affrontare o continuare la vita lavorativa?
Assorbito da questi dubbi, Stefano partì in serata da Torino con l’ultimo treno di giornata per giungere in tempo ad Aosta.
Mentre si dirigeva verso la caserma, in una sorta di training autogeno mirato allo svuotamento della mente, cercò di eliminare tutti i pensieri suscettibili di complicare il momento.
Appena entrato in caserma, colse all’istante sguardi di compatimento e di moderata solidarietà. Poi venne subito indirizzato verso gli edifici dei futuri AUC ed instradato verso la fureria. Al primo piano, lo accolse un gruppo di sergenti furieri, certamente non astemi. Gli presentarono i moduli per iniziare burocraticamente la sua esistenza militare.
VJ Edizioni Verona
Copertina: Lorenzo Levrero
Vignette e caricature: Sandro Bazurro
© 2016, VJ Edizioni, Verona, via Unità d’Italia, 77
Ogni riproduzione dell’opera è vietata, salvo espressa autorizzazione da parte dell’editore.
A cura di:
SANDRO BAZURRO
STEFANO BENAZZO
MARCELLINO BORTOLOMIOL
MIRCO BOZZO
ROBERTO BRAGGION
GIORGIO BUIZZA
VINICIO CALLEGARI
MICHELE CASINI
PIER GIUSEPPE CERRI
ANTONIO DE PAOLI
FRANCO FERRARIO
MARCO FIORONI
LUCIANO IVALDI
GIULIANO LEVRERO
MARIO LORENZI
PIERGIORGIO MARGUERETTAZ
EVELINO MATTELIG
PAOLO MONETA
ALBERTO ORECCHIA
ALDo PERRON
FELICE PIASINI
GIANFRANCO REBULLA
FRANCO RIZZO
MARINELLA SALATI
MARIO SANDRONE
GIULIANO SECCHI
ANGELO SOAVE
PRESENTAZIONE
Un libro di ricordi dei sei mesi trascorsi alla SMALP?
E' più che probabile che più di uno, tra i compagni del 64°corso AUC, covasse nella propria testa qualcosa di simile.
Era solo necessario dar fuoco alla miccia.
E questa fiammella si è accesa, improvvisa e gradita, il 13 novembre 2015, alle ore 15:09, quando sulla nostra pagina facebook, di cui Luciano Ivaldi, Giovanni Lucchina, Evelino Mattelig, Aldo Perron ed Angelo Soave sono da sempre i saggi amministratori, comparve questo post, a firma Paolo Moneta: “Cari compagni del 64° corso AUC, cosa ne direste se, approfittando delle moderne tecnologie, che rendono il tutto più facile, scrivessimo un libro di ricordi di quel periodo? Io posso farmi, più che volentieri, parte diligente. Si potrebbe procedere così. Apro un blog dove fare pervenire i pensieri di ognuno (l’ideale sarebbe scrivere su temi specifici, es.: una marcia particolare, una notte nelle trune al colle San Carlo, tre giorni in cella di rigore, l’arrivo alla scuola, il percorso di guerra, ecc. ecc., ma comunque ogni pensiero sarebbe sempre gradito). Poi provvederei a dare una logica temporale e consequenziale agli scritti. Aprendo il blog, pertanto, tutti potrebbero vedere l’avanzamento dei lavori e dare il loro contributo in consigli e miglioramenti. Una volta considerata terminata l’opera, si procederebbe alla stampa. Ho già fatto qualcosa di analogo con i compagni del liceo, e ne è uscito un libro davvero piacevole.”
Probabilmente, nel momento stesso in cui lanciava questa iniziativa, Moneta si domandava se la proposta avrebbe avuto successo oppure, come tante idee che nascono stimolate da un impulso del momento, si sarebbe pian piano affievolita senza sollecitare alcun seguito concreto. Fu sufficiente un pomeriggio per fugare ogni dubbio.
Nel volgere di poche ore la proposta poteva contare su 22 visualizzazioni e su una significativa e popolare adesione.
Pier Giuseppe Cerri fu il primo a comunicare il proprio consenso con un propositivo: “Bella idea. Felice di contribuire “all’impresa”. Attendo istruzioni. Ciao”.
Poi, a seguire, e a stretto giro di minuti, arrivò una lunga serie di messaggi che confortarono sulla possibilità di realizzare davvero il nostro libro di ricordi.
In rigoroso ordine cronologico, così scrissero: Ugo Ferrando: “… anche se la memoria comincia a scarseggiare…”
Gianni Pasquino: “Ottima idea, per quanto posso, contribuirò.”
Dario Mensi: “Vai Paolo, son pronto a dare il mio contributo.” Aldo Perron: “Molto bene, sono d’accordo.”
Lorenzo Zordan: “Ciao a tutti. Dato che mi sembra che alcuni non siano iscritti al gruppo ho pensato di segnalare l’iniziativa, che mi sembra interessante, a Giuliano Secchi che tiene il registro dei contatti del 64°, sollecitandolo a comunicarla, a tutti via email. A presto.”
Alberto Roviaro: “Buonissima idea!!! Sono d’accordo!!!”
Giuliano Levrero: “Ottima idea! Cercherò di contribuire. Buona l’idea di Zordan (Ciao Lorenzo!) di coinvolgere Secchi. Sarà lunga, ma sono sicuro fruttuosa. Un abbraccio alpino a Titti !!!” (p.s.: con successiva correzione, Titti, forse con suo grande disappunto, si trasformò in tutti).
Vinicio Callegari: “Ci proverò. Ciao a tutti.”
Come inizio, era tutt’altro che male.
Il 16 novembre, dopo solo poche ore dal lancio dell’iniziativa, era già operativo il nostro sito web (www.smalp64auc.blogspot.com) ove far pervenire i singoli contributi e nel pomeriggio dello stesso giorno appariva il primo resoconto-ricordo. Era a firma Paolo Moneta che, così facendo ed in qualità di promotore della proposta, voleva significare uno stimolante buon esempio.
Il 25 novembre arrivava il secondo ‘articolo’, grazie alla scorrevole e sagace penna di Sandro Bazurro.
Il giorno successivo era il corista Vinicio Callegari a postare le sue pagine. La macchina del nostro libro si era definitivamente messa in moto.
Il 30 giugno 2016, data ultima stabilita per l’accettazione dei racconti, erano arrivati in redazione ben 87 contributi. Non ci resta che leggere…!
SOMMARIO
PARTE PRIMA: ALLA SCUOLA MILITARE ALPINA
1. Destinazione Aosta
2. L’ultima delle vergini
3. Il generale comandante Bruno Gallarotti
4. La puntura salvatutto
5. Allievo, stia punito!
6. La grande fuga… mancata
7. Caro amore, ti scrivo!
8. Il tedesco di Valerio Poggi
9. Pthirus pubis
10. Le valli del Natisone
11. Reato non previsto
12. Fidanza, al percorso di guerra!
13. Monate! Monate!
14. Dell’utilità degli addestramenti inutili
15. Ramazze e bidoni
16. Il giuramento
17. La tanatosi
18. E l’acqua fu trasformata in vino
19. Grappa alla pera
20. Rucola e bagna cauda
21. Un attimo di pausa
22. Al poligono del Buthier
23. Un mazzolino… nella canna del Fal
24. L’osteria di papà Marcel
25. La mascotte della SMALP
26. Una sana rivalità
27. Cella di rigore
28. La processione
29. Incubo bianco
30. La marescialla Giacomina
31. Il vallone di Orgère
32. Una notte sotto la neve 157
33. La vendetta del Colle San Carlo
34. Il servizio di guardia e una 500 rossa
35. Una notte a Pollein
36. L’esame di fine corso
37. Libera professione
38. Essere alpino
39. Pillole di SMALP
PARTE SECONDA: AI BATTAGLIONI
40. Il bacio alla mula
41. La Cuneo bene, una Giulietta Sprint e 20.000 Lire
42. La maledizione della polveriera
43. Il mulo impero
44. Il CAR di Bra, bibini e gallinacci
45. La 115a Compagnia mortai e il tenente Ippolito
46. Un alzabandiera travagliato
47. Missione a Cogne
48. Gli alpini vanno al mare
49. Un giro sulla giostra
50. Il renitente alla leva
51. Mal di naja
52. Barbara, protettrice dei montanari
53. La recluta con il bambino
54. Il capitano Albarosa
55. La mula delfina
56. Alpino a tutti i costi
57. Il mese più bello
58. Due ufficiali e una Fiat 124 Sport Spider
59. Corso di sopravvivenza
60. La tradotta
61. La valanga del Corno piccolo
62. Il soldato Colameo
63. Un tentativo del tutto inutile
64. Addio alle armi
65. Pillole dal Battaglione
PARTE TERZA: A CHI E’ ANDATO AVANTI
66. Il paradiso di Cantore
67. Franco Favini
68. Ciao, amici miei!
69. Il calvario di Enrico Casalegno
70. In ricordo di Franco Casati
PARTE QUARTA: UN PO’ DI NUMERI
71. I ragazzi del 64°: camerate, specializzazioni, destinazioni
72. Indice delle citazioni
PARTE PRIMA: ALLA SCUOLA MILITARE ALPINA
CAPITOLO 1
DESTINAZIONE AOSTA
Era il 5 di luglio dell'anno 1971, lunedì, giornata caldissima.
Sandro Bazurro il giorno precedente l'aveva trascorso al mare, ignaro di ciò che gli avrebbe riservato la sorte per i futuri quindici mesi.
Il postino, sudato ed ansimante, era comparso improvvisamente dalla curva della mulattiera che conduceva alla sua casa, posta sulla sommità della collina, nell'entroterra di Genova.
Lesse con ansia la cartolina che gli veniva consegnata.
Destinazione: Aosta, Scuola Militare Alpina.
Partenza immediata, il corso iniziava il giorno stesso.
Sandro non sapeva che fare, era assolutamente impreparato. Aosta poi gli sembrava così lontana, l'aveva vista solo in cartolina. Appena si riprese, si guardò allo specchio. Indubbiamente la sua chioma fluente da sessantottino non era appropriata per un simile evento. Con terrore ricordò che i barbieri il lunedì erano in riposo settimanale; risolse il problema la sua ragazza, telefonando alla sua parrucchiera, che si impegnò all'inverosimile per renderlo presentabile.
“Soldi buttati”, pensò Sandro, quando, di lì a poco, Cochise, il figaro della caserma, avrebbe rovinato quell'opera d'arte. Un rapido saluto a parenti ed amici servì anche ad incassare un po' di soldi, come si usava al suo paese per salutare coloro che partivano per il servizio militare. Il giorno successivo, Sandro partì col primo treno per Aosta. Una fastidiosa dissenteria, probabilmente di origine nervosa, lo accompagnò per tutto il viaggio. Giunse ad Aosta nel primo pomeriggio.
***
Quel giovedì dei primi di luglio anche a Milano faceva molto caldo.
Michele Casini e Roberto Salati si incontrarono al distretto militare di via Mascheroni, ciascuno con la cartolina gialla in mano, così come altri giovani che dovevano prestare il servizio militare.
I due non si conoscevano, ma apprendendo che in giornata avrebbero dovuto presentarsi alla caserma Cesare Battisti di Aosta per iniziare il corso allievi ufficiali presso la Scuola Militare Alpina, cominciarono a fraternizzare, senza neppure immaginare il rapporto di grande amicizia che li avrebbe legati in futuro.
Scambiarono quattro chiacchiere dandosi appuntamento in stazione per prendere un treno in partenza per Torino intorno a mezzogiorno.
Roberto, previdente, aveva già la valigetta pronta e raccontò a Michele che, essendo già sposato, aveva preferito salutare la moglie a casa evitando nuovi saluti che, data la situazione, avrebbero creato solo ulteriore sofferenza. Michele di tutta fretta andò a casa a prendere il proprio bagaglio, poi raggiunse la Stazione Centrale dove, insieme con la propria fidanzata Naila, si incontrò nuovamente con Roberto.
Sul marciapiedi del binario dove era in partenza il treno per Torino arrivò una giovane donna che vedendo Roberto lo abbracciò e baciò appassionatamente. Michele e Naila, già informata dal fidanzato che Roberto era sposato, si guardarono rimanendo un po’ sorpresi dall’atteggiamento dei due. Immediatamente Roberto presentò la giovane donna come sua moglie Marinella e, quindi, si spiegò l’arcano. Infatti Marinella, saputo l’orario di partenza del treno, era corsa in stazione, accompagnata dalla mamma, per un nuovo saluto a Roberto.
Saliti sul treno Roberto e Michele sistemarono il proprio ridotto bagaglio e si affacciarono al finestrino per un ultimo saluto a Marinella e Naila. Michele per sdrammatizzare la situazione fece una battuta: “Coraggio che fra un anno mancheranno ancora tre mesi”. Marinella rimproverò più volte Michele per quella feroce battuta.
A Chivasso avvenne il cambio di treno ed i ragazzi si trasferirono su quello che li avrebbe portati direttamente ad Aosta. Su questo secondo treno incontrarono, sempre provenienti da Milano, Massimo Flematti, Maurizio Grassi e Paolo Moneta. Tutti compresero la comune destinazione; fu sufficiente valutare l’età, la capigliatura già organizzata e un atteggiamento di dubbio per il prossimo destino. Prima che il treno giungesse a destinazione i cinque si proposero, una volta arrivati, di fare un giro largo per andare in caserma, cogliendo così l’occasione di attraversare il centro della città. All’apertura delle porte del treno e discesi i pochi gradini il programma venne immediatamente modificato in quanto un sottufficiale ed un graduato invitarono (si fa per dire) i nuovi arrivati a trasferirsi sul cassone di un camion militare che li avrebbe portati alla loro destinazione.
***
Stefano Benazzo, appena ricevuta la fatidica cartolina, aveva in un primo tempo cercato di risolvere gli aspetti più pratici: andare dal barbiere per evitare di giungere in caserma con una chioma non previamente regolata, preparare un sacco ridotto con il minimo necessario per rendere un poco più confortevole la permanenza, informare amici e amiche che le comunicazioni sarebbero state ridotte per diverso tempo.
Ma era soprattutto l’aspetto mentale che più metteva in subbuglio il ragazzo.
Sarebbe stato meglio cercare di ignorare l’ignoto psicologico rappresentato dal periodo di naja? Oppure era meglio convincersi che la naja avrebbe dovuto comunque essere assolta, anche se tanti la evitavano?
Poteva aiutarlo prendere coscienza che il periodo di naja era solo una sosta, in attesa di poter affrontare o continuare la vita lavorativa?
Assorbito da questi dubbi, Stefano partì in serata da Torino con l’ultimo treno di giornata per giungere in tempo ad Aosta.
Mentre si dirigeva verso la caserma, in una sorta di training autogeno mirato allo svuotamento della mente, cercò di eliminare tutti i pensieri suscettibili di complicare il momento.
Appena entrato in caserma, colse all’istante sguardi di compatimento e di moderata solidarietà. Poi venne subito indirizzato verso gli edifici dei futuri AUC ed instradato verso la fureria. Al primo piano, lo accolse un gruppo di sergenti furieri, certamente non astemi. Gli presentarono i moduli per iniziare burocraticamente la sua esistenza militare.
La conseguente devastante risata dei sergenti furieri certificò a tutti gli effetti l’avvenuto ingresso di Stefano Benazzo alla SMALP.
***
- Signora Vanda, c’è suo figlio?
La signora Dirce, portiera dello stabile di viale Coni Zugna a Milano, stava comunicando al citofono l’arrivo di una cartolina.
- No, è in vacanza a sciare; la facoltà di Fisica è ancora chiusa per le festività.
Solo che non si trattava della consueta cartolina della morosa.
Quella sera al telefono, e con un po’ di imbarazzo, la madre chiamò il suo ragazzo in montagna: - Franco, scusami, ma devo essermi dimenticata la scadenza della richiesta di rinvio per motivi di studio.
Era il gennaio del 1971.
Franco Ferrario volò di tutta fretta al distretto di via Mascheroni, dove fu accolto da un solerte e comprensivo furiere: - Perché non fai domanda per il corso AUC? Ne hai i requisiti e poi il prossimo, il 64°, parte a luglio, così potrai completare l’anno accademico e non devi partire subito.
- Ottimo! Ma… che cosa significa AUC?
Fu la risposta-domanda di Franco che aveva già da tempo affrontato con successo la visita di leva ed era stato giudicato molto (cioè: senza via di scampo) idoneo, ma che nulla sapeva di questioni militari.
Occorreva ancora superare una prova attitudinale in febbraio e successivamente passare ulteriori tre giorni a Torino, al gruppo speciale selettori nel mese di marzo, per i definitivi esami attitudinali. Nell’aula del distretto di Milano Franco Ferrario arrivò con un po’ di ritardo; gli altri avevano già cominciato.
Fu fatto accomodare in un banco libero nell’ultima fila, quasi contro la parete di fondo, ed invitato a rispondere al questionario di cultura generale e scientifica, oltre ad alcune domande di carattere personale.
Il questionario gli sembrò facile e si sbrigò in breve.
Gli altri erano ancora alle prese con il test quando il capitano esaminatore, gironzolando e sbirciando continuamente tra i banchi con le mani dietro la schiena con fare corrucciato e pensoso, gli disse: - Perché Lei non scrive?
- Perché ho finito.
Altro giro e altra domanda: - Ha già finito? Ma è sicuro di avere riposto bene?
- Mi sembra di sì.
Si vociferava a quel tempo di una balzana strategia per essere riformati: fingere di essere deficienti rispondendo a capocchia, completando così il test molto rapidamente. A qualcuno che l’aveva sostenuta Franco aveva ribattuto: “Bravo pirla, così sarai bollato per tutta la vita!”
Altro giro.
Il capitano non era convinto (evidentemente in tanti applicavano la tattica suicida) e insistette: - è proprio sicuro? E poi leggo qui che alla richiesta del corpo di destinazione desiderato lei ha indicato: ALPINI SCIATORI, ma Lei è forse maestro di sci? No? Ha un diploma di rocciatore? No? Allora è impossibile: non verrà mai accettato!
E aggiunse: - Le conviene modificare la richiesta.
- Mi dispiace, ma essere un ufficiale alpino è il mio desiderio! Se poi non ne ho i requisiti, spetterà a voi deciderlo.
Altro giro. - Ma Lei è forse almeno iscritto al CAI, almeno da due anni? Dove i due almeno furono proprio pronunciati in corsivo e scanditi con voce più bassa.
- Certo! E ho vinto anche diverse gare di sci! Fu la pronta risposta di Franco che mai era stato iscritto al CAI (solo al TCI, ma in questo caso non sarebbe servito), ma che aveva afferrato al volo il velato suggerimento del capitano.
- Allora mi porti oggi pomeriggio tesserino e documentazione.
Nell’intervallo, approfittando delle due ore di sospensione delle prove, Franco corse alla sezione CAI di Milano, che però era chiusa per la pausa del mezzogiorno. Spiegò la situazione all’usciere, e questi lo indirizzò ad un bar vicino dove una segretaria stava pranzando. Dopo poco, battuto ogni record di velocità ed aver strappato la segretaria al suo pranzo, Franco aveva tra le mani una tessera, non datata, del Club Alpino Italiano!
Sulle ali di questo primo successo, sempre di corsa si trasferì all’ITIS Feltrinelli, per il cui gruppo sportivo aveva gareggiato per cinque anni nei campionati provinciali di sci con ottimi piazzamenti nelle gare di fondo, coronate al quinto anno dalla vincita nella gara di staffetta.
Arrivò trafelato in segreteria: - Bene, la certificazione dei suoi risultati sportivi sarà pronta domani o al massimo tra due giorni, dopo la firma del preside! Annunciò candidamente l’addetta alla documentazione.
- Mi scusi, non ha capito, a me serve non subito, ma adesso!
Poco più tardi, al distretto di via Mascheroni, il capitano ricevette le documentazioni richieste, e sembrò soddisfatto; poi soppesando la luccicante tessera blu, fece solo un’ultima retorica domanda:
- è tanto che Ella è iscritta al Club Alpino Italiano?
Nel pomeriggio del 3 di luglio del 1971 Franco Ferrario, a bordo della sua fedele R4 e con l’inseparabile chitarra Eco 12 corde, percorrendo l’autostrada Milano-Aosta alla volta della SMALP, pensava: “15 mesi! Ma quando mai passeranno?!”
***
Vinicio Callegari, a fine anno 1970, frequentava il 3° anno della facoltà di scienze geologiche all’Università di Padova e, a causa di un continuo protrarsi degli scioperi nell’ateneo, non era riuscito a certificare il rinvio alle armi.
Il 5 gennaio 1971, a soli cinque giorni dalla data ultima per il rinnovo del rinvio (che solerzia da parte dello Stato), ricevette la cartolina verde con la quale gli comunicavano di restare a disposizione per le visite di rito e per essere poi inviato presso il reparto di destinazione. Tentò allora la carta della domanda al corso allievi ufficiali di complemento pensando che, fra test attitudinali ed altro, sarebbe passato un po’ di tempo ed avrebbe potuto impegnarsi al massimo con gli esami.
E poi chissà... ci sarebbero state molte domande e forse avrebbe avuto più tempo a disposizione.
Ma già il 7 febbraio 1971 fu perentoriamente invitato a Verona per fare tutta una serie di visite, test e accertamenti. Non si impegnò più di tanto, Vinicio pensava solo al tempo di cui avrebbe avuto bisogno per laurearsi.
Suo malgrado, ai primi giorni di luglio, una cartolina spedita da lontano lo invitava a presentarsi, entro il 7 dello stesso mese, presso la caserma Cesare Battisti in Aosta per frequentare il 64° corso AUC.
“Amen’’, fu il laconico commento di Vinicio.
***
Nella mattinata di lunedì, 12 luglio 1971, Marcellino Bortolomiol, all’interno del palazzo gotico affacciato sul Canal Grande, dove aveva sede l’università Ca’ Foscari di Venezia, stava discutendo la sua tesi di laurea di fronte alla commissione degli illustrissimi docenti.
“Efficient diversification of investments” era il titolo del suo impegnativo lavoro, in cui presentava le teorie del premio Nobel Harry Markovitz, che negli anni cinquanta aveva sviluppato la teoria del portafoglio su come ottimizzare la rendita degli investimenti.
Fu insignito del titolo di dottore in Economia e Commercio poco prima di mezzogiorno.
Il conseguimento della laurea fu festeggiato con i parenti e gli amici di sempre, trascorrendo la serata al ristorante Alla Cima di Valdobbiadene, tra abbondanti libagioni e con un perdurante innaffio di prosecco superiore, prodotto dalla rinomata ed apprezzata cantina di famiglia.
A mezzanotte in punto, Marcellino salutò tutti e partì per prendere il treno che partiva da Padova.
La festa era finita!
Doveva arrivare ad Aosta entro la sera del 13 luglio.
Viaggiò su un convoglio strapieno, ancora un po’ sbronzo per l’eccesso di spumante e mezzo addormentato per il sonno da recuperare dalle notti precedenti.
Giunse alla stazione appena in tempo per essere caricato sul gippone di servizio con un gruppetto di altri coscritti ed essere trasportato in caserma.
***
Così come accaduto a Sandro, a Franco, a Stefano, a Vinicio, a Marcellino, a Roberto, a Michele, a Massimo, a Maurizio ed a Paolo, in quella prima decade di luglio del 1971, provenienti da diverse città e differenti regioni, altri 175 giovani lasciarono il calore delle loro case e dei loro affetti per raggiungere Aosta.
Nella stragrande maggioranza erano arrivati a destinazione in treno.
Alla stazione del capoluogo valdostano, stavano ancora scendendo dai vagoni quando vennero accolti dal perentorio ordine di un graduato che li sollecitava a salire di corsa su di un camion.
Di corsa, e non di passo, bisognava salire sul camion.
Si accalcarono, armi e bagagli, sulle panche posteriori del mezzo militare.
Qualcosa nelle loro vite stava cambiando.
Nel breve tratto di strada che divideva la piazza della stazione dalla caserma Cesare Battisti, mille pensieri si agitarono nella testa e nel cuore di quei ragazzi.
E quando giunsero davanti ad un imponente cancello grigio con un grande faro giallo lampeggiante che ne segnalava l‘apertura, la sensazione predominante fu quella di entrare in un mondo irreale dal quale non ne sarebbero usciti per diverso tempo.
“Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!” Fu il beneaugurante saluto che ricevettero dall’allievo di guardia che li accolse.
La caserma Cesare Battisti e il monte Emilius
CAPITOLO 2
L’ULTIMA DELLE VERGINI
Del tutto particolare fu invece la toccata e fuga che caratterizzò l’arrivo di Felice Piasini alla SMALP. Era stato il sindaco di Poggiridenti, dipendente del distretto militare di Sondrio, a consigliarlo: - Ma perché non fai la domanda per il corso AUC, visto che hai il titolo di studio per farlo, tanto, senza raccomandazione, non ti prendono la prima volta. Ogni anno rinnoviamo la domanda, accumuli punteggio e prima o poi ti chiameranno.
Ma dopo pochi mesi dalla fatidica frase “tanto non ti prendono la prima volta”, arrivò la “toccata”: il 2 luglio 1971 anche a Felice venne recapitata la cartolina con l’ingiunzione di presentarsi entro il 4 luglio alla Scuola Militare Alpina e così il ragazzo si trovò suo malgrado catapultato alla Cesare Battisti di Aosta.
Solo due giorni dopo, ecco la “fuga”.
Felice doveva sostenere l’esame di letteratura tedesca all’Università di Torino! Compilò la richiesta, ottenne l’autorizzazione dopo i passaggi nei vari uffici previsti dall’iter burocratico militare e prima ancora di avere iniziato l’addestramento era già seduto al 4° piano di Palazzo Nuovo, in Via Sant’Ottavio, di fronte alla Mole Antonelliana, davanti all’insigne professore Claudio Magris, docente di lingua e letteratura tedesca presso le Università di Trieste e Torino.
Così lo apostrofò il cattedratico: - Dove è finita la sua folta chioma?
Felice, infatti, era già stato torturato dalle forbici di Sadik.
Proseguì il professore: - Allora abbiamo un futuro sottotenente della fanteria alpina? E quindi, se scoppierà una guerra, io, ex sottufficiale, sarò suo subalterno! L’esame si concluse positivamente, senza sapere se per merito delle conoscenze e competenze linguistiche dello studente o se per timore di un’eventuale guerra da parte del docente. Il giorno successivo Felice era già rientrato in caserma. In seguito, dopo tanti anni, i due si incontrarono ad un convegno, l’uno insegnante di tedesco nelle scuole superiori e l’altro sempre più il germanista numero uno della cultura mitteleuropea. Ma, per riconoscersi, fu d’obbligo la citazione del 6 luglio del 1971, relativa al grado sottotenente/sergente. Quanto a guerre poi… era andata bene ad entrambi, e per il futuro, per i raggiunti limiti di età, sarebbero stati ambedue depennati dagli elenchi dei ‘Riservisti’.
Fatto sta che il 9 luglio 1971 tutti i 185 ragazzi di buona famiglia (nella stragrande maggioranza rigorosamente raccomandati) invitati a presentarsi tassativamente entro tale data e di tutta fretta alla caserma Cesare Battisti in Aosta, avevano preso possesso del loro posto branda ed avevano ritirato l’abbondante dotazione di capi di abbigliamento estivi e invernali.
In particolare, nel guardaroba assegnato ad ognuno faceva bella mostra di sé l’indumento più ambito da tutti: il verde cappello alpino!
Erano pure passati, come Felice, al vaglio delle sapienti mani del barbiere Cochise-Sadik per la tradizionale operazione di scalpo delle fluenti capigliature. Una mancia di almeno 100 lire all’indiavolato capo indiano, consegnata prima che partisse l’operazione rasatura, garantiva un taglio decente. L’assenza di qualsivoglia lascito, altro non permetteva che una rasatura pari allo zero.
Franco Rizzo fu tra i pochi fortunati che riuscirono a conservare la propria folta chioma sessantottina più a lungo di quanto si potesse immaginare. Considerati i soliti tempi ristrettissimi tra l’improvviso arrivo della cartolina di convocazione e l’obbligo di presentarsi in caserma, aveva rinunciato al taglio preliminare dal barbiere di casa anche perché confortato dall’esperienza del cugino che, avendo frequentato il 59° corso AUC, lo aveva rassicurato che appena giunto a destinazione il famigerato barbiere lo avrebbe adeguatamente sistemato.
Arrivato dunque in serata alla stazione di Aosta, munito della sua abbondante capigliatura, notò subito il piccolo drappello di militari che attendeva i coscritti e li radunava per guidarli in caserma. Ovviamente dato il suo aspetto non venne minimamente considerato e Franco dovette farsi riconoscere per unirsi a loro. Approdato alla mèta a bordo del solito pulmino, fu accolto dai futuri compagni che lo avevano preceduto.
Indossavano già tutti la tuta mimetica, destinata ad essere per i primi quindici giorni di corso il loro unico capo di abbigliamento e, con gradita sorpresa, tra questa moltitudine di ragazzi vestiti allo stesso modo e tutti uniformemente rapati, riconobbe il suo ex compagno di istituto tecnico Giuseppe Alineri.
Poi, espletate le formalità di rito e guidato dal piantone di giornata Mario Pancera, fu indirizzato al suo nuovo alloggio che lo avrebbe accolto per i seguenti sei mesi. La camerata era già buia e popolata. Un po’ per la tensione ed un po’ per l’oscurità, Franco, appena varcata la soglia, inciampò in una valigia lasciata inopportunamente nei pressi dell’ingresso del locale. Istintivamente pronunciò la più tipica interiezione genovese: - Belin! L’ilarità immediata dei presenti fu la reazione più istintiva, cui si accompagnò il frizzante commento di Alberto Roviaro che esclamò: - Ecco un altro belin! Eh sì, perché nella camerata c’erano già altri due genovesi: Ermanno Tegami e Giovanni Narratone.
Franco Rizzo, prima e dopo l’intervento di Sadik.
Ma il bello venne il giorno dopo, all’adunata nel piazzale, dopo lo shock della prima sveglia alle 5.30. Infatti con il diradarsi dell’oscurità, dopo la mezz’oretta di reazione fisica, l’aspetto di capellone di Franco Rizzo si palesò alla vista di tutti ed in particolar modo allo sguardo sorpreso, ma beffardo, del tenente Fidanza.
Costui non perse l’occasione per appellarlo con il consueto termine di mambrucco e gli promise vita dura per la sua impudenza nel presentarsi in quella guisa.
Ben diverso e simpatico fu invece l’atteggiamento del comandante di Compagnia, capitano Gilberto Zuzzi, che definì scherzosamente Franco Rizzo come ‘l’ultima delle vergini’.
Un buffo destino volle poi che la fluente capigliatura di Franco resistesse intonsa per altre due settimane, avendo coinciso l’arrivo in caserma del ragazzo con l’inizio delle ferie estive di Sadik.
Poi, senza pietà, al rientro del barbiere anche il genovese Franco Rizzo venne brutalmente e sadicamente scalpato. Ma, da quel momento, il tenente Fidanza perse le sue tracce…
CAPITOLO 3
IL GENERALE COMANDANTE BRUNO GALLAROTTI
Al secondo giorno ufficiale di vita in caserma, come previsto dal severo e rigido iter militare, tutti gli allievi del 64° corso AUC furono solennemente convocati nelle aule adibite all’insegnamento. Sempre di corsa, accompagnati dal sergente Armellini, si trasferirono alla caserma Ramirez, dove si trovava l’aula magna della scuola.
Era il momento del saluto di inizio corso del generale Bruno Gallarotti.
… chi come me ha avuto il generale Gallarotti come comandante alla SMALP ha considerato questo rigido, inflessibile, durissimo comandante una persecuzione …
… Non ho mai avuto dei dubbi che Lui fosse un grande ufficiale. Per noi giovani allievi ufficiali alla SMALP, dove un caporalmaggiore era in grado di sbatterti sull’attenti e farti gridare il tuo nome fino a che non lo sentivano a Pila, figuriamoci cosa poteva rappresentare il generale comandante, questo generale attorno a cui circolavano voci mai smentite e quindi verissime delle sue gesta eroiche in terra di Russia … Solo pronunciare il suo nome significava incutere timore e paura in tutti, dal semplice allievo, all’ufficiale di picchetto, ai comandanti dei Battaglioni …
(Tenente Vittorio Formelli, 65° corso AUC).
Dopo le prime parole di saluto e di rito, il generale comandante esordì all’improvviso chiedendo se tra gli allievi ci fosse qualcuno che non avesse chiesto di essere assegnato alle truppe alpine e, nel caso, in quale specialità, in quanto forse c’era ancora tempo per essere accontentati ed essere lì trasferiti.
Sandro Bazurro si fece pensoso.
Alla visita di leva aveva scritto nelle preferenze di assegnazione, in preciso ordine di gradimento: genio pontieri di stanza a Piacenza, artiglieria da montagna come suo padre e, solo in ultimo, alpini. Il comandante aggrottò le sopracciglia mentre, in attesa, percorreva con lo sguardo gli astanti. Sandro si fece coraggio ed alzò timidamente la mano.
Onestamente nessuno ricorda se oltre a Sandro ci fossero stati altri mona, come fu apostrofato Bazurro da una voce alle sue spalle.
Tutti ricordano però che quelle ciglia si aggrottarono ancora di più, se ciò fosse stato possibile. Sandro cominciò a temere una di quelle terribili sfuriate di cui tanto si parlava.
Il generale comandante Bruno Gallarotti
Il generale invece, raccolta evidentemente tutta la pazienza del buon padre di famiglia che si acquisisce stando a contatto con i giovani, ringraziò per la sincerità, mentre un sudore gelido, ma forse era il caldo del periodo, complice una banale corrente d’aria, imperlava la fronte di Bazurro e scivolava lentamente sulle sue guance roventi.
Poi, con estrema calma, il generale Gallarotti spiegò che comprendeva la scelta, in quanto in effetti la montagna provocava a chi la frequentava, quasi sempre, una malattia terribile ed incurabile e chi l’avesse presa difficilmente ne sarebbe guarito.
La malattia in discorso aveva il nome di alpinite ed il contagiato se la sarebbe portata dietro per tutta la vita.
Negli occhi del generale comandante balenò un lampo di orgoglio mentre pronunciava quelle parole. Ben presto anche Sandro ed i suoi 184 compagni di corso si sarebbero resi conto del loro vero significato.
Fu quando tutti contrassero quella malattia che tuttora li accompagna.
CAPITOLO 4
LA PUNTURA SALVATUTTO
I primi giorni alla SMALP rappresentarono per tutti i nuovi arrivati qualcosa di allucinante.
Furono giorni lunghissimi, da incubo, traumatici!
Oltrepassata la porta carraia, le preoccupate sensazioni dei ragazzi non lasciavano alcun dubbio.
- Mi son trovato catapultato in un mondo di pazzi!
- L’entrata nella caserma Charlie Bravo: fine del mondo noto ed inizio dell’inferno dove tutti urlavano qualcosa.
- L’entrata in caserma fu l’ingresso in una sorta di girone dantesco dedicato a persone che hanno condotto una vita sedentaria.
- Non sono mai entrato in un carcere, ma penso che l’impatto non sarebbe stato tanto differente.
- Capii di trovarmi in un mondo surreale.
(Commenti testuali indicati nella tesi della studentessa Elena Berbellini, riferiti ad una serie di questionari compilati da allievi che frequentarono un corso AUC alla SMALP).
Tutto doveva essere svolto all’insegna della massima velocità.
Il primo comandamento cui obbedire in modo pronto e senza discussione rispondeva ad un ordine che sergenti e caporali maggiori impartivano senza sosta: - Allievo, di corsa!
I ragazzi persero in parte anche i loro connotati.
Non venivano più identificati solo con un nome ed un cognome, ma soprattutto con dei numeri: quello della Compagnia, del plotone, della squadra, della camerata.
Era passata poco più di una settimana dall’inizio del corso, quando arrivò anche il fatidico giorno della visita medica, in altre parole il momento della prima puntura salvatutto!
Se non preoccupazione, c’era comunque una certa curiosità per questo evento. Non a caso del resto, tra i tanti comandamenti da osservare scrupolosamente all'arrivo alla SMALP, vigenti d'altronde in ogni altra caserma del territorio, figurava anche il seguente: - O milite pellegrino, offri sempre senza esitazione il tuo petto al dolore dell'ago miracoloso per il prosieguo del cammino nella tua vita stellata in grigioverde.
Parlandone dunque con i suoi commilitoni, Alberto Orecchia non ebbe alcuna esitazione ad ammettere che il solo pensiero di tale dogma, conoscendo la sua atavica fobia verso gli aghi, lo turbava oltremodo. Certamente era un retaggio di pene recondite subite durante la sua infanzia con le obbligatorie vaccinazioni alle scuole elementari, vere decimazioni di massa di quei tempi, in cui le siringhe usate erano quelle da sterilizzare previa bollitura, arricchite da un ago simile a quello usato per gonfiare i palloni di cuoio di quei tempi lontani.
Tale preoccupazione per quel buco di ordinanza era tuttavia condivisa dai più, in virtù delle nefaste leggende che giravano nel mondo della naja.
Quella vaccinazione antitifica e antitetanica, così dicevano, procurava gonfiori e dolori per un paio di giorni, ma ti preservava effettivamente da ogni malattia durante il servizio militare e forse anche oltre.
Erano le siringhe che impressionavano i più fifoni, descritte al pari di veri clisteri e con aghi che sembravano pali. Inoltre le leggende che si diffondevano tra i militari narravano il riuso delle siringhe con il solo cambio degli aghi.
Era quindi arrivato il fatidico giorno in cui Alberto Orecchia ed i suoi compagni vennero comandati alla loro prima missione sanitaria.
Alberto cercò di prepararsi mentalmente nascondendo il suo timore con un training autogeno degno di un atleta professionista, nascondendo con dignità i suoi tremori al cospetto dei suoi compagni più baldanzosi.
Si ritrovava in fila, scrupolosamente in ordine alfabetico, fuori dal locale infermeria.
Lì un Caronte del servizio sanità, un infermiere strappato a chissà quale lavoro nella vita civile, con noncurante spocchia, intinse un tampone nella tintura di iodio e ghignando al malcelato timore, spennellò il primo petto nudo che gli capitò sotto tiro.
Un altro aiutante di sanità, per il dilungarsi della fila all'esterno dell'infermeria, oltre a spennellare l'allievo di turno, si cimentava apungere qualcuno degli allievi. Purtroppo non agiva come da prassi demandatagli dal breve corso infermieristico, ma sbadatamente, schiacciando il muscolo pettorale del malcapitato a guisa di enorme brufolo. Quindi trafiggeva la carne non nella sua profondità, ma trapassando i lembi di pelle come quando si cuce un tacchino! E non appena si accorgeva dell'errore, rimediava con un secondo inserimento dell'ago, stavolta correttamente, forse dopo avere osservato il tenente medico nel suo fare lì vicino!
L’indomito Alberto Orecchia
Arrivò il turno di Alberto.
Guardò il liquido marrone che odorosamente sgradevole colava verso il basso, anteprima della sua ‘stigmata’ alpina.
Si apprestò ad interpretare fieramente la parte del figlio del Guglielmo Tell medico che, impaziente, gli stava dinnanzi.
Prese coraggio e vinse la fifa. Zac! Il tenente medico giocò al tiro a segno e affondò lo stiletto nel suo petto, duro come un sasso. L’indomito Alberto, impietrito nel suo intento di sfida alla paura, non accennò ad una benché minima reazione.
Era fatta!
Orgoglioso di se stesso, Alberto Orecchia si rivestì ed uscì dal locale ripassando accanto alla fila dei compagni in attesa del loro turno.
Osservandoli, incrociò lo sguardo con uno di loro che, quando ancora attendevano nel locale adiacente, si era rivolto ai presenti con fare di superuomo, irridendoli nelle loro titubanze e schernendoli ironicamente, quasi li ritenesse figli di un Dio minore.
Costui era il simpatico trevigiano Enrico Sivieri, un ‘pioniere’, uno della banda dei sette nani per la sua altezza di poco superiore al minimo consentito, che sfoggiava una baldanza oltre i limiti a giustificazione della sua presunta audacia.
Uscendo dall'infermeria Alberto, tra sé e sé, non negava di invidiare lo stato d'animo di quel compagno, apparentemente così coraggioso.
Ma il tempo fu galantuomo.
Al suo turno il buon Enrico subì la legge del contrappasso: smanioso prima e... disteso subito dopo. Come un pallone bucato si era accasciato al suolo! Dice un antico proverbio cinese: "Siediti sulla riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico!".
Detto e fatto.
Era così tornato tra gli umani, con somma soddisfazione dei tanti in apprensione in fila.
CAPITOLO 5
ALLIEVO, STIA PUNITO!
Il superamento dell’ardua prova della puntura salvatutto aveva garantito un lauto premio agli aitanti giovinotti: due giorni di assoluto riposo in posto branda al fine di superare i postumi di quell’insulsa perforazione dei loro pettorali.
E, dulcis in fundo, al terzo giorno si sarebbe potuto, al termine dell’attività addestrativa, finalmente e per la prima volta, andare in libera uscita.
Come per la storia della vaccinazione, anche sulla libera uscita correvano le voci più disparate.
Si raccontava infatti che uno dei divertimenti preferiti dei sottotenenti e dei graduati incaricati al controllo dei ragazzi per autorizzarne la piacevole passeggiata in Aosta, fosse quello di individuare un qualunque fronzolo al fine di poter esclamare, con voce fiera e tonante, la fatidica frase: “Allievo, stia punito!”
La lista delle possibili ragioni che castigavano alla serotina clausura in caserma erano infinite, talvolta risibili, spesso insulse.
Potevano essere individuate durante tutta la giornata, anche se il momento clou coincideva con il controllo finale della Compagnia, a plotoni schierati sull’attenti in cortile, qualche istante prima che scoccasse l’ora fatidica.
L’elenco sprigionava la più fervida fantasia:
• Bottone del taschino slacciato
• Barba lunga o non sufficientemente curata (la motivazione più gettonata dal tenente Fidanza)
• Si muoveva sull’attenti
• Mancanza del fazzoletto regolamentare
• Cubo malfatto
• Non conosceva i limiti del presidio
• Scarpe non sufficientemente lucide (ove il criterio di sufficienza era ovviamente affidato al libero arbitrio del superiore)
• Non correva sul piazzale
• Era rimasto attardato nella marcia
• Impreparato nelle materie di studio
• Errata o balbettante risposta alla inevitabile domanda: ‘Si presenti!’
• Uniforme in disordine
e così via.
Esisteva anche un codice etico su come comportarsi al di fuori della caserma.
Oltre a non poter uscire dai confini del presidio, non si potevano tenere le mani in tasca, il cappello andava sempre indossato all’aperto e mai al chiuso e, se in buona compagnia, bisognava dare la destra alla ragazza e non tenerla a braccetto, così da avere la mano libera per salutare militarmente i superiori.
All’atto pratico, se un graduato avesse voluto punire un ragazzo, per quest’ultimo non ci sarebbe stata alcuna possibilità di salvarsi!
La sanzione consisteva in un determinato numero di giorni di consegna, solitamente non superiore a 5, durante i quali era tassativamente negata la possibilità di abbandonare la caserma per andare in libera uscita.
A queste ferree regole vigenti, lo spirito libero di Vinicio Callegari stentava ad adeguarsi.
Per quale motivo, si chiedeva il ragazzo di Castelfranco Veneto, avrebbe dovuto attraversare i cortili sempre di corsa, scattare sull’attenti al passaggio di un superiore, fosse anche un caporale (ma l’allievo non era stato parificato al grado di caporale, si chiedeva)?
Il cubo, la reazione fisica alle scarpette che ti mortificavano i piedi, i Vibram che da marroni dovevano diventare neri!
Ma, poiché lo spirito è forte e la carne è debole, dopo tre settimane senza poter comunicare con casa e con la morosa, sia perché le due cabine telefoniche dello spaccio erano sempre sotto assedio, sia perché l’uniforme non in ordine gli procurò una discreta serie di Stia punito!, il buon Vinicio, adeguandosi ai voleri di quella ferrea disciplina, riuscì finalmente a tornare uomo libero per qualche ora, varcando il grande cancello, questa volta in uscita, della caserma.
Vinicio camminava, ora non più in veste di persona oppressa e condizionata (così almeno pensava lui), per le vie della città.
Raggiunse in breve tempo la storica piazza centrale di Aosta, dedicata al martire della resistenza valdostana Emile Chanoux.
Nella grande piazza, in quei tempi in cui vigeva ancora l’obbligo di vestire l’uniforme, durante l’orario di libera uscita le divise superavano largamente gli abiti borghesi. Arrivato al grande crocevia,
Vinicio urtò contro un vigile urbano, anch’egli in divisa, con i suoi galloni dorati e luccicanti. D’istinto, scattò immediatamente sull’attenti con tanto di saluto al cappello.
Fu solo un caso se non procedette con la recita della presentazione. Il vigile gallonato lo guardò, sorrise, ed esclamò: - Ma va…!
I poderosi tentacoli della Scuola Militare Alpina avevano prima catturato e poi domato anche lo spirito libero di Vinicio Callegari.
La 'cazzuolata'
CAPITOLO 6
LA GRANDE FUGA… MANCATA
Se Vinicio Callegari, in un modo o nell’altro, la sua bella passeggiata per il centro di Aosta era riuscito a portarla a compimento, non altrettanta buona sorte toccò al cuneese Mario Sandrone.
Era un sabato pomeriggio, alla Scuola Militare Alpina un giorno quasi sempre speciale.
Di sabato, infatti, le attività erano sospese e gli allievi si rilassavano dalle fatiche della settimana appena trascorsa.
Ognuno si dedicava al disbrigo di piccoli lavori personali, curava collegamenti epistolari con i propri familiari e con la propria fanciulla, si occupava della cura e della pulizia personale.
Ma per Mario Sandrone quel sabato fu tristemente indimenticabile.
Approfittando della concessione dei cosiddetti permessi in valle aveva predisposto nel più minimo dettaglio, con i quasi compaesani Enrico Casalegno, Michele Casetta ed Alessandro Miglioretti, una fuga verso casa da effettuarsi l’indomani mattina.
Simulando una visita alle bellezze della valle d’Aosta, i quattro avrebbero invece raggiunto le loro case nel torinese e nel cuneese, per rimanere, anche solo per poche ore, accanto ai loro amici e familiari. Tutto era stato calcolato.
L’ora e la località del ritrovo per la partenza (uscire tutti e quattro insieme dalla caserma avrebbe potuto suscitare qualche sospetto), il luogo appartato e sicuro dove liberarsi della divisa di ordinanza sostituendola con abiti civili così da non essere facilmente riconosciuti dai servizi di ronda che brulicavano lungo tutta la valle, la messa a punto dell’auto, gli itinerari del percorso, gli orari di ricongiungimento per il ritorno in caserma.
Ma, come per tutte le più famose evasioni raccontate nei film e nei romanzi, anche per questa innocente fuga arrivò il classico imprevisto.
Il malevolo contrattempo fu una insignificante adunata per la doccia che ben presto si trasformò, per i quattro fuggiaschi, in un’atroce incubo e in una amara delusione.
Alessandro, Enrico, Mario e Michele erano in attesa sul piazzale lungo il muro delle docce. Al suono dell’adunata, con un’agile corsetta di pochi metri, raggiunsero il luogo solito dove veniva inquadrata la Compagnia, proprio di fronte alle camerate.
Davanti ai ragazzi si parò l’ufficiale di giornata, il tenente Fidanza.
Al tenente Mauro Fidanza, marchigiano di media altezza, poteva essere assegnata, senza tema di smentita, la qualifica di “castigatore folle”.
Il numero di punizioni da lui assegnate agli allievi era senza limite.
Si presentava sempre ben sbarbato e curato, fiero ed elegante nella sua divisa diagonale, fresca di stiratura e lavanderia.
Aveva sempre stampato in faccia un mezzo sadico sorriso, con un atteggiamento che sembrava volesse esternare oltremodo il desiderio di comando sulla Compagnia.
Averlo, al sabato, come ufficiale di giornata, ruolo al quale era demandata la concessione dei permessi, era una sicura disgrazia e la possibilità di poter avere qualche ora di libertà diventava un vero e proprio terno al lotto.
Cominciò ad impartire i primi ordini: - At-tenti, Ri-poso, Fianco destr!
D’un tratto, rivolgendosi verso la Compagnia e tenendo alzato il dito indice della mano destra, esclamò: - Ehi! Allievo…!
L’intollerante tono di voce usato dall’inflessibile tenente mise in allarme l’intera truppa.
Poiché nessuno comprese chi fosse l’allievo oggetto del richiamo, in un primo tempo nessuno si mosse.
Mauro Fidanza, sempre con il dito rivolto verso l’intera Compagnia schierata, replicò l’invito: - Ho detto a Lei!!
Quegli allievi, che secondo l’indicazione presumevano di essere interessati dall’ordine perentorio, cominciarono ad uno ad uno ad uscire dallo schieramento e si presentarono davanti all’ufficiale. Vennero tutti rimandati al proprio posto accompagnati dalla voce indispettita del loro superiore: - Non voi… Non voi... Lui lo sa !! Lui sa che mi rivolgo a lui!
A quel punto Mario Sandrone si guardò intorno.
Vicino gli si era creato il vuoto totale!
L’iniziale sospetto si trasformò in un attimo in preoccupante angoscia. “Perbacco - mormorò incredulo a bassa voce - ma…allora… Fidanza si sta rivolgendo proprio a me!”
Mario Sandrone si avvicinò titubante all’ufficiale di giornata.
Quest’ultimo cominciò ad urlare tutto il suo disappunto, minacciando punizioni a destra e a manca. Mario non ne aveva ancora compreso il motivo.
Poi il tenente si avvicinò al ragazzo e, allungata la mano verso il malcapitato, afferrò un lembo della camicia che spuntava da sotto il giubbotto della divisa.
Quasi come se avesse fra le mani un trofeo di guerra da ostentare, strattonando la camicia del ragazzo, cominciò ad urlare: - Vergogna… vergogna… divisa in disordine!
Mario Sandrone rimase di stucco.
Si era vestito con la massima cura, proprio in previsione della prossima fuga ed addebitò il traditore rigonfiamento della camicia ad un involontario accovacciamento.
Il tono di voce del tenente Mauro Fidanza si fece violento.
Alla fine sentenziò soddisfatto: - Stia punito.
A Mario Sandrone crollò il mondo addosso.
Disperazione, delusione e amarezza lo sopraffecero!
Dopo tanta ansia e speranza di rivedere i suoi genitori, gli amici, la sua fidanzatina, tutto era improvvisamente svanito.
La conseguenza della punizione lo condannava senza pietà.
Avrebbe dovuto rimanere fra i puniti in caserma.
Triste, addolorato e solo, pianse, ben consapevole che, sfumata quella occasione, non si sarebbe più ripresentata la possibilità di una successiva evasione.
CAPITOLO 7
CARO AMORE, TI SCRIVO!
Appena raggiunta la SMALP, tra tutte le incombenze ed assegnazioni che contraddistinsero quei giorni, fu anche comunicato ai ragazzi l’esatto indirizzo che avrebbe dovuto essere indicato sull’intestazione di tutta la corrispondenza in arrivo.
In particolare, per favorirne un più rapido smaltimento, andavano specificati la qualifica (AUC) ed il numero della Compagnia di appartenenza.
La distribuzione della posta avveniva al termine del pranzo di mezzogiorno, all’interno della palazzina degli allievi.
Il rituale era sempre il medesimo: un caporal maggiore, intorno alle 12.30, spuntava dalla fureria con l’attesissimo pacco di missive e veniva di colpo attorniato dalla speranzosa massa degli allievi. Poi declamava i nomi dei fortunati con flemmatica suspense e contestualmente consegnava loro l’ambitissimo premio.
La prima reazione istintiva dei baciati dalla sorte consisteva nel girare rapidamente la missiva per controllarne il mittente. Scopertone il nome, il fortunato allievo manifestava il livello della sua soddisfazione con tre diversi comportamenti, ormai perfettamente codificati. Se riponeva in tasca la lettera con fare noncurante e continuava tranquillamente a chiacchierare con i compagni, lo scrivente non poteva essere che un famigliare. Se si comportava in modo più o meno analogo, ma accompagnava con un sorriso la lettura del nome del mittente, probabilmente era un caro amico che si era ricordato del collega partito per fare il soldato. Se invece il leggero sorriso si allargava e veniva accompagnato prima da un evidente sgranamento degli occhi e poi da una rapido scatto verso il proprio posto branda, non vi era alcun dubbio: la lettera veniva dalla morosa!
N.B.: non si facciano, nel merito, inutili illazioni, accostando la “morosa” al “posto branda”. Nella comunità della caserma, la privacy non esisteva.
Ed il proprio sgangherato lettino, in una camerata condivisa con altri nove ragazzi, rappresentava l’unica collocazione in cui, con un notevole sforzo di buona volontà, si riusciva a restare un po’ soli con se stessi.
Nerio Albertoni era un ragazzo d’oro. Educato, riservato, discreto. A chi gli chiedeva da che città venisse, lui non rispondeva Cittadella, ma preferiva dire che abitava vicino a Bassano del Grappa, così da non mettere in difficoltà chi non sapesse dove fosse il suo paese natale.
In quel primo pomeriggio di agosto, alla consueta distribuzione della posta, era stato tra i primi ad essere nominato.
Rigirò tra le mani l’incartamento appena ricevuto e schizzò più veloce di Mennea verso la sua camerata, la numero 1.
Con la solita discrezione che accompagnava i giovanotti di quell’età, i compagni di stanza, non appena videro il trafelato Nerio sdraiarsi sul letto, giusto per favorire quel minimo di intimità che il ragazzo cercava di conquistare, intonarono il consueto “Oooohhhhhh”, naturalmente in crescendo. Esclamazione che sarebbe cessata solo all’apertura della missiva, per trasformarsi poi in assoluto silenzio, con lo sguardo di tutti gli astanti rivolto sfacciatamente verso il fortunato malcapitato.
Nerio, che ormai aveva già rinunciato alla desiderata riservatezza, aprì la busta e si immerse nella lettura.
Poi, d’un tratto, la sua espressione, in un primo tempo gioiosa e felice, cominciò a trasformarsi. Si fece prima serio, poi preoccupato, quindi addolorato. Un piccolo raspino di gola anticipò di un attimo la prima lacrimuccia.
Anche i compagni, che scherzosamente non avevano ancora smesso di puntarlo con gli occhi, compresero il suo piccolo dramma.
La sua dolce metà gli stava scrivendo che nei suoi sentimenti si era insinuata una piccola crepa (magari aveva pure, la piccola crepa, un nome ed un cognome) e che necessitava di una lunga pausa di riflessione, da sempre la miglior menzogna per anticipare una definitiva rottura.
Trascorsero soltanto due giorni e questa volta il destinatario di un nuovo scritto fu Francesco Castelli.
Il torinese Francesco era un po’ il Super Man della camerata. Alto, magro, aitante, bello, tutto muscoli. Di ragazze, lui, avrebbe dovuto averne a manciate e la fortunata che se lo era accaparrato mai e poi mai avrebbe solo potuto pensare di abbandonarlo. Purtroppo si verificò l’esatto contrario. Francesco, appena terminò la lettura, rimase impassibile per qualche secondo, poi, nervosamente, stracciò ed appallottolò quel foglio di carta portatore di cattive notizie e lo gettò con un perfetto tiro da tre punti nel lontano cestino.
Quindi, tra il seccato e l’indifferente, nascose la testa sotto il suo confortevole cuscino.
Non c’è due senza tre è un antico proverbio della cultura popolare italiana.
La sua nascita è influenzata dal fatto che ‘tre’ è considerato il numero perfetto. Tre sono le persone della Santissima Trinità, tre sono le dimensioni del mondo in cui viviamo. E tre furono anche le perfide fanciulle che osarono sbarazzarsi di tre valorosi e promettenti allievi ufficiali che albergavano nella camerata numero 1.
Il termine “perfide”, in questo contesto, è il risultato di una severissima censura imposta dalla redazione. Si lascia alla razionale fantasia dei lettori la definizione originale di questi miseri personaggi di natura femminile. Costoro, mentre il loro amato si esercitava sotto un sole cocente e truccato da soldato a fare il passo del leopardo a Mont Fleury, se la spassavano sul litorale tirrenico ed adriatico, indossando un risicato bikini più vedo che non vedo e muovendosi sinuosamente sul telo mare per perfezionare l’ambita tintarella e per sollecitare la curiosità dei bell’imbusti che ronzavano attorno. E poi scrivevano che necessitavano di un momento di ponderazione…!
Ormai, almeno per i ragazzi del primo stanzone, la consegna della posta, da momento di gioia, stava trasformandosi in un vero e proprio incubo.
- Bozzo Mirco - recitò con enfasi il sergente Gard, con in mano il pacchetto della corrispondenza giornaliera.
Mirco, ligure di Bargagli, era un ragazzo per bene. Tranquillo, simpatico, un po’ fatalista. Solo una settimana prima di partire per Aosta si era fidanzato con una nuova fiamma, di nome Madi. C’era stato solo qualche scambio di bacetti ma non ancora la promessa dell’amore…
Ma purtroppo, come gli amici Albertoni e Castelli, anche Mirco soggiornava nell’ormai predestinata camerata numero uno.
Fu il terzo condannato dalla pausa di riflessione!
Da quel giorno, soddisfatti i numeri richiesti dall’antico adagio della cultura popolare italiana, non si verificarono in quella camerata ulteriori episodi strappalacrime ed i ragazzi, finalmente, poterono nuovamente recarsi con sufficiente tranquillità al ritiro della corrispondenza.
Se Vinicio Callegari, in un modo o nell’altro, la sua bella passeggiata per il centro di Aosta era riuscito a portarla a compimento, non altrettanta buona sorte toccò al cuneese Mario Sandrone.
Era un sabato pomeriggio, alla Scuola Militare Alpina un giorno quasi sempre speciale.
Di sabato, infatti, le attività erano sospese e gli allievi si rilassavano dalle fatiche della settimana appena trascorsa.
Ognuno si dedicava al disbrigo di piccoli lavori personali, curava collegamenti epistolari con i propri familiari e con la propria fanciulla, si occupava della cura e della pulizia personale.
Ma per Mario Sandrone quel sabato fu tristemente indimenticabile.
Approfittando della concessione dei cosiddetti permessi in valle aveva predisposto nel più minimo dettaglio, con i quasi compaesani Enrico Casalegno, Michele Casetta ed Alessandro Miglioretti, una fuga verso casa da effettuarsi l’indomani mattina.
Simulando una visita alle bellezze della valle d’Aosta, i quattro avrebbero invece raggiunto le loro case nel torinese e nel cuneese, per rimanere, anche solo per poche ore, accanto ai loro amici e familiari. Tutto era stato calcolato.
L’ora e la località del ritrovo per la partenza (uscire tutti e quattro insieme dalla caserma avrebbe potuto suscitare qualche sospetto), il luogo appartato e sicuro dove liberarsi della divisa di ordinanza sostituendola con abiti civili così da non essere facilmente riconosciuti dai servizi di ronda che brulicavano lungo tutta la valle, la messa a punto dell’auto, gli itinerari del percorso, gli orari di ricongiungimento per il ritorno in caserma.
Ma, come per tutte le più famose evasioni raccontate nei film e nei romanzi, anche per questa innocente fuga arrivò il classico imprevisto.
Il malevolo contrattempo fu una insignificante adunata per la doccia che ben presto si trasformò, per i quattro fuggiaschi, in un’atroce incubo e in una amara delusione.
Alessandro, Enrico, Mario e Michele erano in attesa sul piazzale lungo il muro delle docce. Al suono dell’adunata, con un’agile corsetta di pochi metri, raggiunsero il luogo solito dove veniva inquadrata la Compagnia, proprio di fronte alle camerate.
Davanti ai ragazzi si parò l’ufficiale di giornata, il tenente Fidanza.
Al tenente Mauro Fidanza, marchigiano di media altezza, poteva essere assegnata, senza tema di smentita, la qualifica di “castigatore folle”.
Il numero di punizioni da lui assegnate agli allievi era senza limite.
Si presentava sempre ben sbarbato e curato, fiero ed elegante nella sua divisa diagonale, fresca di stiratura e lavanderia.
Aveva sempre stampato in faccia un mezzo sadico sorriso, con un atteggiamento che sembrava volesse esternare oltremodo il desiderio di comando sulla Compagnia.
Averlo, al sabato, come ufficiale di giornata, ruolo al quale era demandata la concessione dei permessi, era una sicura disgrazia e la possibilità di poter avere qualche ora di libertà diventava un vero e proprio terno al lotto.
Cominciò ad impartire i primi ordini: - At-tenti, Ri-poso, Fianco destr!
D’un tratto, rivolgendosi verso la Compagnia e tenendo alzato il dito indice della mano destra, esclamò: - Ehi! Allievo…!
L’intollerante tono di voce usato dall’inflessibile tenente mise in allarme l’intera truppa.
Poiché nessuno comprese chi fosse l’allievo oggetto del richiamo, in un primo tempo nessuno si mosse.
Mauro Fidanza, sempre con il dito rivolto verso l’intera Compagnia schierata, replicò l’invito: - Ho detto a Lei!!
Quegli allievi, che secondo l’indicazione presumevano di essere interessati dall’ordine perentorio, cominciarono ad uno ad uno ad uscire dallo schieramento e si presentarono davanti all’ufficiale. Vennero tutti rimandati al proprio posto accompagnati dalla voce indispettita del loro superiore: - Non voi… Non voi... Lui lo sa !! Lui sa che mi rivolgo a lui!
A quel punto Mario Sandrone si guardò intorno.
Vicino gli si era creato il vuoto totale!
L’iniziale sospetto si trasformò in un attimo in preoccupante angoscia. “Perbacco - mormorò incredulo a bassa voce - ma…allora… Fidanza si sta rivolgendo proprio a me!”
Mario Sandrone si avvicinò titubante all’ufficiale di giornata.
Quest’ultimo cominciò ad urlare tutto il suo disappunto, minacciando punizioni a destra e a manca. Mario non ne aveva ancora compreso il motivo.
Poi il tenente si avvicinò al ragazzo e, allungata la mano verso il malcapitato, afferrò un lembo della camicia che spuntava da sotto il giubbotto della divisa.
Quasi come se avesse fra le mani un trofeo di guerra da ostentare, strattonando la camicia del ragazzo, cominciò ad urlare: - Vergogna… vergogna… divisa in disordine!
Mario Sandrone rimase di stucco.
Si era vestito con la massima cura, proprio in previsione della prossima fuga ed addebitò il traditore rigonfiamento della camicia ad un involontario accovacciamento.
Il tono di voce del tenente Mauro Fidanza si fece violento.
Alla fine sentenziò soddisfatto: - Stia punito.
A Mario Sandrone crollò il mondo addosso.
Disperazione, delusione e amarezza lo sopraffecero!
Dopo tanta ansia e speranza di rivedere i suoi genitori, gli amici, la sua fidanzatina, tutto era improvvisamente svanito.
La conseguenza della punizione lo condannava senza pietà.
Avrebbe dovuto rimanere fra i puniti in caserma.
Triste, addolorato e solo, pianse, ben consapevole che, sfumata quella occasione, non si sarebbe più ripresentata la possibilità di una successiva evasione.
CAPITOLO 7
CARO AMORE, TI SCRIVO!
Appena raggiunta la SMALP, tra tutte le incombenze ed assegnazioni che contraddistinsero quei giorni, fu anche comunicato ai ragazzi l’esatto indirizzo che avrebbe dovuto essere indicato sull’intestazione di tutta la corrispondenza in arrivo.
In particolare, per favorirne un più rapido smaltimento, andavano specificati la qualifica (AUC) ed il numero della Compagnia di appartenenza.
La distribuzione della posta avveniva al termine del pranzo di mezzogiorno, all’interno della palazzina degli allievi.
Il rituale era sempre il medesimo: un caporal maggiore, intorno alle 12.30, spuntava dalla fureria con l’attesissimo pacco di missive e veniva di colpo attorniato dalla speranzosa massa degli allievi. Poi declamava i nomi dei fortunati con flemmatica suspense e contestualmente consegnava loro l’ambitissimo premio.
La prima reazione istintiva dei baciati dalla sorte consisteva nel girare rapidamente la missiva per controllarne il mittente. Scopertone il nome, il fortunato allievo manifestava il livello della sua soddisfazione con tre diversi comportamenti, ormai perfettamente codificati. Se riponeva in tasca la lettera con fare noncurante e continuava tranquillamente a chiacchierare con i compagni, lo scrivente non poteva essere che un famigliare. Se si comportava in modo più o meno analogo, ma accompagnava con un sorriso la lettura del nome del mittente, probabilmente era un caro amico che si era ricordato del collega partito per fare il soldato. Se invece il leggero sorriso si allargava e veniva accompagnato prima da un evidente sgranamento degli occhi e poi da una rapido scatto verso il proprio posto branda, non vi era alcun dubbio: la lettera veniva dalla morosa!
N.B.: non si facciano, nel merito, inutili illazioni, accostando la “morosa” al “posto branda”. Nella comunità della caserma, la privacy non esisteva.
Ed il proprio sgangherato lettino, in una camerata condivisa con altri nove ragazzi, rappresentava l’unica collocazione in cui, con un notevole sforzo di buona volontà, si riusciva a restare un po’ soli con se stessi.
Nerio Albertoni era un ragazzo d’oro. Educato, riservato, discreto. A chi gli chiedeva da che città venisse, lui non rispondeva Cittadella, ma preferiva dire che abitava vicino a Bassano del Grappa, così da non mettere in difficoltà chi non sapesse dove fosse il suo paese natale.
In quel primo pomeriggio di agosto, alla consueta distribuzione della posta, era stato tra i primi ad essere nominato.
Rigirò tra le mani l’incartamento appena ricevuto e schizzò più veloce di Mennea verso la sua camerata, la numero 1.
Con la solita discrezione che accompagnava i giovanotti di quell’età, i compagni di stanza, non appena videro il trafelato Nerio sdraiarsi sul letto, giusto per favorire quel minimo di intimità che il ragazzo cercava di conquistare, intonarono il consueto “Oooohhhhhh”, naturalmente in crescendo. Esclamazione che sarebbe cessata solo all’apertura della missiva, per trasformarsi poi in assoluto silenzio, con lo sguardo di tutti gli astanti rivolto sfacciatamente verso il fortunato malcapitato.
Nerio, che ormai aveva già rinunciato alla desiderata riservatezza, aprì la busta e si immerse nella lettura.
Poi, d’un tratto, la sua espressione, in un primo tempo gioiosa e felice, cominciò a trasformarsi. Si fece prima serio, poi preoccupato, quindi addolorato. Un piccolo raspino di gola anticipò di un attimo la prima lacrimuccia.
Anche i compagni, che scherzosamente non avevano ancora smesso di puntarlo con gli occhi, compresero il suo piccolo dramma.
La sua dolce metà gli stava scrivendo che nei suoi sentimenti si era insinuata una piccola crepa (magari aveva pure, la piccola crepa, un nome ed un cognome) e che necessitava di una lunga pausa di riflessione, da sempre la miglior menzogna per anticipare una definitiva rottura.
I ragazzi della camerata numero 1.
Francesco Castelli, Ugo Ferrando, Umberto Bellini, Roberto Salati, Gianfranco Rebulla,
Mirco Bozzo, Dario Mensi, Nerio Albertoni, Paolo Moneta, Alberto Turini.
Il torinese Francesco era un po’ il Super Man della camerata. Alto, magro, aitante, bello, tutto muscoli. Di ragazze, lui, avrebbe dovuto averne a manciate e la fortunata che se lo era accaparrato mai e poi mai avrebbe solo potuto pensare di abbandonarlo. Purtroppo si verificò l’esatto contrario. Francesco, appena terminò la lettura, rimase impassibile per qualche secondo, poi, nervosamente, stracciò ed appallottolò quel foglio di carta portatore di cattive notizie e lo gettò con un perfetto tiro da tre punti nel lontano cestino.
Quindi, tra il seccato e l’indifferente, nascose la testa sotto il suo confortevole cuscino.
Non c’è due senza tre è un antico proverbio della cultura popolare italiana.
La sua nascita è influenzata dal fatto che ‘tre’ è considerato il numero perfetto. Tre sono le persone della Santissima Trinità, tre sono le dimensioni del mondo in cui viviamo. E tre furono anche le perfide fanciulle che osarono sbarazzarsi di tre valorosi e promettenti allievi ufficiali che albergavano nella camerata numero 1.
Il termine “perfide”, in questo contesto, è il risultato di una severissima censura imposta dalla redazione. Si lascia alla razionale fantasia dei lettori la definizione originale di questi miseri personaggi di natura femminile. Costoro, mentre il loro amato si esercitava sotto un sole cocente e truccato da soldato a fare il passo del leopardo a Mont Fleury, se la spassavano sul litorale tirrenico ed adriatico, indossando un risicato bikini più vedo che non vedo e muovendosi sinuosamente sul telo mare per perfezionare l’ambita tintarella e per sollecitare la curiosità dei bell’imbusti che ronzavano attorno. E poi scrivevano che necessitavano di un momento di ponderazione…!
Ormai, almeno per i ragazzi del primo stanzone, la consegna della posta, da momento di gioia, stava trasformandosi in un vero e proprio incubo.
- Bozzo Mirco - recitò con enfasi il sergente Gard, con in mano il pacchetto della corrispondenza giornaliera.
Mirco, ligure di Bargagli, era un ragazzo per bene. Tranquillo, simpatico, un po’ fatalista. Solo una settimana prima di partire per Aosta si era fidanzato con una nuova fiamma, di nome Madi. C’era stato solo qualche scambio di bacetti ma non ancora la promessa dell’amore…
Ma purtroppo, come gli amici Albertoni e Castelli, anche Mirco soggiornava nell’ormai predestinata camerata numero uno.
Fu il terzo condannato dalla pausa di riflessione!
Da quel giorno, soddisfatti i numeri richiesti dall’antico adagio della cultura popolare italiana, non si verificarono in quella camerata ulteriori episodi strappalacrime ed i ragazzi, finalmente, poterono nuovamente recarsi con sufficiente tranquillità al ritiro della corrispondenza.
L'allievo Paolo Moneta aggiorna i familiari (o la fidanzatina?) sulla vita alla Smalp.
CAPITOLO 8
IL TEDESCO DI VALERIO POGGI
Se il ritiro della corrispondenza, nella camerata 1, per un breve periodo si era trasformato in un piccolo incubo, nella camerata 3 capitava esattamente l’opposto.
I rapporti epistolari, sia in partenza che in arrivo, costituivano uno tra i divertimenti preferiti dai ragazzi.
Tutti partecipavano sia alla stesura che alla lettura di ogni missiva, in una sorta di reciprocità libera e disinvolta che non aveva segreti per nessuno.
Le lettere in partenza rappresentavano il piacere dell’invenzione, delle baggianate più assurde e delle fandonie più roboanti e improbabili. Le lettere in arrivo erano uno spasso come conseguenza di quello che era stato scritto.
E in questo non c’è tema di affermare che quella camerata fosse senz’altro unica ed inarrivabile, giovandosi di un terzetto che non aveva uguali: un lucchese, Nicoli, un alessandrino, Poggi, un trevigiano, Braggion.
Gli altri sette erano ottimi comprimari, ma non raggiungevamo mai i loro livelli. Paolo Nicoli, nelle sue invettive e battute al vetriolo con insulti scherzosi, come nel suo infinito repertorio di barzellette, faceva sfoggio di un coloritissimo vocabolario toscano, ornato di fiorite parolacce e talvolta anche di bestemmie, il tutto naturalmente sempre espresso senza cattive intenzioni. Roberto Braggion aveva il suo assortimento di repliche e fra i due si interponeva, sempre ad effetto, Valerio Poggi, la cui arguzia era superata soltanto dalla sua simpatia.
Poi, come ciliegina sulla torta, contribuiva la cultura e la buona conoscenza del tedesco su cui Valerio poteva contare e che fu determinante negli scherzi epistolari indirizzati al loro pubblico femminile.
A tal riguardo, i tre decisero di concordare una finta delazione, indirizzata alle tenere amicizie di un paio dei compagni di camera, nella quale esternavano le preoccupazioni che dicevano di nutrire verso la loro virilità, insidiata da profferte omosessuali di una non ben precisata figura che si aggirava in caserma e che minacciava di avere successo per la mancanza della componente femminile. Ricevettero alcune risposte serie, con proposte gustose, per rimediare a un simile problema. Altre invece lasciavano intendere, con suggerimenti più o meno piccanti, che stessero rendendo la pariglia ai loro scherzi.
In entrambi i casi il divertimento era assicurato.
Poi Valerio Poggi decise di sfoderare alcuni scampoli tratti dal Viaggio in Italia di Goethe, che lui conosceva a memoria. Inframmezzati ad arte negli scritti dei ragazzi, costituirono la dannazione delle loro amiche.
Era bastato far creder loro che per motivi di sicurezza e di servizio tutti i messaggi avrebbero dovuto essere criptati, in modo da costringere le povere tapine a lunghe ed ardue sedute di traduzione.
E, giusto per complicare le cose, si scriveva loro che il vero significato doveva essere decrittato. In realtà era semplicemente quello letterale, spesso per nulla pertinente, ma loro non lo sapevano e tanto bastava a farle arrovellare inutilmente.
Sarebbe stato molto più facile se si fosse trattato di un testo in inglese, ma il tedesco, in particolare quello di Poggi, era lingua ben più ostica.
Poi anche i ragazzi cominciarono a ricevere scritti indecifrabili: non era alcuna lingua, poteva sembrare esperanto, ma non lo era. Semplicemente le argute fanciulle avevano mangiato la foglia e stavano rendendo ai bricconcelli la giusta pariglia.
***
Primo pomeriggio, pausa del dopo pranzo.
Sempre nella camerata numero 3 gli allievi stavano ascoltando, stravaccati sulle brande, tra una castroneria e l’altra, Alto Gradimento con Arbore e tutta la sua corte.
Il volume della radio era volutamente contenuto. Gli schiamazzi infatti non erano ammessi e quando il livello delle risate diventava eccessivo, era certo che prima o poi ci sarebbe stato l’intervento di qualche superiore, accompagnato da un provvedimento disciplinare.
Ma quel giorno Paolo Nicoli aveva deciso di scatenarsi. Come era solito fare, se ne era uscito con uno dei suoi raccontini ed aveva subito polarizzato l’attenzione di tutti. La sua vis comica, nell’occasione, risultò straordinaria.
Tutti i compagni, nel procedere della breve storiella, erano con le lacrime agli occhi ed in preda alle convulsioni per il gran ridere, tanto da non essere in grado di risollevarsi dal letto. Accadde così che nessuno ebbe modo di accorgersi che alle loro spalle si era aperta la porta e che, nel suo vano, troneggiava l’altera figura del temuto tenente Fidanza.
Impossibile stabilire da quanto tempo si trovasse lì, anche perché probabilmente era stato lo stesso ufficiale a non essere intervenuto, a sua volta divertito da quell’insieme assolutamente esilarante di dieci persone intente a sbellicarsi dalle risate, tanto da non capire più nulla.
Poi uno dei dieci si accorse ed ammutolì, o meglio cercò di ammutolirsi e, con gli occhi pieni di lacrime, mimò qualche vago gesto in direzione dei compagni cercando di metterli sull’avviso.
Ci volle il suo tempo perché la quasi totalità degli allievi si rendesse conto della minaccia incombente. Alla fine rimase il solo Nicoli a non aver percepito quel pericolo; il ragazzo infatti, preso dalla foga della narrazione, procedeva imperterrito verso l’epilogo del suo farsesco racconto.
Stava per succedere il peggio.
Non essendovi infatti nulla di più difficile che trattenere una risata quando il contesto contribuisce al contrario, buona parte dei ragazzi non poté fare a meno di ridere a bocca chiusa, emettendo loro malgrado un suono molto simile a quello di una pernacchia, cosa che puntualmente avvenne allorquando Nicoli completò la sua storiella.
Fu quello il momento in cui anche Paolo si accorse della presenza di chi aveva alle spalle.
Quasi tutti i componenti della camerata erano a faccia in giù sul letto, nella speranza di non farsi sentire, contorcendosi in una risata afona, senza fine.
Dopo un interminabile attimo di terrore, ristabilitosi un silenzio di tomba, Fidanza, senza proferire parola, come era arrivato, se ne andò. Inaspettatamente, non vi furono provvedimenti disciplinari.
Forse il fiero ufficiale si era precipitato altrove per scoppiare a sua volta in una prorompente risata, non potendolo fare davanti ai ragazzi.
La ferrea disciplina militare impediva infatti di fraternizzare con i subalterni.
CAPITOLO 9
PTHIRUS PUBIS
Si diceva che tutto fosse riconducibile a Bocca di rosa, una figura che in quel frangente temporale si collocava fra quella materna e la dea del sesso: una ormai attempata, ma ancora molto piacente signora, che si divideva fra la Cogne e le caserme Battisti e Testafochi.
La progressione dell’infestazione fu dovuta all’imbarazzo dei più goffi ed inesperti che, vergognandosi del problema e non conoscendone l’unico rimedio efficace, si inabissarono in un vortice di ridicolaggini, riuscendo solo a diffondere maggiormente il contagio di quelle che, comunemente, si chiamano piattole.
La caratteristica peculiare di questi parassiti era quella di insinuarsi sotto pelle alla radice dei follicoli piliferi principalmente del pube ed in generale in tutte le altre parti del corpo dove vi fossero peli.
Pochi sapevano che il fai da te non risolveva nulla. Ed i patetici tentativi per tener nascosta la cosa, una volta svelati, più o meno volontariamente, scatenavano burle e ilarità sconfinate oltre ad una diffusione di rimedi infondati, solo in grado di far danno alla pelle. Si cominciarono così a sentire, qua e là nelle camerate, esalazioni alcooliche che, se non fosse stato per la denaturalizzazione, potevano anche far pensare a festini ed orge.
Trascorse poco tempo e poi si passò a tutta una gamma di odori che spaziavano dal gasolio alla nafta, al kerosene e alla benzina.
Si scoprì che vi fu anche chi ricorse a trielina, acetone e ammoniaca quando gli sventurati confessarono che le bestiole sembravano persino trarre giovamento da questi trattamenti.
Vi fu chi si scorticò la pelle nei vari tentativi e chi si rimediò delle ostinate dermatosi che finirono per costituire la spia del problema; era infatti tempo di addestramento al combattimento e sbalzare lungo il letto della Dora era divenuto per loro una atroce tortura.
Era pertanto impossibile poter resistere a lungo pensando a quali erano le due parti in gioco, quella infestata e quella che strisciava sul terreno nel passo del leopardo.
Quando il fatto diventò di pubblico dominio, la scoperta del mal comune non fu certo mezzo gaudio. Sospensione della libera uscita e consegna per i finti malati che avevano denunciato patologie improbabili sperando di debellare il problema prima di doverne confessare l’imbarazzante verità.
Le conseguenze pratiche riguardarono invece sani e infetti.
Consegna di qualsiasi indumento intimo, borghese o militare, rasatura completa di ogni singolo pelo (ciglia escluse), sostituzione di tutta la biancheria delle brande, docce igienizzanti stile campo di concentramento e, soprattutto, shampoo antiparassitario MOM a volontà, il rimedio che poi tutti impararono a conoscere come l’unico efficace. Si creò di conseguenza un clima di caccia all’untore dei casi infetti dormienti.
Si ripeterono insistenti adunate di controllo e non appena si scorgeva un ragazzo intento a grattarsi, scattavano la proscrizione e le delazioni.
L’infestazione fu equanime e nulla poté il nonnismo.
Fu una gara di numeri fra 63° e 64° corso del cui vincitore non rimase memoria.
P.S. Pthirus pubis: pidocchio del pube.
CAPITOLO 10
LE VALLI DEL NATISONE
Evelino Mattelig era originario delle Valli del Natisone, ai confini con la Slovenia.
Arrivato alla Scuola Militare Alpina fu subito affascinato dalle montagne che circondavano la Valle d’Aosta: mai viste prima, così possenti, alte, sovrane.
Era ancora ignaro che nei sei mesi successivi le avrebbe frequentate con ogni situazione climatica nell’attività della scuola, caratterizzata da disciplina, studio e grande attività fisica.
Il biondo Evelino era un ragazzo estroverso, pieno di vita, sempre allegro e disponibile.
Una sera dopo il contrappello, con un compagno, decise di restituire uno scherzo najone subito dagli allievi di un'altra camerata. In assoluto silenzio, nella notte, i due bricconcelli posizionarono una bacinella colma d’acqua sopra la porta d’ingresso della camerata prescelta, in modo che il primo che fosse uscito sarebbe stato innaffiato da una abbondante doccia rinfrescante.
Ma la sorte volle che proprio quella sera il sergente di giornata decidesse di ispezionare a sorpresa alcune camerate nel corso della notte e, sfortuna nella sfortuna, decidesse di entrare anche in quella presa di mira dai due ragazzi.
La conseguenza fu inevitabile: la doccia rinfrescante investì da capo a piedi lo sventurato graduato, vestito di tutto punto.
Costui non poté, naturalmente, non informare il comandante di Compagnia dell’accaduto.
Il giorno seguente, dopo l’alzabandiera, che ogni mattina di buon’ora caratterizzava l’inizio delle attività, con l’intero Battaglione AUC ancora perfettamente in riga, venne severamente intimato agli autori dello scherzo subito dal sergente di presentarsi fuori dallo schieramento.
Con il compagno, Evelino fece qualche passo avanti. Per il momento, il comandante si limitò a convocare i due allievi a rapporto nel suo ufficio per l’ora della libera uscita.
La sera, puntuali, i due giovani si presentarono dal loro capitano. Inaspettatamente, l’alto ufficiale, uomo di notevoli qualità, lealtà ed umanità, dopo l’inevitabile ramanzina, evitò di sanzionare i ragazzi con CPS o CPR, punizione che avrebbe potuto pregiudicare la valutazione di fine corso. Si limitò a due semplici castighi: alcuni giri di corsa dell’interminabile perimetro della caserma sotto l’attento controllo dell’ufficiale di picchetto oltre ad una intera settimana con divieto di libera uscita, rimpiazzata dal lavaggio delle marmitte e dei vassoi che venivano utilizzati per il rancio.
Poi, mentre i due ragazzi stavano uscendo dal suo ufficio, il comandante richiamò indietro l’allievo ufficiale Mattelig.
Evelino, prontamente, si girò, sbatté i tacchi, si mise sull’attenti e con tono fermo e deciso rispose: - Comandi!
E lui: - Tu, con questo cognome che termina con la ‘g’ non puoi che essere originario delle valli del Natisone in Friuli.
- Signorsì! - Rispose il ragazzo.
Lui continuò: - Ma di che paese?
Con fermezza ed orgoglio Evelino ribatté: - Di Ponteacco.
Lui aggiunse: - Ponteacco, Ponteacco… ma… di che borgo? Petrina, Corene o altro?
Stupito e meravigliato dell’appropriata domanda, guardandolo fisso negli occhi, sempre sull’attenti, Evelino rispose prontamente (del resto non saper rispondere al comandante avrebbe significato altri giri di corsa della caserma), inventandosi al momento la risposta.
Senza alcuna esitazione controbatté: - Di borgo butiga (che in dialetto sloveno significa negozio, in quanto i suoi genitori gestivano il negozio/emporio del paese).
L’ultima replica, giustamente, spettava al capitano.
Con un sorriso appena abbozzato, mise fine al divertente siparietto con poche parole: - Ma va là, va là… vai a correre con il tuo amico e fatevi passare i bollenti spiriti. E poi divertitevi in cucina a lavare le marmitte ed i vassoi!
Evelino Mattelig, al termine del corso, venne destinato a Pontebba, in provincia di Udine, alla 69a Compagnia.
Era lo stesso Reggimento, Battaglione e Compagnia cui fu assegnato il nonno Luigi, nel 1900! L’alpino Luigi Mattelig morì nel 1917, sul fronte dell’Isonzo.
CAPITOLO 11
CAPITOLO 11
REATO NON PREVISTO
Le giornate, alla scuola, si susseguivano velocemente.
Tra i ragazzi, soprattutto all’interno delle singole camerate, nascevano e si solidificavano continue amicizie.
Del resto a quell’età si sentiva forte e naturale la necessità di confrontarsi con i propri coetanei su ogni argomento e di condividere tutto quanto si fosse potuto: bevute, mangiate, letture, passioni. Marco Fioroni e Roberto Braggion si intendevano a meraviglia.
Sarà stato per il naso di Marco alla Giorgio Gaber, che a quei tempi Roberto ascoltava venticinque ore al giorno, o forse per quel suo andare dinoccolato, calmo e tranquillo in netto contrasto a quello nervoso ed agitato del Braggion, fatto sta che tra i due ragazzi nacque e si rafforzò un affiatamento sempre più marcato.
In fondo, pensava Roberto, anche fra muli ci sono sia quelli che fin dal primo momento si scalciano sia quelli che non solo convivono pacificamente, ma addirittura si fanno compagnia.
E a differenza dei muli che non potevano farlo, i due ragazzi in un primo tempo confrontarono le loro passioni e successivamente ne trovarono una in comune: la musica.
Alla prima licenza, che fu anche l'unica, si riproposero di portare ad Aosta Marco Fioroni la sua chitarra e Roberto Braggion il suo flauto traverso. Finalmente attrezzati a dovere, i due musicisti cominciarono a demolire, in qualsiasi momento fosse possibile, i timpani dei loro colleghi di camerata, santi uomini che li sopportarono stoicamente e quasi senza fiatare. Si intensificò così tra i due una sorta d’intesa che sfociò in un continuo chiacchierare.
Parlavano di tutto: morose lasciate a casa, interpretazione dei regolamenti militari, commenti sulle lezioni, rancio, fatiche del corso e via dicendo.
E poiché il tempo, in caserma, non bastava mai, considerando l’infinità di cose da fare nell’orario di addestramento ed anche oltre, Marco e Roberto trovarono una geniale soluzione per aumentare le occasioni da dedicare alla loro intesa chiacchiereccia.
Avevano il Braggion Roberto e il Fioroni Marco i letti contigui: fra i due letti però la sorte aveva deciso di allocare un doppio armadio metallico, accostato al muro. Si poteva si chiacchierare fra il momento in cui ci si coricava e il suono del silenzio, ma, dato che anche le testiere delle brande erano accostate allo stesso muro e l'armadio impediva di vedersi in viso, i ragazzi si vedevano costretti ad alzare il volume della voce.
E se il duo chitarra-flauto traverso era in qualche modo tollerato dai compagni, lo strepitio delle corde vocali non avrebbe certamente meritato uguale fortuna.
Non si sa chi tra i due allievi ebbe la geniale idea. Marco e Roberto spostarono semplicemente i cuscini nel posto dove, per volere di Dio, erano usualmente collocati i piedi e quella sera, finalmente, poterono chiacchierare di più e meglio, sottovoce per non disturbare e l’alzata del mattino arrivò più velocemente.
Come al solito la sveglia consistette in un urlo bestiale del caporale di giornata, subito dopo il suono della tromba: - Svegliaaaa!
Quel mattino l'urlo gli si smorzò in gola trasformandosi in un rantolo.
Aveva scoperto una cosa mai vista a memoria d'uomo ed inspiegabile: due allievi avevano dormito con la testa al posto dei piedi. Cosa del resto agevolmente visibile dato che questo sconvolgeva la geometria del resto della camerata.
Due teste erano contrarie rispetto alle altre otto. Erano rivolte verso il centro, verso il corridoio, le altre otto verso i rispettivi muri.
Il caporale di giornata sparì con un guizzo oltre la porta suscitando un interrogativo in tutti i componenti della camerata.
Dopo qualche secondo riapparve accompagnato questa volta dal sergente di giornata che, di queste cose, probabilmente ne sapeva ben di più dato il più alto grado.
La sentenza del sergente fu immediata: dormire con la testa al posto dei piedi non si può. Roberto Braggion e Marco Fioroni trasalirono.
Malauguratamente per lui fu Roberto a parlare per primo e ingenuamente rimarcò di ritenere che nessun regolamento militare avesse mai preso in considerazione la geolocalizzazione delle loro due teste.
Come il sergente uscì dalla camerata seguito passo passo dal caporale, con uno sguardo di odio e disprezzo nei suoi confronti da parte di entrambi, un brivido freddo corse lungo la sua schiena. Roberto provò a buttare l'occhio fuori dalla porta per vedere dove si fossero diretti.
Erano andati verso la bacheca dove usualmente venivano iscritti gli allievi comandati ai vari servizi.
Fece in tempo a vedere che il sergente scriveva qualcosa sulla bacheca: scriveva il suo nome, come comandato della settimana al servizio di mensa, dopo aver depennato l'allievo già preposto al turno, attuando così una sostituzione al volo.
A Roberto in verità non pesava più di tanto il servizio di mensa in sé stesso, ma gli dispiaceva di più il fatto che non avrebbe potuto partecipare alle esercitazioni al poligono previste per quella settimana.
Ma le disgrazie, purtroppo, non vengono mai da sole.
La mattina stessa si presentò in mensa preparandosi a passare centinaia di vassoi della colazione, pranzo e cena, posate e pentole comprese, nella macchina per lavare, dopo averli debitamente svuotati degli avanzi.
Il terrore lo assalì quando apprese che la macchina era guasta e non l'avrebbero riparata prima di una settimana.
Tutto doveva essere lavato a mano, mattina mezzogiorno e sera, per sette giorni.
Pensò che questo era sicuramente uno di quei casi previsti da una nota canzone goliardica: era meglio morire da piccoli.
CAPITOLO 12
FIDANZA, AL PERCORSO DI GUERRA!
Le prime giornate di vita in caserma proseguivano all’insegna della rigida disciplina imposta dal regolamento della scuola.
La sveglia, trombettata all’alba delle 5.30, era una specie di stilettata.
In 15 minuti bisognava essere pronti per la mezz’oretta di ginnastica.
Poi, a seconda dei severi programmi stabiliti, si procedeva nell’addestramento vero e proprio. Estenuanti esercitazioni nell’ampia corte interna per imparare a marciare ben allineati si alternavano a fondamentali lezioni in aula per apprendere le prime nozioni di strategia e di tattica militare, di topografia, di armi.
Il fucile Garand M1, con la sua immancabile baionetta, divenne il più fedele compagno di ogni allievo: si imparò a smontarlo, a rimontarlo ed a ripulirlo così che luccicasse come un prezioso monile.
Si arrivò così al giorno del primo contatto con la fatica vera.
Il programma di quella invitante e soleggiata giornata di fine luglio prevedeva infatti la lunga salita fino a Pila a quota 1.790.
Molti allievi avevano incominciato a preoccuparsi già dalla sera prima, quando erano andati a leggere in bacheca l’elenco del materiale che andava messo all'interno dello zaino.
In serata prepararono il loro fardello con tutto quanto previsto, poi lo provarono sulle spalle.
Più di kg. 20.
Qualcuno fu tentato di alleggerirlo, ma si trattenne, poiché era evidente che, se l'indomani fosse stata effettuata un'ispezione agli zaini, sarebbe stata impartita una punizione esemplare a tutti quelli che si erano ritenuti più furbi.
La mattina successiva, quella della marcia, Giuliano Secchi non era particolarmente soddisfatto. “Non c’era dubbio che le dimensioni contassero”, pensava tra sé e sé. Di fronte ad allievi alti da 1.80 a 1.95, lui si trovava sempre in difficoltà, anche nelle marce sul fondovalle. Loro, senza apparente fatica, facevano dei passi naturalmente lunghi e quelli come lui, di altezza media, arrancavano anche quando si andava da Aosta a Pollein e si tornava in caserma, percorrendo meno di dieci chilometri.
Anche quella mattina la sveglia suonò alle ore 5.30 e già alle 7.00 i baldi ragazzotti uscivano dalla caserma, con tanto di 20 kg. sulle spalle e di fucile Garand a tracolla.
Oltrepassata la periferia, imboccarono un sentiero inizialmente vicino alla strada asfaltata.
Nella prima ora di marcia non si sentì nessuno che si lamentava. Passarono vicino a Charvensod, poi il sentiero iniziò ad inerpicarsi con eccessiva pendenza, almeno per il buon Secchi, che in quei momenti desiderava non aver riempito il sacco da montagna con tutto quello che era elencato in bacheca, a rischio di essere punito.
Dopo oltre tre ore di marcia, Giuliano si sentì in forte difficoltà: non riusciva a stare subito dietro al compagno che lo precedeva ed iniziò a rimanere un po' staccato. Qualcuno cercò d'incoraggiarlo, ma lui arrancava sempre di più, finché non prese la disdicevole decisione di lasciarsi cadere per terra, come fosse svenuto. Fu subito soccorso e un sergente ACS gli chiese se avesse bisogno dell'intervento di un'autoambulanza. Al suo diniego, un allievo prese il suo fucile mentre un altro più robusto portò il suo zaino in aggiunta al proprio, dichiarando poi che l’uno era più pesante dell’altro.
Dopo questa non grave defaillance, in un’ulteriore mezz’ora di marcia l’intera Compagnia giunse al culmine della salita nelle vicinanze di Pila, dove consumò il rancio di mezzogiorno.
A tutti quelli che chiedevano a Secchi se fosse in grado di effettuare il percorso di ritorno, lui rispondeva che stava meglio e che avrebbe cercato di camminare fino all'arrivo in caserma.
Nel complesso comunque, a parte il cedimento di Giuliano, la salita alla rinomata conca valdostana si rivelò meno ostica di quanto si potesse immaginare.
Fu nella successiva discesa che si manifestarono le maggiori difficoltà, allorquando i pesanti scarponi da montagna avuti in dotazione insieme al resto dell’equipaggiamento personale furono sottoposti al primo vero, duro collaudo.
Già la consegna del materiale, soprattutto per coloro che si presentarono tra gli ultimi, aveva suscitato qualche perplessità. Un numero di scarpa in più o in meno (allora non esistevano ancora i mezzi numeri) non sembrava rappresentare differenza alcuna per il furiere addetto alla bisogna.
Non fu la stessa cosa, purtroppo, per le estremità dei ragazzi.
Durante il ritorno in caserma, infatti, i rigidi Vibram, ancora non rodati all’uso, finirono col procurare dolorose vesciche ai piedi dei tanti di loro abituati ai più comodi mocassini borghesi e non ancora avvezzi a quelle dure calzature simili a stivaletti malesi. Per di più, nella foga della discesa a rotta di collo, qualcuno scivolò pesantemente o sugli aghi di pino del sentiero o semplicemente per mancanza di equilibrio, minato dal pesante affardellamento.
Non erano ancora giunti a metà strada, quando l’allievo Gianpaolo Lupani non si sentì bene e fu chiamata d’urgenza una A.R. (autovettura da ricognizione) affinché venisse portato di tutta fretta all’infermeria della caserma.
Fu così che il conseguente ritardo di marcia di taluni, le lamentele doloranti di tanti altri ed un ‘ritiro dalla competizione’ scatenarono, al rientro in caserma, la reazione punitiva del loro comandante.
Il sole era già calato quando la prima Compagnia del 64° corso AUC, sfilacciata e lagnante, varcò il cancello d’ingresso della caserma.
I ragazzi, dei quali una buona parte risultava claudicante, furono messi in riga nel grande cortile antistante le camerate. C’era un silenzio assoluto, segno di imminente temporale.
Ruppe infatti questa quiete solo apparente un tonante ‘Mezze seghe’, rivolto alla truppa da un innominabile sergente.
Poi parlò il comandante Folegnani.
Come suo solito, fu molto parco nell’uso delle parole. Ne bastarono solo cinque.
Tex sentenziò: - Fidanza, al percorso di guerra!
Qui necessita un lungo e dettagliato inciso per descrivere nei particolari le difficoltà previste in questa originale passeggiata bellica.
Per la precisione, gli ostacoli sono 17, di foggia e dimensione diverse.
L’intero percorso misura all’incirca 450 metri.
I praticanti possono affrontare il percorso indossando la tuta ginnica o la tenuta da combattimento.
Ecco l’ordine e la denominazione degli ostacoli:
• Banchina con fosso
• Doppia trave
• Assi di equilibrio
• Gabbia di staccionate
• Spalliera orizzontale
• Riviera
• Reticolato
• Spalliera
• Palco di salita con scala di corda e tacche di invito e passaggio su fune
• Reticolato
• Macerie di abitazione
• Terreno rotto
• Castello per il salto dall’alto e muro a parete liscia verticale
• Passaggio su ceppi
• Tavola di equilibrio oscillante
• Passaggio con resistenza allo spingere
• Passaggio con resistenza al tirare
Solitamente, vengono impiegati dai 2’15”ai 3’30” per compiere l’intero percorso che è di una durezza estrema.
Alcuni ostacoli, come il palco di salita e le macerie di abitazione, soprattutto perché inseriti dopo più di un minuto di percorso, sono stronca gambe.
Inoltre, la tredicesima barriera, che prevede il superamento di un muro alto circa m. 2,50, viene affettuosamente chiamata, per la sua difficoltà, “muro del pianto”.
Da un punto di vista della tipologia dello sforzo, questa simpatica scampagnata può essere paragonata ad un ibrido tra una gara dei 400 metri ostacoli ed una dei 3.000 metri siepi, con un maggior impegno delle capacità di forza e, data la diversità degli ostacoli, con un maggior stimolo delle capacità coordinative.
Nell’effettuare il percorso di guerra, i principi base sono:
• Corretta distribuzione dello sforzo
• Superamento efficace degli ostacoli
• Passaggi radenti
• Discesa degli ostacoli con sguardo orientato all’ostacolo successivo
• Affrontare il percorso con grande volitività.
Quella decisione era veramente assurda e sproporzionata.
Ma quello che accadde successivamente a quell’ordine, fu qualcosa di assolutamente prodigioso. L’esagerata ed illogica ostinazione con la quale l’ufficiale voleva portare allo sfinimento i suoi ragazzi, finì con l’essere recepita da questi ultimi come una sfida che non poteva assolutamente essere persa.
La battaglia, se tale si poteva definire, tra i ragazzi ed i loro superiori non era più una questione di fatica - tanto, più sfiniti di così non si poteva essere - bensì una questione d’orgoglio, da vincere e basta.
Una scarica improvvisa di adrenalina, come fosse una scossa elettrica, attraversò tutti i giovani militari. Scattò tra loro un solidale e spontaneo spirito di gruppo.
Questo tacito e non concordato patto d’acciaio fece sì che ogni coppia affrontasse il percorso con la ferrea convinzione che tutti, in ogni modo, avrebbero dovuto portarlo a termine con successo e, se necessario, ci si sarebbe aiutati vicendevolmente fino alla fine.
I ragazzi, trasferitisi immediatamente alla vicina caserma Ramirez, sempre con gli stessi malaugurati e colpevoli scarponi ai piedi, si allinearono in fila per due davanti alla banchina con fosso, primo ostacolo della lunga serie.
Cominciarono le partenze, con un breve intervallo tra una coppia e la successiva.
Il sole stava calando e le prime oscurità della notte cominciavano ad avere il sopravvento sul giorno che andava a terminare.
L’ora del rancio serale era già passata e i giovanotti si chiesero se avrebbero avuto la possibilità di cenare.
Pier Giuseppe Cerri, stremato, cadde nel superamento del muro e si lussò una spalla. Rischiò, per questo incidente, di perdere il corso.
Venne poi il turno di Giorgio Colombo.
Era stremato come tutti, ma ancor più affaticato a causa della sua mole naturale, essendo lo stesso di costituzione robusta, anzi, molto robusta!
Superò faticosamente i primi 12 ostacoli finché si trovò di fronte al muro del pianto.
C’era arrivato, al muro del pianto, certamente non fresco come una rosa, ma piuttosto come uno straccio bagnato che nelle precedenti stazioni di quella inedita Via Crucis ci aveva già sputato l’anima. Per vincere quel muro liscio avrebbe dovuto, per arrivarne alla sommità, aiutarsi con la sola forza delle braccia, per poi scavalcarlo lasciandosi cadere nel retro e quindi proseguire verso l’ostacolo successivo. I suoi ripetuti sforzi si infrangevano inesorabilmente nel vano tentativo di superarlo. Giorgio, caparbiamente, provava e riprovava l’impossibile scalata, ma inesorabilmente non cavava un ragno dal buco.
Ma c’era in gioco un patto d’acciaio, Giorgio ‘doveva’ farcela!
Alle sue spalle sopraggiunsero altri compagni, tra cui Giuliano Levrero.
Forse anche grazie alla indifferente compiacenza di qualche loro sottotenente, che aveva compreso quale fosse l’unica via per porre fine a quel martirio, Giuliano e compagni si adoperarono per aiutare Colombo nella spinta liberatoria verso l’agognata sommità di quel muro. Sfinito ma esultante, Giorgio Colombo arrivò al traguardo.
Si susseguirono le partenze e gli arrivi.
Mano a mano che ogni ragazzo finiva la prova, si posizionava vicino ai compagni che avevano già portato a termine la propria fatica, fissando dritto negli occhi i superiori con aspetto fiero, quasi provocatorio, pronto a qualunque ulteriore sforzo.
Era ormai buio quando anche l’ultimo allievo concluse il suo impegnativo giro.
Rigorosamente in silenzio, come volevano i loro superiori, i ragazzi tornarono verso le loro camerate.
Finalmente riuscirono a ripulirsi, a rilassarsi, a mangiare qualcosa.
Chi vinse quel duello d’onore?
Probabilmente entrambi.
I ragazzi perché ‘ce l’avevano fatta’, il comandante Folegnani e la sua troupe di graduati perché, finalmente, vedevano trasformarsi quei coccolati bambocci di città in promettenti futuri ufficiali.
Ricordando l’episodio una quarantina d’anni dopo, è divertente notare come il fatidico muro del pianto divenne di volta in volta sempre più alto.
A parte infatti il realistico Aldo Perron (“il muro del pianto era alto circa due metri”), altre memorie storiche del gruppo si lasciarono andare a valutazioni iperboliche.
La quotazione record fu quella di Giuliano Levrero, che stimò in quattro metri l’altezza del tramezzo.
Lo riportò a più miti valutazioni Alberto Orecchia, ricordandogli che quel muro, se fosse stato alto quattro metri, non lo avrebbe e non lo avrebbero superato neppure con una scala!
Si racconta inoltre che l’allora maggiore Verunelli, comandante delle Compagnie AUC, venuto a conoscenza di quella insulsa punizione, andò su tutte le furie. Convocò all’istante il tenente Folegnani e tutta la sua corte e, alla presenza anche del capo-corso Bartolomeo Bertarione, prese in qualche modo le difese dei ragazzi, ricordando che la Scuola Militare Alpina “non era un posto per matti!”
CAPITOLO 13
MONATE! MONATE!
Diego Gasparini era arrivato ad Aosta da Codroipo, provincia di Udine.
Un giorno i suoi compagni della camerata 4 lo videro concentrato nello scrivere una lettera. Riuscirono a sbirciarne il contenuto.
Dopo i convenevoli di rito, la missiva proferiva: “La vita di caserma è durissima, il rancio immangiabile, i miei compagni di corso sopperiscono andando al ristorante tutte le sere. A me basterebbe cenare fuori un paio di volte la settimana, ma non ho soldi e mi serve un aiuto economico che, sono certo, mi giungerà al più presto. Un abbraccio, Diego”.
Le lettere, ricopiate tali e quali più volte, venivano inviate a parenti, amici e, come malignava qualcuno, anche al sindaco, al parroco e al farmacista del paese.
Dopo un paio di settimane, da Codroipo arrivavano le lettere di risposta.
Diego entrava in camerata, si sedeva sul letto e, con movimenti ostentati, apriva le buste con un tagliacarte che custodiva nell'armadietto. Poi con l'indice e il pollice, a mo' di pinza, estraeva le banconote e le riponeva nel portafoglio. Infine appallottolava busta e lettera e le buttava nel cestino, senza leggerne il contenuto.
Esaurita la prima tornata di risposte, Diego si metteva di buona lena a scrivere un'altra lettera, da ricopiare su più fogli e spedire ai benefattori: “Trascorrere la domenica in caserma è un'esperienza tristissima. I miei compagni di corso il pomeriggio vanno al cinema e, la sera, a ballare. A me basterebbe andare al cinema, ma sono al verde, ho bisogno di soldi, al più presto, prima che mi venga un esaurimento nervoso. Un abbraccio, Diego.”
Dopo un paio di settimane, dal Friuli arrivavano le risposte, in buste generose.
La terza tornata di lettere pietose riguardava il tempo: finiva l'estate, iniziava a far freddo, occorreva coprirsi di più ... e così via, con pretesti più o meno credibili che facevano breccia nel cuore di parenti e amici, prodighi nell'alleviare le sofferenze del giovane alpino, così lontano da casa.
E ancora una volta arrivavano le risposte, in ricche buste.
Come al solito Diego tirava fuori il tagliacarte dall'armadietto e con destrezza chirurgica prelevava i biglietti da cinquemila lire e li riponeva nel portafoglio. Poi, appallottolate busta e lettera, con mira precisa lanciava la pallina di carta nel cestino della spazzatura.
Un giorno un compagno di camerata, roso dall'invidia, rimproverò Diego: “Ma non ti vergogni? Non solo non rispondi alle lettere per ringraziare i tuoi parenti, ma neppure leggi le loro notizie!”. “Monate! Monate!” rispose Diego, già concentrato nell'inventare un nuovo motivo per impietosire i suoi benefattori.
Solo alcuni anni dopo il compagno di camerata Angelo Soave venne a sapere che Diego avrebbe beneficiato dell'esonero dalla leva se i suoi due fratelli maggiori avessero svolto il servizio militare.
Quelle buste, molte delle quali di provenienza paterna e fraterna, erano quindi un ringraziamento all'alpino che aveva saldato un debito con la patria per conto di tutta la sua famiglia.
CAPITOLO 14
DELL’UTILITA' DEGLI ADDESTRAMENTI INUTILI
La lunga sequela di punizioni più o meno gratuite continuò a tormentare i giovani alpini almeno per i primi due mesi di permanenza alla scuola.
Ancora imbevuti dalla concezione civile della vita quotidiana e lavorativa basata sulla certezza che ogni azione ed iniziativa avrebbe dovuto avere una logica ragione di essere, i ragazzi arrivarono al termine di una delle tante, interminabili giornate di studio ed addestramento, sia teorico che pratico.
D’improvviso vennero cortesemente informati da un caro tenente, con tono caldo, confortante, collaborativo e pieno di attenzione, che per non si sa quale malefatta di qualche allievo, avevano conquistato il diritto ad una seduta supplementare di addestramento alla marcia, ovviamente ben oltre il normale orario di tirocinio.
Arrivarono le disposizioni per l’equipaggiamento: sacco pieno in spalla, arma personale, armi di reparto, stupida in testa (chissà poi perché non si poteva almeno indossare il cappello alpino?). Naturalmente a digiuno, per essere più leggeri ed avere così meno fastidio!
Era già l’imbrunire quando i ragazzi cominciarono a marciare nel bel mezzo dell’ampio cortile. Mentre procedeva nel gruppo a passo ritmato, Stefano Benazzo aveva già dato fuoco alla miccia delle sue profonde elucubrazioni contro il mondo intero.
Ce l’aveva con il mangianastri che ripeteva senza sosta i tipici canti alpini e si chiedeva come fosse possibile che, anni dopo, li si potesse cantare con piacere e nostalgia.
Era irritato con il tenente che voleva spacciare quella inutile marcia come momento essenziale per la formazione del carattere, per il solidificarsi dello spirito di corpo, per la preparazione alle future marce, sfilate, adunate e rompimenti di righe.
Nulla di ciò, ripeteva tra sé e sé l’imbronciato Stefano: quella era una marcia esclusivamente punitiva con l’unico scopo di far valere un grado, costringendo diverse decine di uomini ad ubbidire, affinché uno solo potesse trarne una squallida soddisfazione.
Mentre la fantasia del ragazzo viaggiava lontano trasportandolo fino allo scenario di un film sulle vicende di un distaccamento della legione straniera nel deserto del Sahara, Stefano continuava a marciare come un automa, mentre in lui si alimentavano sentimenti poco cristiani e sicuramente non in sintonia con la disciplina militare, nei confronti dell’ufficiale addestratore.
Finalmente si giunse al rompete le righe.
Ma Stefano era sempre in continuo subbuglio intellettuale.
Pensava al codice penale militare ed alla inopportunità di mettere in esecuzione quanto sentiva da taluni commenti ripetuti a mezza voce dai compagni marciatori riguardo ad eventuali spedizioni punitive nei confronti dei loro superiori.
Era arrivato persino ad identificarsi con lo stato d’animo degli schiavi rematori sulle galee romane: ma loro, si autosussurrava il ragazzo, almeno erano legati e quindi era inutile illudersi che potessero sopraffare il capo della ciurma.
I ragazzi quasi a malincuore lasciarono il cortile che solo per poco non si era trasformato in luogo di un efferato delitto e si avviarono verso le palazzine. In un modo o nell’altro, affamati (e la mensa era ovviamente già chiusa) e delicatamente irritati, gli AUC ritornarono nelle loro camerate.
E fu a questo punto che uno di loro, dopo essersi rallegrato di non correre più il rischio di strozzare il superiore, scaricò il proprio rancore con un unico pugno, molto, ma molto ben assestato, contro il vicino armadietto metallico, per quell’istante trasfiguratosi nella figura del malvagio tenente.
L’armadio fu letteralmente distrutto.
Si aprì in sei parti: fondo, soffitto, tre pareti, sportello anteriore, oltre ai ripiani interni.
Un rumore infernale accompagnò tutte le ferraglie che rimbalzavano sul pavimento.
L’indomani mattina il giovane pugile, dopo una notte insonne a causa di un continuo dolore alla mano responsabile del malfatto, si presentò in ospedale per una visita di controllo.
Niente di grave fu il responso sanitario, ma un ossicino della mano si era fratturato e fu necessaria una piccola ingessatura da portare per tre settimane.
Tutt’altro che preoccupato il ragazzo, tornato in camerata, rivolse un grato pensiero al ricomposto armadietto, che suo malgrado si era prestato a fungere da capro espiatorio, evitandogli così un lungo soggiorno al carcere militare di Peschiera per aggressione ad un superiore, con le aggravanti di lesioni volontarie e tentato omicidio.
Le giornate, alla scuola, si susseguivano velocemente.
Tra i ragazzi, soprattutto all’interno delle singole camerate, nascevano e si solidificavano continue amicizie.
Del resto a quell’età si sentiva forte e naturale la necessità di confrontarsi con i propri coetanei su ogni argomento e di condividere tutto quanto si fosse potuto: bevute, mangiate, letture, passioni. Marco Fioroni e Roberto Braggion si intendevano a meraviglia.
Sarà stato per il naso di Marco alla Giorgio Gaber, che a quei tempi Roberto ascoltava venticinque ore al giorno, o forse per quel suo andare dinoccolato, calmo e tranquillo in netto contrasto a quello nervoso ed agitato del Braggion, fatto sta che tra i due ragazzi nacque e si rafforzò un affiatamento sempre più marcato.
In fondo, pensava Roberto, anche fra muli ci sono sia quelli che fin dal primo momento si scalciano sia quelli che non solo convivono pacificamente, ma addirittura si fanno compagnia.
E a differenza dei muli che non potevano farlo, i due ragazzi in un primo tempo confrontarono le loro passioni e successivamente ne trovarono una in comune: la musica.
Alla prima licenza, che fu anche l'unica, si riproposero di portare ad Aosta Marco Fioroni la sua chitarra e Roberto Braggion il suo flauto traverso. Finalmente attrezzati a dovere, i due musicisti cominciarono a demolire, in qualsiasi momento fosse possibile, i timpani dei loro colleghi di camerata, santi uomini che li sopportarono stoicamente e quasi senza fiatare. Si intensificò così tra i due una sorta d’intesa che sfociò in un continuo chiacchierare.
Parlavano di tutto: morose lasciate a casa, interpretazione dei regolamenti militari, commenti sulle lezioni, rancio, fatiche del corso e via dicendo.
E poiché il tempo, in caserma, non bastava mai, considerando l’infinità di cose da fare nell’orario di addestramento ed anche oltre, Marco e Roberto trovarono una geniale soluzione per aumentare le occasioni da dedicare alla loro intesa chiacchiereccia.
Avevano il Braggion Roberto e il Fioroni Marco i letti contigui: fra i due letti però la sorte aveva deciso di allocare un doppio armadio metallico, accostato al muro. Si poteva si chiacchierare fra il momento in cui ci si coricava e il suono del silenzio, ma, dato che anche le testiere delle brande erano accostate allo stesso muro e l'armadio impediva di vedersi in viso, i ragazzi si vedevano costretti ad alzare il volume della voce.
E se il duo chitarra-flauto traverso era in qualche modo tollerato dai compagni, lo strepitio delle corde vocali non avrebbe certamente meritato uguale fortuna.
Non si sa chi tra i due allievi ebbe la geniale idea. Marco e Roberto spostarono semplicemente i cuscini nel posto dove, per volere di Dio, erano usualmente collocati i piedi e quella sera, finalmente, poterono chiacchierare di più e meglio, sottovoce per non disturbare e l’alzata del mattino arrivò più velocemente.
Come al solito la sveglia consistette in un urlo bestiale del caporale di giornata, subito dopo il suono della tromba: - Svegliaaaa!
Quel mattino l'urlo gli si smorzò in gola trasformandosi in un rantolo.
Aveva scoperto una cosa mai vista a memoria d'uomo ed inspiegabile: due allievi avevano dormito con la testa al posto dei piedi. Cosa del resto agevolmente visibile dato che questo sconvolgeva la geometria del resto della camerata.
Due teste erano contrarie rispetto alle altre otto. Erano rivolte verso il centro, verso il corridoio, le altre otto verso i rispettivi muri.
Il caporale di giornata sparì con un guizzo oltre la porta suscitando un interrogativo in tutti i componenti della camerata.
Dopo qualche secondo riapparve accompagnato questa volta dal sergente di giornata che, di queste cose, probabilmente ne sapeva ben di più dato il più alto grado.
La sentenza del sergente fu immediata: dormire con la testa al posto dei piedi non si può. Roberto Braggion e Marco Fioroni trasalirono.
Malauguratamente per lui fu Roberto a parlare per primo e ingenuamente rimarcò di ritenere che nessun regolamento militare avesse mai preso in considerazione la geolocalizzazione delle loro due teste.
Come il sergente uscì dalla camerata seguito passo passo dal caporale, con uno sguardo di odio e disprezzo nei suoi confronti da parte di entrambi, un brivido freddo corse lungo la sua schiena. Roberto provò a buttare l'occhio fuori dalla porta per vedere dove si fossero diretti.
Erano andati verso la bacheca dove usualmente venivano iscritti gli allievi comandati ai vari servizi.
Fece in tempo a vedere che il sergente scriveva qualcosa sulla bacheca: scriveva il suo nome, come comandato della settimana al servizio di mensa, dopo aver depennato l'allievo già preposto al turno, attuando così una sostituzione al volo.
A Roberto in verità non pesava più di tanto il servizio di mensa in sé stesso, ma gli dispiaceva di più il fatto che non avrebbe potuto partecipare alle esercitazioni al poligono previste per quella settimana.
Ma le disgrazie, purtroppo, non vengono mai da sole.
La mattina stessa si presentò in mensa preparandosi a passare centinaia di vassoi della colazione, pranzo e cena, posate e pentole comprese, nella macchina per lavare, dopo averli debitamente svuotati degli avanzi.
Il terrore lo assalì quando apprese che la macchina era guasta e non l'avrebbero riparata prima di una settimana.
Tutto doveva essere lavato a mano, mattina mezzogiorno e sera, per sette giorni.
Pensò che questo era sicuramente uno di quei casi previsti da una nota canzone goliardica: era meglio morire da piccoli.
CAPITOLO 12
FIDANZA, AL PERCORSO DI GUERRA!
Le prime giornate di vita in caserma proseguivano all’insegna della rigida disciplina imposta dal regolamento della scuola.
La sveglia, trombettata all’alba delle 5.30, era una specie di stilettata.
In 15 minuti bisognava essere pronti per la mezz’oretta di ginnastica.
Poi, a seconda dei severi programmi stabiliti, si procedeva nell’addestramento vero e proprio. Estenuanti esercitazioni nell’ampia corte interna per imparare a marciare ben allineati si alternavano a fondamentali lezioni in aula per apprendere le prime nozioni di strategia e di tattica militare, di topografia, di armi.
Il fucile Garand M1, con la sua immancabile baionetta, divenne il più fedele compagno di ogni allievo: si imparò a smontarlo, a rimontarlo ed a ripulirlo così che luccicasse come un prezioso monile.
Si arrivò così al giorno del primo contatto con la fatica vera.
Il programma di quella invitante e soleggiata giornata di fine luglio prevedeva infatti la lunga salita fino a Pila a quota 1.790.
Molti allievi avevano incominciato a preoccuparsi già dalla sera prima, quando erano andati a leggere in bacheca l’elenco del materiale che andava messo all'interno dello zaino.
In serata prepararono il loro fardello con tutto quanto previsto, poi lo provarono sulle spalle.
Più di kg. 20.
Qualcuno fu tentato di alleggerirlo, ma si trattenne, poiché era evidente che, se l'indomani fosse stata effettuata un'ispezione agli zaini, sarebbe stata impartita una punizione esemplare a tutti quelli che si erano ritenuti più furbi.
La mattina successiva, quella della marcia, Giuliano Secchi non era particolarmente soddisfatto. “Non c’era dubbio che le dimensioni contassero”, pensava tra sé e sé. Di fronte ad allievi alti da 1.80 a 1.95, lui si trovava sempre in difficoltà, anche nelle marce sul fondovalle. Loro, senza apparente fatica, facevano dei passi naturalmente lunghi e quelli come lui, di altezza media, arrancavano anche quando si andava da Aosta a Pollein e si tornava in caserma, percorrendo meno di dieci chilometri.
Anche quella mattina la sveglia suonò alle ore 5.30 e già alle 7.00 i baldi ragazzotti uscivano dalla caserma, con tanto di 20 kg. sulle spalle e di fucile Garand a tracolla.
Oltrepassata la periferia, imboccarono un sentiero inizialmente vicino alla strada asfaltata.
Nella prima ora di marcia non si sentì nessuno che si lamentava. Passarono vicino a Charvensod, poi il sentiero iniziò ad inerpicarsi con eccessiva pendenza, almeno per il buon Secchi, che in quei momenti desiderava non aver riempito il sacco da montagna con tutto quello che era elencato in bacheca, a rischio di essere punito.
Salendo verso Pila, a quota 1.790
Dopo oltre tre ore di marcia, Giuliano si sentì in forte difficoltà: non riusciva a stare subito dietro al compagno che lo precedeva ed iniziò a rimanere un po' staccato. Qualcuno cercò d'incoraggiarlo, ma lui arrancava sempre di più, finché non prese la disdicevole decisione di lasciarsi cadere per terra, come fosse svenuto. Fu subito soccorso e un sergente ACS gli chiese se avesse bisogno dell'intervento di un'autoambulanza. Al suo diniego, un allievo prese il suo fucile mentre un altro più robusto portò il suo zaino in aggiunta al proprio, dichiarando poi che l’uno era più pesante dell’altro.
Dopo questa non grave defaillance, in un’ulteriore mezz’ora di marcia l’intera Compagnia giunse al culmine della salita nelle vicinanze di Pila, dove consumò il rancio di mezzogiorno.
A Pila, in attesa del rancio. In piedi: Giuliano Colorio, Aldo Perron, Sandro Bazurro, Giovanni Pasquino. Inginocchati: Ernesto Brociero, Angelo Rossi.
A tutti quelli che chiedevano a Secchi se fosse in grado di effettuare il percorso di ritorno, lui rispondeva che stava meglio e che avrebbe cercato di camminare fino all'arrivo in caserma.
Nel complesso comunque, a parte il cedimento di Giuliano, la salita alla rinomata conca valdostana si rivelò meno ostica di quanto si potesse immaginare.
Fu nella successiva discesa che si manifestarono le maggiori difficoltà, allorquando i pesanti scarponi da montagna avuti in dotazione insieme al resto dell’equipaggiamento personale furono sottoposti al primo vero, duro collaudo.
Già la consegna del materiale, soprattutto per coloro che si presentarono tra gli ultimi, aveva suscitato qualche perplessità. Un numero di scarpa in più o in meno (allora non esistevano ancora i mezzi numeri) non sembrava rappresentare differenza alcuna per il furiere addetto alla bisogna.
Non fu la stessa cosa, purtroppo, per le estremità dei ragazzi.
Durante il ritorno in caserma, infatti, i rigidi Vibram, ancora non rodati all’uso, finirono col procurare dolorose vesciche ai piedi dei tanti di loro abituati ai più comodi mocassini borghesi e non ancora avvezzi a quelle dure calzature simili a stivaletti malesi. Per di più, nella foga della discesa a rotta di collo, qualcuno scivolò pesantemente o sugli aghi di pino del sentiero o semplicemente per mancanza di equilibrio, minato dal pesante affardellamento.
Non erano ancora giunti a metà strada, quando l’allievo Gianpaolo Lupani non si sentì bene e fu chiamata d’urgenza una A.R. (autovettura da ricognizione) affinché venisse portato di tutta fretta all’infermeria della caserma.
Fu così che il conseguente ritardo di marcia di taluni, le lamentele doloranti di tanti altri ed un ‘ritiro dalla competizione’ scatenarono, al rientro in caserma, la reazione punitiva del loro comandante.
Il sole era già calato quando la prima Compagnia del 64° corso AUC, sfilacciata e lagnante, varcò il cancello d’ingresso della caserma.
I ragazzi, dei quali una buona parte risultava claudicante, furono messi in riga nel grande cortile antistante le camerate. C’era un silenzio assoluto, segno di imminente temporale.
Ruppe infatti questa quiete solo apparente un tonante ‘Mezze seghe’, rivolto alla truppa da un innominabile sergente.
Poi parlò il comandante Folegnani.
Come suo solito, fu molto parco nell’uso delle parole. Ne bastarono solo cinque.
Tex sentenziò: - Fidanza, al percorso di guerra!
Qui necessita un lungo e dettagliato inciso per descrivere nei particolari le difficoltà previste in questa originale passeggiata bellica.
Per la precisione, gli ostacoli sono 17, di foggia e dimensione diverse.
L’intero percorso misura all’incirca 450 metri.
I praticanti possono affrontare il percorso indossando la tuta ginnica o la tenuta da combattimento.
Esempio di campo di addestramento ginnico sportivo militare
Ecco l’ordine e la denominazione degli ostacoli:
• Banchina con fosso
• Doppia trave
• Assi di equilibrio
• Gabbia di staccionate
• Spalliera orizzontale
• Riviera
• Reticolato
• Spalliera
• Palco di salita con scala di corda e tacche di invito e passaggio su fune
• Reticolato
• Macerie di abitazione
• Terreno rotto
• Castello per il salto dall’alto e muro a parete liscia verticale
• Passaggio su ceppi
• Tavola di equilibrio oscillante
• Passaggio con resistenza allo spingere
• Passaggio con resistenza al tirare
Solitamente, vengono impiegati dai 2’15”ai 3’30” per compiere l’intero percorso che è di una durezza estrema.
Alcuni ostacoli, come il palco di salita e le macerie di abitazione, soprattutto perché inseriti dopo più di un minuto di percorso, sono stronca gambe.
Inoltre, la tredicesima barriera, che prevede il superamento di un muro alto circa m. 2,50, viene affettuosamente chiamata, per la sua difficoltà, “muro del pianto”.
Da un punto di vista della tipologia dello sforzo, questa simpatica scampagnata può essere paragonata ad un ibrido tra una gara dei 400 metri ostacoli ed una dei 3.000 metri siepi, con un maggior impegno delle capacità di forza e, data la diversità degli ostacoli, con un maggior stimolo delle capacità coordinative.
Nell’effettuare il percorso di guerra, i principi base sono:
• Corretta distribuzione dello sforzo
• Superamento efficace degli ostacoli
• Passaggi radenti
• Discesa degli ostacoli con sguardo orientato all’ostacolo successivo
• Affrontare il percorso con grande volitività.
Quella decisione era veramente assurda e sproporzionata.
Ma quello che accadde successivamente a quell’ordine, fu qualcosa di assolutamente prodigioso. L’esagerata ed illogica ostinazione con la quale l’ufficiale voleva portare allo sfinimento i suoi ragazzi, finì con l’essere recepita da questi ultimi come una sfida che non poteva assolutamente essere persa.
La battaglia, se tale si poteva definire, tra i ragazzi ed i loro superiori non era più una questione di fatica - tanto, più sfiniti di così non si poteva essere - bensì una questione d’orgoglio, da vincere e basta.
Una scarica improvvisa di adrenalina, come fosse una scossa elettrica, attraversò tutti i giovani militari. Scattò tra loro un solidale e spontaneo spirito di gruppo.
Questo tacito e non concordato patto d’acciaio fece sì che ogni coppia affrontasse il percorso con la ferrea convinzione che tutti, in ogni modo, avrebbero dovuto portarlo a termine con successo e, se necessario, ci si sarebbe aiutati vicendevolmente fino alla fine.
Tecnica di discesa dal muro
I ragazzi, trasferitisi immediatamente alla vicina caserma Ramirez, sempre con gli stessi malaugurati e colpevoli scarponi ai piedi, si allinearono in fila per due davanti alla banchina con fosso, primo ostacolo della lunga serie.
Cominciarono le partenze, con un breve intervallo tra una coppia e la successiva.
Il sole stava calando e le prime oscurità della notte cominciavano ad avere il sopravvento sul giorno che andava a terminare.
L’ora del rancio serale era già passata e i giovanotti si chiesero se avrebbero avuto la possibilità di cenare.
Pier Giuseppe Cerri, stremato, cadde nel superamento del muro e si lussò una spalla. Rischiò, per questo incidente, di perdere il corso.
Giorgio Colombo
Venne poi il turno di Giorgio Colombo.
Era stremato come tutti, ma ancor più affaticato a causa della sua mole naturale, essendo lo stesso di costituzione robusta, anzi, molto robusta!
Superò faticosamente i primi 12 ostacoli finché si trovò di fronte al muro del pianto.
C’era arrivato, al muro del pianto, certamente non fresco come una rosa, ma piuttosto come uno straccio bagnato che nelle precedenti stazioni di quella inedita Via Crucis ci aveva già sputato l’anima. Per vincere quel muro liscio avrebbe dovuto, per arrivarne alla sommità, aiutarsi con la sola forza delle braccia, per poi scavalcarlo lasciandosi cadere nel retro e quindi proseguire verso l’ostacolo successivo. I suoi ripetuti sforzi si infrangevano inesorabilmente nel vano tentativo di superarlo. Giorgio, caparbiamente, provava e riprovava l’impossibile scalata, ma inesorabilmente non cavava un ragno dal buco.
Ma c’era in gioco un patto d’acciaio, Giorgio ‘doveva’ farcela!
Alle sue spalle sopraggiunsero altri compagni, tra cui Giuliano Levrero.
Forse anche grazie alla indifferente compiacenza di qualche loro sottotenente, che aveva compreso quale fosse l’unica via per porre fine a quel martirio, Giuliano e compagni si adoperarono per aiutare Colombo nella spinta liberatoria verso l’agognata sommità di quel muro. Sfinito ma esultante, Giorgio Colombo arrivò al traguardo.
Si susseguirono le partenze e gli arrivi.
Mano a mano che ogni ragazzo finiva la prova, si posizionava vicino ai compagni che avevano già portato a termine la propria fatica, fissando dritto negli occhi i superiori con aspetto fiero, quasi provocatorio, pronto a qualunque ulteriore sforzo.
Era ormai buio quando anche l’ultimo allievo concluse il suo impegnativo giro.
Rigorosamente in silenzio, come volevano i loro superiori, i ragazzi tornarono verso le loro camerate.
Finalmente riuscirono a ripulirsi, a rilassarsi, a mangiare qualcosa.
Chi vinse quel duello d’onore?
Probabilmente entrambi.
I ragazzi perché ‘ce l’avevano fatta’, il comandante Folegnani e la sua troupe di graduati perché, finalmente, vedevano trasformarsi quei coccolati bambocci di città in promettenti futuri ufficiali.
Ricordando l’episodio una quarantina d’anni dopo, è divertente notare come il fatidico muro del pianto divenne di volta in volta sempre più alto.
A parte infatti il realistico Aldo Perron (“il muro del pianto era alto circa due metri”), altre memorie storiche del gruppo si lasciarono andare a valutazioni iperboliche.
La quotazione record fu quella di Giuliano Levrero, che stimò in quattro metri l’altezza del tramezzo.
Lo riportò a più miti valutazioni Alberto Orecchia, ricordandogli che quel muro, se fosse stato alto quattro metri, non lo avrebbe e non lo avrebbero superato neppure con una scala!
Si racconta inoltre che l’allora maggiore Verunelli, comandante delle Compagnie AUC, venuto a conoscenza di quella insulsa punizione, andò su tutte le furie. Convocò all’istante il tenente Folegnani e tutta la sua corte e, alla presenza anche del capo-corso Bartolomeo Bertarione, prese in qualche modo le difese dei ragazzi, ricordando che la Scuola Militare Alpina “non era un posto per matti!”
Il comandante Giovanni Folegnani
CAPITOLO 13
MONATE! MONATE!
Diego Gasparini era arrivato ad Aosta da Codroipo, provincia di Udine.
Un giorno i suoi compagni della camerata 4 lo videro concentrato nello scrivere una lettera. Riuscirono a sbirciarne il contenuto.
Dopo i convenevoli di rito, la missiva proferiva: “La vita di caserma è durissima, il rancio immangiabile, i miei compagni di corso sopperiscono andando al ristorante tutte le sere. A me basterebbe cenare fuori un paio di volte la settimana, ma non ho soldi e mi serve un aiuto economico che, sono certo, mi giungerà al più presto. Un abbraccio, Diego”.
Le lettere, ricopiate tali e quali più volte, venivano inviate a parenti, amici e, come malignava qualcuno, anche al sindaco, al parroco e al farmacista del paese.
Dopo un paio di settimane, da Codroipo arrivavano le lettere di risposta.
Diego entrava in camerata, si sedeva sul letto e, con movimenti ostentati, apriva le buste con un tagliacarte che custodiva nell'armadietto. Poi con l'indice e il pollice, a mo' di pinza, estraeva le banconote e le riponeva nel portafoglio. Infine appallottolava busta e lettera e le buttava nel cestino, senza leggerne il contenuto.
Esaurita la prima tornata di risposte, Diego si metteva di buona lena a scrivere un'altra lettera, da ricopiare su più fogli e spedire ai benefattori: “Trascorrere la domenica in caserma è un'esperienza tristissima. I miei compagni di corso il pomeriggio vanno al cinema e, la sera, a ballare. A me basterebbe andare al cinema, ma sono al verde, ho bisogno di soldi, al più presto, prima che mi venga un esaurimento nervoso. Un abbraccio, Diego.”
Dopo un paio di settimane, dal Friuli arrivavano le risposte, in buste generose.
La terza tornata di lettere pietose riguardava il tempo: finiva l'estate, iniziava a far freddo, occorreva coprirsi di più ... e così via, con pretesti più o meno credibili che facevano breccia nel cuore di parenti e amici, prodighi nell'alleviare le sofferenze del giovane alpino, così lontano da casa.
E ancora una volta arrivavano le risposte, in ricche buste.
Come al solito Diego tirava fuori il tagliacarte dall'armadietto e con destrezza chirurgica prelevava i biglietti da cinquemila lire e li riponeva nel portafoglio. Poi, appallottolate busta e lettera, con mira precisa lanciava la pallina di carta nel cestino della spazzatura.
Un giorno un compagno di camerata, roso dall'invidia, rimproverò Diego: “Ma non ti vergogni? Non solo non rispondi alle lettere per ringraziare i tuoi parenti, ma neppure leggi le loro notizie!”. “Monate! Monate!” rispose Diego, già concentrato nell'inventare un nuovo motivo per impietosire i suoi benefattori.
Solo alcuni anni dopo il compagno di camerata Angelo Soave venne a sapere che Diego avrebbe beneficiato dell'esonero dalla leva se i suoi due fratelli maggiori avessero svolto il servizio militare.
Quelle buste, molte delle quali di provenienza paterna e fraterna, erano quindi un ringraziamento all'alpino che aveva saldato un debito con la patria per conto di tutta la sua famiglia.
CAPITOLO 14
DELL’UTILITA' DEGLI ADDESTRAMENTI INUTILI
La lunga sequela di punizioni più o meno gratuite continuò a tormentare i giovani alpini almeno per i primi due mesi di permanenza alla scuola.
Ancora imbevuti dalla concezione civile della vita quotidiana e lavorativa basata sulla certezza che ogni azione ed iniziativa avrebbe dovuto avere una logica ragione di essere, i ragazzi arrivarono al termine di una delle tante, interminabili giornate di studio ed addestramento, sia teorico che pratico.
D’improvviso vennero cortesemente informati da un caro tenente, con tono caldo, confortante, collaborativo e pieno di attenzione, che per non si sa quale malefatta di qualche allievo, avevano conquistato il diritto ad una seduta supplementare di addestramento alla marcia, ovviamente ben oltre il normale orario di tirocinio.
Arrivarono le disposizioni per l’equipaggiamento: sacco pieno in spalla, arma personale, armi di reparto, stupida in testa (chissà poi perché non si poteva almeno indossare il cappello alpino?). Naturalmente a digiuno, per essere più leggeri ed avere così meno fastidio!
Era già l’imbrunire quando i ragazzi cominciarono a marciare nel bel mezzo dell’ampio cortile. Mentre procedeva nel gruppo a passo ritmato, Stefano Benazzo aveva già dato fuoco alla miccia delle sue profonde elucubrazioni contro il mondo intero.
Ce l’aveva con il mangianastri che ripeteva senza sosta i tipici canti alpini e si chiedeva come fosse possibile che, anni dopo, li si potesse cantare con piacere e nostalgia.
Era irritato con il tenente che voleva spacciare quella inutile marcia come momento essenziale per la formazione del carattere, per il solidificarsi dello spirito di corpo, per la preparazione alle future marce, sfilate, adunate e rompimenti di righe.
Nulla di ciò, ripeteva tra sé e sé l’imbronciato Stefano: quella era una marcia esclusivamente punitiva con l’unico scopo di far valere un grado, costringendo diverse decine di uomini ad ubbidire, affinché uno solo potesse trarne una squallida soddisfazione.
Mentre la fantasia del ragazzo viaggiava lontano trasportandolo fino allo scenario di un film sulle vicende di un distaccamento della legione straniera nel deserto del Sahara, Stefano continuava a marciare come un automa, mentre in lui si alimentavano sentimenti poco cristiani e sicuramente non in sintonia con la disciplina militare, nei confronti dell’ufficiale addestratore.
Finalmente si giunse al rompete le righe.
Ma Stefano era sempre in continuo subbuglio intellettuale.
Pensava al codice penale militare ed alla inopportunità di mettere in esecuzione quanto sentiva da taluni commenti ripetuti a mezza voce dai compagni marciatori riguardo ad eventuali spedizioni punitive nei confronti dei loro superiori.
Era arrivato persino ad identificarsi con lo stato d’animo degli schiavi rematori sulle galee romane: ma loro, si autosussurrava il ragazzo, almeno erano legati e quindi era inutile illudersi che potessero sopraffare il capo della ciurma.
I ragazzi quasi a malincuore lasciarono il cortile che solo per poco non si era trasformato in luogo di un efferato delitto e si avviarono verso le palazzine. In un modo o nell’altro, affamati (e la mensa era ovviamente già chiusa) e delicatamente irritati, gli AUC ritornarono nelle loro camerate.
E fu a questo punto che uno di loro, dopo essersi rallegrato di non correre più il rischio di strozzare il superiore, scaricò il proprio rancore con un unico pugno, molto, ma molto ben assestato, contro il vicino armadietto metallico, per quell’istante trasfiguratosi nella figura del malvagio tenente.
L’armadio fu letteralmente distrutto.
Si aprì in sei parti: fondo, soffitto, tre pareti, sportello anteriore, oltre ai ripiani interni.
Un rumore infernale accompagnò tutte le ferraglie che rimbalzavano sul pavimento.
L’indomani mattina il giovane pugile, dopo una notte insonne a causa di un continuo dolore alla mano responsabile del malfatto, si presentò in ospedale per una visita di controllo.
Niente di grave fu il responso sanitario, ma un ossicino della mano si era fratturato e fu necessaria una piccola ingessatura da portare per tre settimane.
Tutt’altro che preoccupato il ragazzo, tornato in camerata, rivolse un grato pensiero al ricomposto armadietto, che suo malgrado si era prestato a fungere da capro espiatorio, evitandogli così un lungo soggiorno al carcere militare di Peschiera per aggressione ad un superiore, con le aggravanti di lesioni volontarie e tentato omicidio.
Camerata 18: mortaisti da 120. In alto da sinistra: Casini, Pighetti, Conconi, Furlan.
In basso da sinistra: Zordan, Forni, Benazzo, Lorenzi, Terreran, Foglia.
Manca Viarengo (forse era il fotografo)
CAPITOLO
15
RAMAZZE E BIDONI
Che i servizi di caserma
fossero cosa sempre poco gradita, era più che risaputo.
Due ne erano le cause
fondamentali.
La prima risiedeva nel
servizio in sé. Pulire i cessi, scopare il cortile, tirare a cera i pavimenti,
sistemare gli avanzi dei pranzi e delle cene e così via non era il massimo cui
potesse ambire un futuro sottotenente.
La seconda era invece
collegata al pericolo latente di incorrere in punizione qualora la mansione
affidata non venisse portata a termine alla perfezione, considerato che la
valutazione di buona o cattiva esecuzione era affidata esclusivamente agli
umori del momento dei superiori incaricati al controllo.
A Giuliano Levrero ed a
Mario Lorenzi, compagni di camerata alla numero 5, capitò più volte di essere
di servizio alle pulizie della palazzina AUC.
Si trattava di un compito
gravoso, impegnativo e ad alto rischio di sanzione. Molto sovente infatti i
colleghi che avevano operato in precedenza erano state vittime di severe
punizioni.
Per questo motivo
Giuliano e Mario erano ossessionati dalla pulizia del pavimento dei corridoi.
Non appena avevano sentore di un minimo movimento si allarmavano: si armavano
di secchiello, spazzola e straccio ed accorrevano per controllare chi fosse
entrato in corridoio a zampettare sul lavoro appena eseguito e provvedevano
all’istante a ripulire quanto appena lavato!
Se ad infrangere il
brillio dell’androne erano stati i colleghi allievi, i due occasionali bidelli
si incazzavano come iene.
In modo ben diverso si
comportavano, obtorto collo, se a percorrere quell’infausta corsia era qualche
superiore.
A guisa di Fantozzi, i
due scattavano sull’attenti per porgere il saluto, fermi e rigidi come le scope
che tenevano tra le mani: poi seguivano i graduati quasi come cagnolini per
togliere qualsiasi traccia fosse lasciata dai loro scarponi.
Ai due ragazzi veniva
quasi la paranoia. Specialmente Lorenzi era il più inquieto, perché una
punizione gli avrebbe comportato la rinuncia alla prossima fuga ad Ivrea, dove
abitava la sua dolce metà.
La pulizia
delle camerate alla Smalp
Successivamente alla
pulizia delle palazzine, allo sfortunato Giuliano venne anche assegnato il
servizio di mensa per le normali operazioni di ripulitura: lavaggio dei vassoi
da inserire nella macchina lavastoviglie (dall’odore nauseabondo, per di più
misto a quello del detersivo), scopare e lavare i pavimenti (ed in questo
compito Giuliano si era già dimostrato un esperto), raccogliere ed inserire in
appositi bidoni la risultanza degli avanzi di cena.
In particolare gli
avanzi venivano versati in appositi bidoni che la mattina seguente sarebbero
stati riversati nei contenitori di un privato che li ritirava per i suoi
maiali.
Nel frattempo questi
grossi recipienti, pieni a volte di liquame gelatinoso che dal colore poteva
ricordare anche la conseguenza di una bella sbronza, a lavoro terminato
dovevano essere trasportati ben pieni in un apposito locale non molto distante
dalle cucine e sempre aperto forse per restare ben arieggiato.
… fortunatamente,
detti bidoni odorosi possedevano due maniglie …
Fortunatamente detti
bidoni odorosi possedevano due maniglie ai lati per cui tre persone riuscivano
a trasportarne due anche se con una certa fatica; in questo modo comunque si
riusciva a terminare l'ingrato compito più in fretta.
Quella sera anche
Aldo Gianoli, assieme appunto a Giuliano, faceva parte del gruppo di aiuto
cucinieri.
Andò tutto liscio
sino al riempimento dei bidoni; andò meno bene quando si trattò di trasportarli
nel locale arieggiato. Aldo, finché i grossi barili erano pieni di roba solida,
si sforzava di eseguire diligentemente le consegne, anche se aveva già dato
cenno a qualche avvisaglia di nausea che preludeva a ben altro.
Poi venne il momento
dei liquami. A quel punto la nausea si
tramutò in conati.
Giuliano si offriva
di sostituirlo, ma Aldo assolutamente non voleva; alla ripetuta insistenza del
compagno dopo qualche tempo Aldo acconsentì.
L’opera fu alla fine
portata a compimento con grande fatica sia fisica che … digestiva.
P.S.: Per i lavori
in mensa si usava la tuta mimetica. Il giorno successivo chiunque fosse nei
paraggi dei due ragazzi, anche non sapendo dove avessero prestato servizio il
giorno precedente, immediatamente capiva. La sgradevole 'fragranza' perdurò per
giorni ... specialmente nei loro armadietto a fianco del letto.
CAPITOLO 16
IL GIURAMENTO
Finalmente giunse il 29
agosto dell'anno domini 1971: mancavano 116 giorni al termine del 64° Corso AUC
e ne erano passati ben 55 dall'arrivo alla caserma Cesare Battisti di Aosta.
La prima compagnia AUC
prestava il suo Giuramento di Fedeltà alla Patria.
Così come la Cresima
trasformava il credente in soldato di Cristo, così con il Giuramento il
cittadino diventava soldato della Patria.
Un grande evento, per il
quale gli allievi si erano a lungo preparati nei minimi dettagli.
Almeno 50 giorni di
addestramento formale, sotto il cocente sole di luglio ed agosto, con la
camicia di flanella addosso, perché bisognava soffrire, bisognava ‘trovare
lungo’, chissà poi perché. La cosa andò avanti un bel po' di tempo, finché in
un giorno particolarmente afoso un ufficiale si accorse di ciò e disse al
caporal maggiore A.C.S. che conduceva l'addestramento: “Ma facciamo indossare
una camicia di tela a questi ragazzi o mi si sciolgono!”
Fu così che con un minimo
di sale in zucca, tutto filò per il meglio e la cosa divenne oltre che
sopportabile persino divertente, se non fosse stato per quei benedetti
scarponi, ormai perfettamente anneriti dalle numerose passate di lucido nero,
da marroni che erano alla consegna, ma ancora maledettamente coriacei,
nonostante ogni sforzo per ammorbidirli ed adattarli al piede che li calzava.
Sarà stata l'età, ma i
ragazzi riuscivano a sorridere di tutto, anche nei momenti più bui e tristi,
aiutandosi a volte con il lancio di moccoli nei confronti dei superiori e verso
l'incolpevole Creatore: in quest'ultimo caso la Santa Messa della domenica e la
bontà del Divin Padre avrebbero sanato tutto.
Provarono infinite volte
l'ammassamento, la forma di schieramento di maggiore effetto spettacolare. Il
sistema consisteva in questo: gli allievi venivano raggruppati in prossimità
della piazza d'armi, ove si svolgeva la cerimonia. Poi ad uno squillo di
tromba, via di corsa, come tori impazziti alla festa di san Firmino a Pamplona,
per trovarsi in un batter d'occhio perfettamente allineati e coperti in blocchi
compatti, squadrati, piallati.
Ovviamente questa carica
da mucchio selvaggio di un mezzo migliaio di scarponi presentava possibili e
rischiosi contrattempi, con i più alti che rischiavano di sopravanzare i più
piccoli che li precedevano, costretti a loro volta ad accelerare la corsa per
evitare di essere travolti.
Gli esperti scenografi
della scuola non ebbero alcun dubbio ad orientarsi sulla temeraria tecnica
dell’ammassamento, preferendola al più tranquillo e collaudato arrivo marciando
perfettamente allineati.
Dallo squillo di tromba
al perfetto allineamento trascorsero soltanto 27 secondi!
L’ammassamento
Ad oltre 45 anni dall’evento, tre
differenti versioni si scontrarono sulla modalità di arrivo degli allievi sul grande
piazzale della Cesare Battisti.
Si iniziò con l’interpretazione
‘deduttiva’ di Piergiorgio Marguerettaz:
“… sono andato alla ricerca di
qualche fotografia del nostro Giuramento, oltre a fare uno sforzo di memoria.
Da quello che si può vedere dalle foto stesse siamo arrivati in piazza d'armi
partendo da dietro la caserma ACS
marciando inquadrati …”
Venne poi la versione ‘titubante’ di
Sandro Bazurro. Partito da una solida certezza a favore dell’ammassamento,
modificò questa tesi in un secondo tempo dopo qualche consultazione,
orientandosi su un arrivo degli allievi sul luogo della cerimonia già
inquadrati in perfetto ordine chiuso.
Tagliò la testa al toro la
testimonianza ‘cronometrica’ di Franco Ferrario:
“… lo schieramento è stato ottenuto
sulla corsa (quindi tecnica dell’ammassamento) con l'ottimo tempo di circa 27
secondi complessivi! … le
fotografie scattate da mia mamma e dalle mie cugine presenti alla cerimonia lo
confermano ove non bastasse la mia testimonianza … sono pronto a sfidare a
duello a colpi di mortaio chiunque osasse contraddire quanto sopra …”
Il giuramento segnava la
fine della prima parte del corso e l'inizio delle varie specializzazioni:
finalmente sarebbero iniziate le escursioni fuori caserma e le sane sudate in
montagna, compresi i giochi di guerra, quell'addestramento insomma che avrebbe
loro insegnato come diventare dei valenti ufficiali di complemento.
Il fatidico giorno del
giuramento era giunto.
Tutto si presentava
pulito ed in ordine perfetto: gli ottoni lucidati, la caserma drappeggiata, le
divise impeccabili, le armi in dotazione brillanti al sole di agosto. Solo le
bandiere non garrivano come sarebbe stato d'uopo, per mancanza di vento, ma non
si poteva avere tutto.
Il giuramento, per la scuola,
era anche un grande evento mondano.
La caserma, per
l’occasione, si popolava di una folla di parenti, amici, fidanzate. Era un
momento di incontro dove tutti erano orgogliosi di qualche cosa. Le mamme, con
le lacrime agli occhi, ammiravano il loro bambino fattosi uomo, come i papà ed
i nonni, molti dei quali ostentavano con onore il vecchio cappello alpino
carico di medaglie, che per l'occasione era stato tolto dalla naftalina
impegnato nell'ultima strenua battaglia contro le tarme. E poi i fratelli
maggiori con i loro cappelli ‘tirati’ ed adorni di nastrini e ricordi di
adunate, con penne ‘stanche’ enormi e lunghissime (chissà quale ignaro volatile
le avrà fornite) che costituivano un vero pericolo per l'integrità della vista
di chi stava alle loro spalle ogni volta che si voltavano, e le sorelle ancora
da sposare, che speravano che qualche bell'allievo posasse gli occhi su di
loro. Ed infine le morose, tutte bellissime, fiere del loro futuro tenentino,
che cercavano ansiose di individuare tra la moltitudine di giovani che si stava
schierando per il solenne momento.
Gli ufficiali, superiori
e subalterni, gli istruttori tutti, ammiravano con apprensione le loro
creature, sperando che non commettessero errori e che facessero ben figurare la
Scuola, la loro compagnia, il loro plotone, che facessero meglio anche dei
vecchi delle altre compagnie. Addirittura c'era una sorta di scommesse
clandestine tra i comandanti dei vari Reparti, non per soldi ovviamente ma a
damigiane di vino.
Tutti gli AUC erano
letteralmente con il cuore in gola: si controllava la divisa, le ghette, gli
scarponi, i cinturoni, i cappelli. Si sperava di non svenire, come a volte
succedeva, creando un effetto domino tra le fila del blocco compatto, creando
vuoti paurosi che avrebbero coperto di ridicolo la cerimonia. Iniziò la
manifestazione, che seguiva un iter in crescendo di grande effetto e
consolidato negli anni.
Dopo il consueto discorso
delle autorità civili e militari, che esaltava il corpo e la scuola, venne
celebrata la santa messa e quando il coro intonò “Dio del cielo, Signore delle
cime” mentre un vecio leggeva tra l’assoluto silenzio di tante persone la
preghiera dell’Alpino, il commosso coinvolgimento di tutti i presenti divenne
più che manifesto.
Poi, ordini secchi risuonarono
nella piazza d'armi.
Con tutte le compagnie ed
i plotoni perfettamente allineati con la formazione denominata in linea di
colonne, venne finalmente impartito l'ordine di presentare le armi.
Con voce forte e sicura,
il Comandante della scuola declamò la formula: “Giuro di essere fedele alla
Repubblica Italiana e al suo Capo, di osservare le leggi e di adempiere ai
doveri del mio stato al solo scopo del bene della Patria “, poi con la bandiera
di guerra alla destra e con tono vibrato domandò: “Lo giurate voi?”
Tutti gli allievi, in
perfetta sincronia, alzarono la mano destra e ad una sola alta voce gridarono:
“Lo Giuro!!!”.
Uno scrosciante lungo
applauso si confuse con la fanfara che intonava l'Inno Nazionale.
Qualche lacrima scese
lungo le gote delle mamme e perché no, si insinuò anche tra le rughe dei veci,
prontamente celate dalla mano, che fingeva di calcare meglio il cappello in
capo.
Il monte Emilius li
osservava in tutta la sua maestosità.
I ragazzi erano diventati
soldati
CAPITOLO 17
NONNISMO
Agosto 1971. Gli Allievi del 63° Corso, terminati i
primi cinque mesi di addestramento, stavano per essere nominati Sergenti AUC ed
inviati ai Battaglioni operativi per gli ulteriori tre mesi di passione, prima
dell'ottenimento dell'agognata stelletta.
Era, il 63° Corso, l'ultimo che prevedeva il
sergentato AUC, prima della nomina ad ufficiale; infatti dal 64° Corso, dopo i
sei mesi di scuola militare, era prevista la nomina diretta al grado di
sottotenente.
Questa novità, già di per sé poco gradita agli
allievi del 63° Corso, andò ad incrementare, se mai ce ne fosse stato bisogno,
l'atavica voglia di mantenere vive le antiche tradizioni. Si trattava di
consuetudini ovviamente non scritte, figlie del dovuto rispetto per la gerarchia
acquisita con l'anzianità, in una mistura di goliardia e nonnismo naione;
pratiche che portavano a festeggiare le varie ricorrenze dell'iter militare con
scherzi vari, pressioni, ricatti nei confronti dei giovani colleghi, che
peraltro presto l'avrebbero sperimentati a loro volta sui nuovi arrivati.
Tutti gli allievi del 64° Corso, i ‘giovani’ della
Prima Compagnia, aspettavano quindi con trepidazione e malcelato timore ciò che
si vociferava avvenisse in tali occasioni.
Taluni scherzi, quali gavettoni ed abbondante
spreco di dentifricio e schiuma da barba, burle assai bonarie in realtà, erano
già stati sperimentati all'arrivo alla Scuola. Qui però si parlava di cose ben
più inquietanti: gente ‘sbrandata’ in pieno sonno che aveva riportato traumi
gravi, lucido da scarpe passato senza parsimonia sui visi assonnati, orecchie e
capelli compresi e così via. E poi, si sa, radio naia ingigantiva a dismisura
quanto tutti legittimamente temevano e quanto veniva insinuato dalle mezze
frasi fatte circolare dagli stessi persecutori, con l’evidente obiettivo di
seminare il terrore tra le fila della Compagnia antagonista.
Era in questo clima che tutta la Prima Compagnia si
preparava ad affrontare l'evento. I consigli si sprecavano: c'era chi contava
sull'amicizia di qualche ‘vecchio’, meglio se tra i più rappresentativi del
Corso, per essere risparmiato e chi studiava a tavolino le più opportune
contromisure da adottare. Inoltre, non sapendo di preciso il momento
dell'attacco, si progettavano turni di guardia, che ovviamente finivano
miseramente verso la mezzanotte, quando stanchi della lunga giornata di
esercitazioni tutti crollavano in un sonno ristoratore, tanto profondo quanto
traditore.
Fu però grazie ad una subdola delazione che tutti
gli allievi della Prima Compagnia vennero a sapere quale sarebbe stata la notte
fatidica, durante la quale i ‘vecchi’ avrebbero portato il loro attacco agli
‘indifesi’, si fa per dire, ‘giovani’ del 64°corso.
In proposito, esemplare e degno di menzione fu il
piano di difesa messo in opera dagli allievi che occupavano la stanza numero
otto!
I dieci ragazzi infatti riunirono all’istante una
rapida assemblea di camerata con all’ordine del giorno la guerriglia difensiva
e, con una strategia degna delle migliori tradizioni militari, misero a punto
una tattica tanto antica quanto efficace, largamente sperimentata nel mondo
animale: la tanatosi, ovvero il fingersi già morti per evitare l'attacco
e le inevitabili letali conseguenze.
In pratica dopo il contrappello serale, tutti i
componenti della camerata si prepararono regolarmente per la notte, chi in
ciabatte e pigiama e chi in mutande e canottiera. Poi rapidamente rovesciarono
i letti e drizzarono le brande contro i muri ed in quel parapiglia di coperte,
lenzuola e cuscini attesero con rassegnazione ed atteggiamento di circostanza
l'arrivo degli incursori della seconda compagnia.
I ‘nemici’ non tardarono ad arrivare, annunciati
dal vociare delle camerate che via via visitavano. Una volta spalancata la
porta d’ingresso, restarono stupiti dello sconquasso che si presentava ai loro
occhi e di ciò che altri ipotetici squadroni di colleghi ‘guerriglieri’ erano
riusciti a combinare in così breve tempo, evidentemente precedendoli nell'operazione.
Quindi complimentandosi tra loro per la
lezione impartita e visibilmente soddisfatti, proseguirono oltre.
Passato il pericolo ed atteso un congruo lasso di
tempo, al fine di scongiurare l'eventualità che ulteriori ripensamenti e
conseguenti incursioni si verificassero nuovamente, gli astuti ragazzotti della
‘8’ rimisero tutto a posto nell'ordine più perfetto e con un'efficienza ed una
tempistica degne di nota.
La ‘tanatosi’ della camerata numero otto!
In piedi con la testa mozzata Bazurro, tra le sue gambe l’infiltrato
Slaghenaufi.
Più in basso Pasquino, a seguire Brunetto, più sotto Perron e coricato
Brociero.
Poi Rossi in camicia, Valentini con il capo appoggiato alla mano, Colorio del
quale spunta solo la testa. Infine Secchi in pigiama e ciabatte.
La ronda degli istruttori, che nel frattempo era
stata attirata dai ripetuti vocii e dai continui rumori che rimbalzavano nella
palazzina, si era attivata con la consueta solerzia. Lasciò comunque, con una
certa perfidia, passare più tempo del dovuto affinché gli annunciati eventi
seguissero il loro corso; e quando finalmente fece il suo ingresso nella
camerata trovò la grande stanza perfettamente in ordine, con gli allievi
raggomitolati nelle loro brande tranquillamente addormentati. Ma se qualcuno
avesse meglio illuminato l'ambiente, avrebbe notato sui loro volti,
apparentemente tra le braccia di Morfeo, un beffardo sorriso di vittoria.
CAPITOLO
18
E
L’ACQUA
FU TRASFORMATA IN VINO
Arrivò settembre.
I primi due mesi di
naja erano ormai alle spalle.
Nella piana di
Aosta, il clima era sempre più soffocante.
Il programma di
addestramento prevedeva per quel giorno una esercitazione congiunta con
l’aviazione a Monte Torrette, a quota 886.
Sulla carta avrebbe
dovuto trattarsi di una scarpinata tutt’altro che impossibile, risalendo in
costa la vallata verso ovest, poco oltre il paese di Sarre.
Ma il tenente
Folegnani, quella mattina, si era evidentemente svegliato con intenzioni
alquanto bellicose.
Con tortuosa e
sadica perversione, aveva condotto la marcia di trasferimento e di
avvicinamento all’obiettivo assegnato a tappe forzate e a ritmo vertiginoso,
con continue e tortuose variazioni di percorso, moltiplicando artatamente e a
dismisura il dislivello da coprire.
Qualcuno avanzò pure
l’ipotesi che Folegnani, da poco trasferito alla SMALP da Paluzza, conoscesse
poco la zona e procedesse in realtà per ‘tentativi ed errori’.
Gli allievi ufficiali,
terminate le scorte d’acqua e ormai completamente disidratati dopo aver
percorso in lungo e in largo buona parte della vallata, raggiunsero finalmente
la postazione e si attestarono per l’esercitazione sopra un’altura desertica ed
assolata.
L’aeronautica
partecipava all’addestramento inviando alcuni caccia che sorvolavano l’area a
volo radente e a velocità supersonica.
Gli allievi
assistevano con grande interesse, seguendo le procedure e le modalità radio con
cui si gestiva un fuoco di appoggio o di copertura, nonostante fosse
impossibile individuare i caccia in avvicinamento. Pur sapendo infatti da dove
sarebbero arrivati, solo in pochi casi riuscivano a scorgere quei piccoli
moscerini che li sorvolavano a velocità supersonica con un boato immane che
lasciava quasi storditi.
Era quasi mezzogiorno
ed il sole picchiava sempre più violento sulla vallata.
All’ora del rancio,
dalla caserma arrivarono puntuali i rifornimenti, consistenti in vitto
abbondante ed in alcune taniche di tiepido (!) vino, rosso e bianco.
Per l’acqua invece
ognuno avrebbe dovuto provvedere da sé.
E poiché il buon Dio
aveva creato anche gli alpini astemi, e nella prima compagnia AUC ve ne erano
diversi, la ricerca dell’acqua, almeno per costoro, divenne una esigenza
primaria.
Un assetato Roberto
Salati
Tra i sobri si annoverava
anche l’allievo Ferrario.
“L’allievo ufficiale
Franco Ferrario – così citerebbe un dispaccio di guerra - disperato per la
sete, insieme ad altri due commilitoni nella medesima situazione, approfittando
della pausa pranzo, con fulminea iniziativa, decise coraggiosamente di partire
per una ardita, non autorizzata e perigliosa missione idrica”.
Molto più
semplicemente, i ragazzi portarono cinque borracce a testa, per rifornire gli
altri commilitoni astemi rimasti a coprire la loro assenza.
C’era, prima del
sottostante abitato, una isolata casetta con accanto una fontana-abbeveratoio
addossata alla roccia; dal doccione di freddo metallo sgorgava dell’acqua
cristallina.
Sembrava perfino di
colore blu.
Forse proveniva
direttamente dai ghiacci del Gran S.Bernardo!
O era un miraggio?
I tre, dopo essersi
momentaneamente dissetati, riempirono con diligenza le altrui borracce ed
allungarono l’acqua con della Coca Cola, posseduta da uno di loro, ma troppo
calda per essere bevuta direttamente.
Missione quasi
compiuta: i compagni, arsi e riarsi, che attendevano sull’ermo colle rovente tra
poco sarebbero stati in salvo!
A questo punto un
componente della estemporanea pattuglia, avvistato in lontananza in fondo al
minuscolo paese uno pseudo-bar, convinse gli altri a strafare e a scendere a
valle per prendere un caffè.
Per non portarsi
appresso il carico ingombrante, chiesero ad un uomo, che fumava seduto davanti
alla casetta, se nel frattempo poteva custodire le borracce.
Degustato il caffè,
i tre allievi, felici e fieri del pieno successo dell’impresa ed ormai scaduto
il tempo a disposizione, riaffrontarono rapidamente la salita per recuperare il
prezioso, e soprattutto analcolico, liquido e rientrare alla base (in questo
caso all’altezza) prima di essere scoperti.
L’uomo, che dal suo
presidio poteva coprire con un solo sguardo l’intero ‘fronte’, li aspettava a
piè fermo impaziente.
Quando li vide
arrivare, con aria pienamente soddisfatta e voce vibrante di orgoglio, disse
loro:
“Ragazzi, ci ho
pensato io! Ho buttato via quella schifezza che avevate dentro le borracce e le
ho riempite con il vino fatto da me.”
“Andate in pace e non ringraziatemi: è un
dovere di vecchio alpino”.
… risalirono allora in disordine e senza speranze
l’erta che avevano pocanzi disceso con orgogliosa sicurezza … (A.Diaz)
N.B.: Si deve sapere che il vino ‘fatto in casa è,
per i delicati palati astemi, quanto di più schifoso esista nell’universo: i
tre baldi giovani, tuttavia, come avrebbero potuto frustrare il vigile e fiero
vinificatore, operando, sotto i suoi attenti occhi brillanti di compiacimento,
la ri-conversione del liquido in santa sorella H2O?
Ma poiché ‘el bon vin ghe
piase al vero alpin’, vi fu un’altra pattuglia clandestina che scoprì, a non
molta distanza, alcuni vigneti già vendemmiati, sui quali erano rimasti molti
grappoli, probabilmente non maturi al momento della prima raccolta. Non
mancavano mandorli e meli. Ce n’era quanto bastava e, poiché il tutto appariva
in stato di abbandono, con i filari di vite in disordine e avviluppati da
arbusti, il manipolo di ragazzi non ebbe riguardo a raccogliere tutto quanto
potesse.
Sete, fame, golosità,
piacere della scoperta inattesa, fecero il resto. Assaggiarono ogni cosa.
L’uva, naturalmente, fu la preferita e poiché la notizia della scoperta venne
ben presto diffusa, anche gli altri commilitoni, alla spicciolata ed in gran
numero, sbalzarono sul posto contribuendo a terminare l’incompleta vendemmia.
Per l’assenza di acqua,
tutto venne mangiato senza essere lavato. Difficile dire quando avesse piovuto
l’ultima volta, di certo una stagione così assolata e senza precipitazioni non
c’era stata da tempo.
Sta’ di fatto che, in
capo a un’oretta, arrivarono le prime avvisaglie.
Poi, in breve tempo, si
scatenò un attacco di dissenteria generalizzato. Chi era delicato di intestino,
per i successivi due giorni visse più nei servizi igienici che al di fuori di
essi. Una buona parte regolarizzò il proprio apparato digestivo in
ventiquattrore, pochi se la cavarono impunemente.
Non ci volle molto ai
comandanti per accorgersi di cosa stava succedendo e quali ne fossero le cause.
Fortunatamente la cosa
suscitò in loro solo ilarità e non generò alcun tipo di provvedimento.
Probabilmente la visibile debilitazione di chi non aveva retto la prova, venne
ritenuta, già di per se’, punizione sufficiente.
Non molti giorni dopo i
ragazzi trovarono servita a tavola dell’uva. Gli invitanti grappoli ebbero
un’accoglienza contradditoria. Chi era stato male non ne sopportava la vista,
con grande soddisfazione degli altri che se ne mangiarono una doppia razione.
CAPITOLO 19
GRAPPA ALLA
PERA
Settembre 1971.
Era il periodo della
mietitura del grano, quando si sparse la voce che anche alla Scuola si potesse
usufruire di licenza per lavori agricoli; considerate le scarse prospettive di
rivedere a tempi brevi la propria casa, gli amici e la morosa, alcuni addussero
questa motivazione per perorare la propria istanza.
Le licenze agricole, da
sempre esistite nell'esercito italiano, erano concesse in periodi e per motivi
ben definiti, come la mietitura delle granaglie o la vendemmia dell'uva. Per
avere diritto ad esse bisognava far figurare che la famiglia viveva sul lavoro
della propria campagna od essere braccianti agricoli. Spesso erano gli stessi
consorzi a richiedere la presenza del militare. In altri casi erano invece i
famigliari a chiedere la licenza agricola per il proprio parente, facendo
addirittura accompagnare tale richiesta da una lettera del Sindaco del paese,
il quale testimoniava la particolare esigenza.
Fatto sta che qualcuno,
facendola in barba alla ferrea disciplina delle italiche Scuole Militari,
riuscì a partire in licenza, seppur per un breve periodo.
Tra questi c’era il
fuciliere Giuliano Secchi della camerata n. 8.
Lui, con la vendemmia
dell’uva in settembre non aveva nulla a che fare: ma l’importante era aver
ottenuto il permesso!
Al ritorno, per addolcire
l'invidia dei colleghi, i presunti agricoltori portavano da casa, ai meno
fortunati, beni in natura, da condividere nelle lunghe serate in caserma.
L'amico Giuliano portò
con sé una magnifica bottiglia di grappa con pera williams all'interno,
celandola accuratamente nel proprio armadietto.
La manovra non sfuggì
agli attenti compagni di camerata, che pensavano volesse sottrarla al bene
comune, mentre invece il medesimo la sera stessa ne dissigillò il contenuto,
centellinandolo nei gavettini dei presenti.
Ad onore del vero ne
bevvero tutti con avidità ma anche con moderazione ed a più riprese venne
offerta l'agognata libagione, ovviamente a discrezione del proprietario,
irremovibile anche alla successiva richiesta di qualche spudorato compagno per
un presunto problema di digestione.
Ma un giorno oscuro
l'allievo Secchi, complice l'immancabile fretta della vita alla Scuola,
comandato a svolgere un servizio di caserma, dimenticò l'armadietto socchiuso,
un minimo spiraglio dal quale si intravedeva l'oggetto del desiderio della
camerata.
Non si sa come, non si sa
perché, fatto sta che la galeotta bottiglia venne prelevata ed il prezioso
nettare andò a riempire il gavettino dei presenti, escluso naturalmente il
legittimo proprietario in quanto assente. Nell'euforia del momento qualcuno
addirittura chiese: “Giuliano, possiamo?”. Nessuna risposta e quindi per il
famoso detto che chi tace acconsente, si pensò di brindare anche alla sua
salute.
Dopo ripetuti brindisi,
la bottiglia venne rimessa al suo posto precisamente e devotamente, pensando
che il fattaccio passasse inosservato, ancorché il livello fosse paurosamente
calato.
Non si riuscì a sapere se
da buon precisino quale era, o forse perché dubbioso circa la rettitudine dei
suoi compagni di camerata, fatto sta che Giuliano aveva prudentemente segnato
il primitivo livello del liquido nella bottiglia.
Obiettivamente la mancanza
era evidente.
Al ritorno, rinvenuto
l'armadietto aperto ed effettuata una breve ricognizione sugli effetti
personali custoditi, l’allievo Secchi scoprì l'ammanco, mentre i presenti
fingevano di essere distratti ed impegnati in altre faccende, pur tenendone
d'occhio la reazione.
In un primo tempo si
adirò con loro, ma ben presto il suo solito sorriso sornione fece capolino
dallo sguardo cupo, tacito segnale che il perdono aveva preso il sopravvento.
Acqua, pardon, grappa
passata.
CAPITOLO 20
RUCOLA E BAGNA
CAUDA
Nella zona prospiciente
la Dora, a Mont Fleury, gli allievi erano di casa.
Lì infatti si svolgeva
l’addestramento al combattimento, secondo i vari schemi e le varie tattiche
previste dai manuali dell’esercito ed allora basate sulla guerra di Corea e del
Vietnam.
Gli argomenti erano i più
disparati: protezione dal fuoco diretto e indiretto, copertura alla vista,
mascheramento individuale del corpo, del viso e dell’arma, il tutto
differenziato a seconda che ci si trovasse in ambiente luminoso, notturno o
innevato.
Poi c’erano le tecniche
di movimento!
In base alle condizioni
di visibilità e di copertura, ci si poteva spostare a passo spedito, mediante
sbalzi eseguiti correndo, oppure rotolando, e da ultimo strisciando,
mantenendosi con tutto il corpo aderenti al terreno.
Avvenne così che i
‘fortunati’ allievi cui era stata assegnata la qualifica di fucilieri
assaltatori furono costretti a trascorrere diverse ore al giorno trascinandosi
con il ‘passo del leopardo’.
La tecnica di quel
movimento era abbastanza complessa.
Bisognava mettersi a
terra con le braccia distese in avanti, aderendo bene al terreno con il mento,
il petto, l'addome e la parte interna dei talloni, il tutto piegando la gamba
ed il braccio della stessa parte del corpo, rovesciando il piede della gamba
rimasta distesa e portando il tallone verso l'esterno.
Per muoversi in avanti
era poi necessario dare una spinta della gamba piegata, ed a mano a mano che
essa si distendeva bisognava puntellarsi al terreno con la parte interna del ginocchio
e del piede; lo stesso andava fatto con il braccio, puntellandosi al terreno
con l’avambraccio.
Fu proprio durante una di
queste esercitazioni che Marco Fioroni ebbe modo di scoprire l’esistenza della
rucola.
Marco infatti, nella sua
corretta interpretazione del passo del leopardo ed aderendo pertanto
disciplinatamente al terreno con la faccia, percepiva sempre questo odore acre,
o quantomeno equivoco dato che, per lui, comasco, quel tipo di insalata era
sconosciuto.
Ad illuminarlo fu il
compagno Roberto Braggion, che da bravo veneto era in grado di riconoscere
questa piccola pianta erbacea; e, tanto per dimostrare al compagno la
veridicità della sua affermazione, se ne mangiò allegramente qualche ciuffo.
Potenza degli anticorpi e
della gioventù; era da quando giunse ad Aosta che Marco ed i suoi compagni
fucilieri ci strusciavano e camminavano sopra, con tutti gli annessi e connessi
di queste operazioni.
Ma per il buon Marco, in
quel di Aosta, la ruchetta non fu la sola scoperta culinaria.
La più traumatizzante fu
l’incontro con la ‘bagna cauda’ o meglio, con i postumi legati al suo consumo.
In questo caso, la
camerata numero 3 aveva una sua peculiarità, che corrispondeva al nome di Ennio
Cocchi.
Questo simpatico allievo
aveva la bella abitudine, abitando a Torino e quindi abbastanza vicino ad
Aosta, di rientrare dai permessi domenicali a silenzio già suonato e con tutti
i compagni di stanza già profondamente addormentati.
La prima volta che questo
accadde, al loro risveglio i commilitoni ebbero la sensazione di percepire
un’asprigna ‘fragranza’ senza però comprendere esattamente di cosa si trattasse
e neppure da dove provenisse. Che fosse qualche scherzo degli anziani? Oppure
qualche diavoleria dell’addestramento NBC sfuggita al controllo? Quest’ultima
ipotesi venne ritenuta la più probabile anche perché ciò che arrivava
all’olfatto era troppo violento: forse poteva essere qualcosa di simile
all’aglio, si diceva infatti che i gas nervini esalassero una puzza simile.
Bastava però uscire dalla
camerata per andare a lavarsi ai servizi igienici collettivi, per sentir
tornare respirabile l’aria. Ma nulla era risolto, anzi il rientro nella stanza,
dopo aver respirato l’aria pulita, diventava impossibile. L’esiguo gruppetto di
inquilini si chiedeva come avesse potuto superare la notte in quella camera a
gas. Per fortuna, iniziando subito dopo le attività esterne, a finestre
spalancate l’aria aveva il tempo di ricambiarsi e di tornare nuovamente
respirabile.
E così, domenica dopo
domenica, per molti lunedì mattina, nella camerata numero tre, si continuò a
celebrare il trionfo della ‘bagna cauda’.
Ma se l’olezzo nella
stanza si volatilizzava abbastanza rapidamente, lo stesso non accadeva
nell’alito e negli abiti dei ragazzi.
Era un lunedì mattina,
uno di quelli in cui l’allievo Cocchi aveva provveduto, per tutta la notte
precedente, a distribuire in abbondanza la delicata fragranza della saporita
cucina piemontese.
Quel giorno i ragazzi
erano impegnati ai piedi della palestra di roccia per la prima arrampicata sulle
vie sino al quinto grado quando, come da copione, sopraggiunse il Maggiore
Veronelli, aiutante di Stato Maggiore alla SMALP e comandante delle compagnie
AUC.
Ricevuto il saluto del
reparto, l’alto ufficiale si diresse verso la parete rocciosa che, ai più,
incuteva qualche timore. Poi, con il cappello alpino in testa, come un gatto,
in meno di un minuto si inerpicò fino alla sommità in arrampicata libera. La
sua scalata aveva la scioltezza di chi si stesse muovendo nel salotto di casa.
Ora toccava ai ragazzi.
La prima squadra chiamata
ad impegnarsi nella salita fu quella di Ennio Cocchi! Ai piedi della parete il
Maggiore Verunelli cominciò con lo spiegare la corretta tecnica per affrontare
quell’ascesa, insegnò a fare l’esatta imbracatura e posizionò alcuni allievi
perché facessero sicurezza con le funi, in modo tale che in caso di caduta si
sarebbe sì rimasti appesi come salami, ma senza danni.
Mentre stava illustrando
questi fondamentali dettami per una perfetta scalata, si accostò, per
accomodare il tutto come era necessario, ad uno dei ragazzi che in
quell’infausta notte di bagna cauda aveva dormito nelle immediate vicinanze del
Cocchi Ennio.
L’atletico aiutante di
Stato Maggiore della Smalp cambiò espressione d’improvviso. La mimica del suo
viso cominciò a barcamenarsi tra il buffo e lo schifato poi, quasi in apnea,
rivolto al ragazzo, borbottò: “Figliuolo, in cordata con te, o mi butto di
sotto io, o ci butto te”.
La bagna cauda aveva
colpito ancora.
Ad onor del vero, Marco
Fioroni riconobbe che per lui rucola e bagna cauda furono due ottime scoperte,
ovviamente sempre con il massimo rispetto delle altrui narici!
Addestramento
di Franco Ferrario nella discesa a corda doppia
CAPITOLO 21
UN
ATTIMO DI PAUSA
A questo punto, dopo il
piacevole sovrapporsi di tanti divertenti ricordi legati a quei giorni, è
opportuno fare un attimo di pausa e dedicare almeno una piccola parte di questo
libro a qualche breve cenno storico ed ai rigorosi criteri di selezione e di
addestramento militare cui venivano sottoposti i ragazzi affinché diventassero
validi ufficiali in grado di difendere con capacità e coraggio la loro patria
in caso di reale necessità.
Nel merito, un grazie
particolare, nella realizzazione di questo paragrafo, va rivolto
all’enciclopedico sig. Wikipedia ed al tecnologico sig. Copia Incolla.
Grazie al sig.Wikipedia è
stata data una rigenerante rinfrescata alle nostre memorie ormai settantenni,
mentre il sig. Copia Incolla ha reso la stesura di queste righe quanto mai
rapida e funzionale.
Fondata ufficialmente nel
1934, la scuola si poneva come obiettivi la formazione di nuovi istruttori e di
comandanti capaci di guidare piccole ma agguerrite formazioni negli ambienti
più impervi della montagna.
Allo scoppio del secondo conflitto
mondiale,
con la dichiarazione di guerra alla Francia, venne formato sul fronte delle Alpi Occidentali il Reparto Autonomo "Monte
Bianco", dalle dimensioni di una compagnia, con il compito di presidiare i
valichi del Monte Bianco tra il Col Ferret e il Col de la Seigne.
Nel corso della campagna
di Russia la scuola ebbe inoltre il compito di formare i nuovi ufficiali da
impiegare su quel fronte.
Con l’armistizio dell’8
settembre le attività della scuola si fermarono.
Il 1º luglio 1948 la scuola riprese le sue funzioni, sotto la nuova
denominazione di "Scuola militare alpina" (SMAlp), estese anche al
personale di altre forze armate e di eserciti stranieri.
Nel 1953 fu affidata alla scuola la preparazione degli allievi
sergenti di complemento e nel 1964 il ciclo addestrativo degli allievi ufficiali di
complemento destinati, rispettivamente, al comando delle squadre e dei plotoni
dei reparti delle truppe alpine.
Tale addestramento è
stato interrotto nel 2000 a seguito della
sospensione del servizio di leva obbligatorio.
Essere ammessi alla
SMALP, ai tempi, era un onore che spettava a pochi eletti.
La proporzione tra i
giovani che richiedevano di frequentare il corso e quelli ammessi era di circa
1 a 15.
La selezione era dura.
Oltre all'attitudine e
all'idoneità fisica, requisiti essenziali, l'iscrizione al CAI e gli attestati
rilasciati dalle scuole nazionali di sci costituivano titoli preferenziali per
l'ammissione.
Era inoltre necessario
essere in possesso di un diploma di scuola superiore.
Ultimo e non trascurabile
requisito, del resto eravamo in Italia, era una buona raccomandazione.
I criteri di ammissione
prevedevano che i cittadini aventi obblighi di leva presentassero domanda per
la selezione AUC già nel corso della prima visita di leva obbligatoria (i
cosiddetti 3 giorni), senza con ciò inficiare i rinvii del servizio militare per motivi di studio, oppure
potevano presentarla al termine degli studi, nell'eventualità di aver
conseguito almeno il diploma di maturità.
A quel punto si veniva convocati presso uno dei
distretti con competenza interregionale alla selezione, e nel corso di altri 3
giorni si affrontavano test scritti, psico-attitudinali e una nuova visita
medica (più approfondita e selettiva della precedente, ma con possibilità di
ricorso presso altra struttura sanitaria militare in caso di respingimento).
Nel corso delle prove veniva richiesto di
indicare tre preferenze per l'Arma o specialità di destinazione.
Il corso
di istruzione, o addestramento, una volta varcato l’ormai super citato cancello
della caserma Charlie Bravo, prevedeva lezioni teoriche ed esercitazioni
pratiche in varie materie. Alcune erano comuni a tutti i corsi AUC delle varie
forze armate, armi e specialità (addestramento formale, ordinamento e impiego,
regolamenti, difesa N.B.C., topografia, movimento sul campo di battaglia,
manutenzione e tiro con armi portatili e di reparto, impiego delle
apparecchiature radio), altre specifiche per il Corpo di assegnazione e ancor
più per la specialità.
Attorno
al terzo mese di corso un'aliquota di allievi distintisi per rendimento e
attitudine militare poteva fregiarsi del distintivo di Allievo scelto, il
cosiddetto ‘baffo’, una V dorata (sorta di ibrido tra il grado di soldato
scelto e sergente). L’allievo più meritevole, nominato ‘capo corso’, poteva
fregiarsi del tri-baffo!
Bartolomeo Bertarione
Capo-corso del 64°
Gli AUC come status e diaria erano
peraltro tutti equiparati a Caporal Maggiori, tanto da poter rivestire sin dai
primi giorni, a turno, i ruoli specifici di Sergente di Giornata.
Ciò non li esimeva peraltro
dall'obbedienza a quei graduati di truppa a cui fossero stati affiancati nel
corso di servizi di guardia o altri eventi addestrativi.
Tra li allievi giudicati idonei al
grado di Sottotenente, i primi in graduatoria potevano aspirare, o venivano
invitati, a prestare servizio quali istruttori presso la Scuola, gli altri
erano assegnati a un reparto per lo più operativo. Dopo una cerimonia
collettiva in uniforme da ufficiale si veniva inviati in licenza straordinaria
di fine corso, alla fine della quale, divenuta effettiva la nomina a sottotenenti si raggiungeva il reparto.
Con un nuovo giuramento dinnanzi al
Comandante iniziava ufficialmente il servizio di prima nomina.
CAPITOLO 22
AL POLIGONO DEL
BUTHIER
Il poligono Buthier, così
chiamato per l’omonimo fiume che scorreva lungo la Valpelline, era la zona
designata per le esercitazioni di sparo e di lancio.
Ai ragazzi recarsi al
poligono, nel complesso, piaceva molto.
Del resto era più che
comprensibile.
Non era infatti cosa da
poco potersi esercitare a scaricare colpi a raffica con la mitragliatrice,
lanciare bombe a mano e sparare cannonate dai mortai, per di più gratuitamente.
Non appena arrivarono al
poligono del Buthier, si provvide in primo luogo a scegliere gli allievi che
avrebbero dovuto raggiungere le tre postazioni di vedetta, per evitare che
escursionisti occasionali entrassero a loro insaputa nella zona interessata
dalle esercitazioni.
Paolo Moneta si offrì
volontario e raggiunse la prima collocazione, qualche centinaio di metri alla
sinistra delle piazzole di sparo, in alto a mezza costa sotto un gruppo di
case. Aveva in testa un obiettivo ben preciso:
approfittare della tranquillità della missione, che consisteva praticamente nel
restare per diverse ore seduto ai lati di un sentiero dove non sarebbe passato
nessuno, per ripassare le ultime pagine del libro di Storia Contemporanea.
Aveva infatti già chiesto ed ottenuto una licenza di 36 ore per recarsi, il
martedì successivo, all’università di Pavia per sostenere il relativo esame.
Un compagno andò ad
occupare la seconda postazione: una zona defilata e protetta da una rupe dietro
il terrapieno degli zappatori.
Buon ultimo, l’allievo XX
si posizionò poco prima dell’ingresso del Poligono, sulla destra ed in
posizione elevata, poco distante da una costruzione adibita a luogo di ristoro
per i militari.
Ogni osservatore
ricevette in dotazione una radio ricetrasmittente CPRC26 e, con grande
fantasia, alla radio capo-famiglia venne assegnato il nome di Falco, mentre
quelle consegnate alle vedette divennero all’istante Falco 1, Falco 2 e Falco
3.
Ad intervalli precisi, i
Falchi figli avrebbero dovuto chiamare il Falco mamma per confermare che nelle
singole postazioni tutto procedeva per il meglio.
Finalmente cominciò
l’addestramento.
Tema del giorno:
descrizione della bomba a mano e prova pratica di lancio.
Prese la parola il
sottotenente di complemento incaricato.
Cominciò ad illustrare le
peculiarità della bomba a mano difensiva S.R.C.M., descrivendone le parti
fondamentali e facendo sfoggio di una lunga serie di terminologie quasi
totalmente sconosciute ai novelli AUC e che probabilmente qualche mese prima
anche per lui erano del tutte ignote.
Sbirciando sulla apposita
‘Sinossi’ al fine di evitare imprecisioni o dimenticanze, parlò di innesco, di
percussore, di perno di sicurezza, di leva di sicurezza, di carica di innesco,
di detonatore, di carica di scoppio, di corpo.
La ‘Sinossi’ delle lezioni di tiro al poligono
I ragazzi ascoltavano
impazienti. Pur riconoscendo l’importanza delle nozioni che venivano loro
impartite, altro non aspettavano che potersi cimentare, quali novelli Rambo, in
millimetrici lanci del piccolo ordigno bellico verso immaginari obiettivi
nemici.
Terminata l’illustrazione
dei componenti della granata, il sottotenente passò alla spiegazione della
tecnica del lancio.
“Le dita devono avvolgere
la bomba completamente, con il palmo della mano che deve stare sopra la leva di
sicurezza”. “Per un lancio efficace è necessario compiere una serie di
operazioni preliminari, quali: togliere il perno di sicurezza, premere la leva
di sicurezza con il palmo della mano fino al momento del lancio”.
Gli allievi, ora sempre
più coinvolti, mimavano a gesti i movimenti che di lì a poco avrebbero dovuto
compiere nella realtà.
“Quando la bomba sarà
effettivamente lanciata – continuò l’ufficiale – essa deve rotolare gentilmente
sulle dita, in maniera tale da acquisire un movimento rotatorio che ne
aumenterà precisione e distanza”. “E una volta lanciata – chiosò il
sottotenente – la bomba perderà la leva di sicurezza ed in questo modo il
percussore potrà colpire liberamente l’innesco, attivando così la spoletta, e …
boom … la bomba esploderà”.
Dopo tanto tempo, è ovvio che sarebbe impossibile ricordare
le esatte parole usate dal graduato addetto alla spiegazione. Ma poiché il
virgolettato di cui sopra è stato testualmente ricopiato dalle specifiche rilasciate
in merito dall’esercito italiano, e poiché il suddetto graduato faceva attento
uso della relativa sinossi, è più che presumibile che le due versioni
coincidessero perfettamente!
Arrivò finalmente il
tanto atteso momento della prova pratica.
Forse per non sottoporsi
al rischio di un getto mal riuscito, il graduato chiamò al primo cimento
l’allievo scelto bibaffo Adriano Del Giorgio.
Il chiavennasco Adriano,
agli occhi dei compagni e probabilmente anche a quelli dei superiori, incarnava
a tutti gli effetti l’essenza del vero uomo di montagna.
Riservato, duro,
concreto, instancabile.
Molti l’avevano
pronosticato come capo-corso, anche se poi, sul filo di lana, gli venne
preferito Bartolomeo Bertarione.
Il ‘bi-baffo’ Adriano Del Giorgio
In assoluta tranquillità,
Adriano, ricevuto l’ordigno tra le mani, lo soppesò come un caro vecchio
compagno di giochi. Fissò per un momento l’obiettivo stabilito, eseguì in
perfetta successione le indicazioni appena ricevute e lanciò il suo missile.
Con una parabola
perfetta, come telecomandata, la piccola bomba esplose esattamente dove avrebbe
dovuto.
Un ‘Oh’ di ammirazione
accompagnò la spettacolare esibizione di Del Giorgio. Subito dopo però, tra gli
allievi, si sollevarono perplessi brusii: “Era stato davvero bravo Adriano
oppure lanciare quel piccolo ananas non era poi una impresa così ardua?”.
Il poligono Buthier fotografato dalla postazione di Falco 3
Sarebbe stato sufficiente
aspettare qualche attimo per averne l’immediata risposta. In effetti i tiri
successivi, anche se con esiti altalenanti e mai toccando la quasi perfezione
raggiunta dal magico colpo del campione valtellinese, furono nel complesso più
che decenti.
O almeno, lo furono fino
a quando non venne il turno del piemontese YY.
YY era un ragazzo pacato,
educato, mite, tranquillo. Se gli avessero chiesto cosa avrebbe voluto fare da
grande, quasi certamente avrebbe risposto: “Il pacifista!”. Nessuno sapeva
quale infido destino l’avesse condotto alla SMALP, ma tutti avevano perfettamente
capito che il docile YY, con mitragliatrici, fucili, bombe a mano e quant’altro
di violento si potesse elencare, c’entrava come il cavolo a merenda.
Il ‘brav bocia’ si
incamminò verso la piazzuola di lancio con lo stesso spirito con il quale un
condannato a morte si avvicina alla sedia elettrica. Prese tra le mani quello
strano congegno, lo rimirò con malcelato disgusto, quindi si preparò a
compiere, seppure controvoglia, il proprio dovere di soldato.
Ragazzi del 64°in esercitazione al poligono del Buthier
Nel frattempo, nelle loro
postazioni di vedetta, Falco 1 e Falco 3, al secolo Moneta e XX, adempivano con
approssimativa diligenza al loro ruolo di vigilanza.
Moneta era totalmente
assorbito dalla lettura del suo bigino Bignami, nel titanico tentativo di
ripassare, in poche ore, più o meno cento anni di italica storia, dal congresso
di Vienna fino alla prima guerra mondiale.
XX invece aveva deciso di
prendersela più comoda e, individuato un invitante angolino ben ombreggiato tra
due massi, vi si era supinamente disteso per abbandonarsi ad una rilassante
pennichella.
Il lancio dell’allievo
piemontese non risultò particolarmente efficace.
Difficile valutare se fu
colpa dell’incontrollata tensione oppure se fu una precisa volontà del ragazzo:
fatto sta che l’ordigno, con il perno di sicurezza già sganciato, rotolò
delicatamente solo per qualche metro oltre i piedi del suo lanciatore.
Per sua buona fortuna, il
raggio di azione delle bombe a mano difensive era alquanto limitato ed il
rapidissimo e violentissimo “A terraaa!” che urlò a piena gola l’ufficiale di
controllo evitarono che il lancio malriuscito del ragazzo potesse causare gravi
conseguenze.
Dopo questa malaugurata
dimostrazione, squadra dopo squadra, tutti i ragazzi sfilarono a loro volta sulla
piazzuola di lancio per sostenere il loro eccitante esame.
Da qui alla fine
dell’esibizione, non accaddero più episodi degni di menzione particolare.
Quello di Del Giorgio
rimase il lancio del record e nessuno riuscì a far peggio dell’emozionatissimo
YY.
Problemi più seri si
verificarono invece alla postazione di vedetta di Falco 3.
La sua iniziale
pennichella si era pian piano trasformata prima in riposino prolungato e quindi
in solenne dormita. E il suo giaciglio naturale, originariamente all’ombra e
ben riparato, si era trovato esposto a metà mattinata ad un gradevole tepore e
poi, verso mezzogiorno, orientato praticamente a picco del sole.
E chi, meglio di una
viperella locale, poteva meglio apprezzare quei due massi ben esposti, il sole
pieno dell’estate e … un inerme corpo umano cui dare un cortese segnale della
sua presenza?
Poco dopo il mezzodì,
Falco 3, soddisfatto del suo lungo riposo ed in attesa di consumare il pranzo,
cominciava a riprendere conoscenza.
Mentre si stiracchiava,
percepì qualcosa che si muoveva sulla sua tuta mimetica all’altezza della
pancia.
Si sollevò sulle braccia
e vide, ohimè, quel piccolo serpentello che riposava tranquillamente sdraiato
sopra di lui.
Difficile valutare chi
dei due si spaventò di più.
XX emise un urlo che
nulla aveva da invidiare con il precedente “A terraaaa” abbaiato qualche
istante prima al poligono dal sottotenente, mentre lo spaurito ofide, preso a
sua volta in contropiede dal movimento inatteso del giovane milite, ne
approfittò per scivolare rapidamente verso lidi più sicuri.
Falco 3, ancora sotto
choc, per un attimo pensò di accendere la radio ricetrasmittente CPRC26 e di
collegarsi con mamma Falco. Poi, saggiamente, si rese conto che se avesse
descritto per filo e per segno l’accaduto, avrebbe dovuto inserire nel racconto
anche quel suo ‘breve’ pisolino e questo fatto non avrebbe potuto salvarlo da
una punizione esemplare.
Decise che avrebbe spento
la radio prima ancora di accenderla.
Si era ormai arrivati a
pomeriggio inoltrato.
Tutti i ragazzi avevano
portato a termine la loro esercitazione ed anche le tre vedette si erano
ricongiunte con il resto della truppa per incamminarsi verso casa.
Nell’oretta di viaggio
che li separava dalla caserma, camminando in silenzio, tre giovani alpini rimuginavano
tra sé e sé su quanto loro accaduto in quella calda giornata al poligono del
Buthier.
Adriano Del Giorgio,
fiero in prima fila davanti alla sua squadra, pensava semplicemente di non aver
fatto altro che il proprio dovere e quasi non si capacitava dell’entusiasmo
suscitato dal semplice lancio di una banale bomba a mano.
Paolo Moneta si
scervellava intorno alle gesta di tal Ciceruacchio, semi sconosciuto patriota
italiano che combatté per la seconda repubblica romana nel 1849: era
visibilmente preoccupato perché gli mancavano ancora una settantina di anni per
arrivare fino al 1918 e completare il ripasso dell’intero bigino.
Da ultimo Falco 3, ancora
pallido in volto per lo scampato pericolo di un morso letale, pregava
ardentemente affinché la sorte, in un prossimo futuro, non gli riservasse
nuovamente l’improbo ruolo di vedetta. Si era comunque ripromesso, nel caso ciò
fosse avvenuto, che avrebbe mandato al diavolo il solo pensiero di fare una
benché minima pennichella e che sarebbe rimasto invece in piedi, a scanso di
equivoci, per tutto l’intero periodo di guardia.
CAPITOLO 23
UN MAZZOLINO ... NELLA
CANNA DEL FAL
“Dobbiamo
assolutamente formare un coro, il coro del corso. Chi sa cantare, chi è in
grado di istruirlo?”
Così, più o meno, si
espresse il Comandante della Compagnia dopo pochi giorni che i ragazzi erano
giunti alla Scuola.
Gianfranco Rebulla
aveva una discreta esperienza di direzione di coro.
Dirigeva quello
della sua parrocchia a Milano e soprattutto aveva seguito un breve corso di
impostazione della voce al canto e di direzione in un campo musicale in Canada,
oltre ad avere cantato in un coro classico in un campo musicale a Fermo.
Così, sebbene
titubante, si arrischiò ad alzare la mano.
Pur non sapendo cosa
si sarebbe potuto aspettare, era comunque felice di impegnarsi in qualcosa che
non gli era estraneo rispetto a tutto quello che lì, alla scuola, avevano
cominciato a inculcargli fin dal primo giorno, dove in pratica lo preparavano a
… fare alla guerra!
Così, ancora prima
di poter accedere alla libera uscita, cominciò la selezione delle voci.
Tra i candidati
vennero inclusi anche i colleghi del corso ACS.
Vennero in tanti,
forse anche allettati dalla prospettiva (era una diceria che correva) che, per
i coristi, sarebbe stato più facile avere brevi licenze premio.
E a molti
Gianfranco, Cerbero involontario, dovette a malincuore dire che il loro canto
non era il più intonato.
Ma i prescelti, in
tutto una trentina, erano il meglio!
Il novello direttore
si procurò diligentemente un paio di libri con i canti di montagna armonizzati
dai grandi maestri (Pedrotti, De Marzi, Benedetti Michelangeli) e cominciò
seduta stante la preparazione.
Fu subito sorpreso
dalla serietà e dall’entusiasmo con cui, a sera, stanchi dopo una giornata di
addestramento e rinunciando anche alla libera uscita, i ragazzi erano disposti
ad impegnarsi. La competenza e la pazienza di Rebulla erano considerevoli. Si
provava e si riprovava instancabilmente.
Marco Fioroni fu
incluso nei ‘bassi’. Buizza, Callegari, Faccioli, Martello, Rabbolini e Zordan
facevano parte dei tenori secondi.
Era un coro in piena
regola, con baritoni, bassi e tenori che si integravano al meglio. Alcuni,
se non coristi affermati, avevano comunque già avuto significative esperienze
precedenti, come Marcellino Bortolomiol, che faceva parte di due cori veneti:
principalmente con il Monte Cesen di Paolo Bon e talvolta con il Tre Pini di
Gianni Malatesta.
In breve tempo
riuscirono ad impostare i primi due canti del nascente repertorio: “Quel
mazzolin di fiori” e “Il Signore delle cime”.
Fu fissata,
ovviamente dai superiori, la data del loro esordio: dovevano sbrigarsi ed
essere pronti per il saluto al 63^ corso, che a fine agosto avrebbe lasciato la
scuola.
Arrivò il grande
momento. L’aula magna registrava il tutto esaurito.
Il coro del 63^
aveva appena terminato la propria esibizione.
Toccava ora ai
ragazzi del 64^.
Emozionati, ma
sicuri e convinti, si accinsero a cantare.
Terminarono ‘Quel
mazzolin di fiori’ armonizzando il “te lo vo-glio re-e-e-ga-laaaar” con il
rallentando finale ben calibrato ed il giusto vibrato.
Il Comandante della
Scuola scattò in piedi ed esclamò: “Questo è un coro!”, mentre gli applausi
entusiasti del pubblico fecero capire ai ragazzi che erano sulla strada giusta.
Da quel giorno
cominciò la carriera del coro del 64^.
Era un coro con
delle voci molto belle, alcune anche ben impostate da un’esperienza precedente
in altri gruppi. Ma non solo: riuscivano ad amalgamare l’insieme senza quei
fastidiosi sforamenti di una o più voci soliste che erano uno dei difetti più
frequenti nei cori amatoriali.
Gianfranco venne ben
presto e giustamente insignito di due significativi riconoscimenti: ricevette
il baffo di allievo scelto e, cosa non meno importante, venne esentato da tutti
i servizi di corvè della scuola.
Molto rapidamente
impararono una decina di canti e furono pronti a rappresentare la Scuola in
ogni occasione venisse loro proposta.
Ovviamente la messa
domenicale nell’ampio piazzale della caserma rappresentava un appuntamento
fisso e contribuirono non poco alle lacrime di commozione di mamme e fidanzate
alla cerimonia del giuramento del corso successivo.
Iniziarono anche le
trasferte, a guisa di vero e proprio tour canoro.
Le mete, che
raggiungevano con la corriera militare, erano sparse per il nord Italia.
A Bobbio intonarono
tutto il loro repertorio, a Piacenza cantarono sfilando inquadrati per le vie
cittadine.
A Milano, in una
breve sosta turistica tra un viaggio e l’altro, si fermarono in piazza del
Duomo e lì, tra la sorpresa e gli applausi di milanesi e turisti, misero in
piedi una estemporanea rappresentazione.
In trasferta a
Milano
Poi ci fu il
concerto a La Thuile!
Furono invitati a
cantare (scontato eufemismo che sostituisce un più veritiero ‘venne loro
imposto di cantare’) dal comandante della Scuola, il generale Gallarotti, in
occasione di un incontro mondano. Come al solito, l’esibizione dei ragazzi fu
perfetta e suscitò il plauso e l’approvazione di tutti, tanto che il Generale
Comandante ritenne opportuno premiare il capo-coro Gianfranco Rebulla in modo
del tutto originale. Intimò infatti al ragazzo (ops, ‘concesse l’onore al
ragazzo’) di accompagnare la moglie (e che bella moglie!) in un delicatissimo
valzer lento!
I tenori secondi in azione.
Prima fila: Vinicio Callegari, allievo ACS,
Claudio Martello, Lorenzo Zordan
Seconda fila: Giorgio Buizza, Armando Faccioli,
Arnaldo Rabbolini
Con grande abilità e solerzia, qualche anno dopo,
tutta la storia canora del coro del 64^ è stata raccolta in un CD. Vennero
equalizzate e mixate al meglio, grazie a Gianfranco e con l’aiuto di tecnici
esperti, le registrazioni di fortuna fatte su un ‘Gelosino’. Evelino Mattelig e
Franco Zanin pensarono alla duplicazione. Alberto Nassano si occupò della
stampa della copertina.
Un vero lavoro di équipe che ha preservato nel
tempo le tracce di quegli indimenticati gorgheggi.
Così, a ricordo del ‘suo’ coro, ha scritto
Gianfranco:
“Oggi, a più di 40 anni di distanza, vedo ancora le
facce, gli occhi, le espressioni dei miei compagni mentre li dirigevo: la
musica, il canto riesce a tirare fuori emozioni anche dal più riservato e
timido degli uomini e quegli alpini donarono a me e a tanti di quelli che li
ascoltarono sensazioni indimenticabili. Grazie!”
CAPITOLO
24
L’OSTERIA
DI PAPA’ MARCEL
Al
suo arrivo alla Scuola Militare Alpina, Sandro Bazurro, come tutti i suoi
compagni AUC, conosceva ben poco della città di Aosta.
Per
fortuna, qualche giorno dopo venne invitato da un suo istruttore, un caporal
maggiore ACS, ad effettuare il turno di ‘ronda’ durante l'orario di libera
uscita.
Fu
così che oltre a scoprire le strade di Aosta, Sandro ebbe modo di prendere
conoscenza delle sale cinematografiche e delle osterie, luoghi abitualmente
frequentati, nelle ore libertà, dagli allievi della Cesare Battisti e dagli
alpini della Testafochi.
A quel tempo ad Aosta
giravano per la città, nelle ore serali, due ‘ronde’: una della scuola Allievi
Ufficiali e Sottufficiali e l'altra del battaglione Aosta. Si trattava di
piccole pattuglie di militari guidate da un sottufficiale o da un graduato di
truppa, al fine di controllare che i militari in libera uscita si comportassero
correttamente.
Fu
così che Sandro scoprì l'osteria Papà Marcel.
Ubicata
nel centro storico di Aosta, in rue Croix de Ville, da decenni era il naturale
ritrovo di tanti alpini.
Una
tipica piola, osteria, in dialetto piemontese, una scura stanza con un bancone,
una attigua saletta con tavoli di legno, intarsiati da generazioni di alpini
con il coltellino tattico. Sui muri era un brulicare di tante firme, dediche,
frasi tra il serio ed il faceto, che testimoniavano spesso la tristezza per la
casa lontana, la morosa, il lavoro forzatamente abbandonato per servire la
patria.
L'oste,
il baffuto papà Marcel, mustacchi portati ad onore del labbro forse per
compensare la calvizie incipiente, a volte sfoggiava un super tirato cappello
alpino. E sebbene si dicesse che in realtà alpino non lo era mai stato, la cosa
non importava a nessuno. Era un brav’uomo e questo bastava per avvicinarlo e
confessargli il proprio stato d'animo, come ad uno di casa.
Gli
alpini lo adoravano, e quando la cena in caserma non era stata ottima e
abbondante, si compensava con un mega panino con pancetta e peperoni, seguito
dal frizzantino per mandarlo giù e, perché no, dal mitico giro di caffè
valdostano, bevuto dal beccuccio della ‘coppa dell'amicizia’.
Quando
la sera, superato il controllo per la libera uscita, Sandro riusciva a varcare
indenne il portone della Cesare Battisti, ovviamente munito di fazzoletto
regolamentare, di sessanta centimetri di carta igienica in un taschino e del
pettine griffato esercito italiano nell'altro, si recava solitamente al caffè
‘Crestani’.
Lì
restava assorto nei suoi pensieri per una buona mezz'ora, gustando un ottimo
caffè con panna, poi passava davanti alla vecchia piola di Marcel e se
l'ambiente gli sembrava di suo gradimento entrava per una sosta di un'oretta e
per qualche sorso di caffè valdostano.
Una
sera al caffè Crestani, Sandro era particolarmente giù di morale e, complice il
bel tramonto, fu preso da una grande nostalgia di casa. Su un tovagliolo,
mentre rifletteva, iniziò a disegnare un tramonto sul mare, poi aggiunse la
spiaggia ed un uomo tranquillamente allungato su una sedia a sdraio. Era ciò
che ricordava dell'ultimo giorno da borghese, prima della partenza per la
Scuola Militare.
Ad
un tratto gli parve di essere osservato. Seduta ad un tavolino ad un livello
leggermente più in alto, una ragazza stava sbirciando incuriosita ciò che aveva
disegnato.
Accortasi
di essere stata scoperta, la fanciulla sorrise e si scusò per aver spiato il
disegno, giustificando la sua curiosità per il fatto che le era parso strano
che stando di fronte alle montagne, un alpino disegnasse un tramonto sul mare.
Il
giovane allievo le spiegò brevemente il motivo di quello schizzo ed iniziarono
a parlare. Lei viveva a Monaco di Baviera ed era ad Aosta in visita alla nonna,
amava il disegno e frequentava una scuola d'arte.
Chiacchierarono
per un bel po', mentre l'orologio della torre civica scandiva le ore. Ad un
certo punto la ragazza si alzò per accomiatarsi, dicendo che per lei era ora di
rientrare. La casa della nonna era in Rue Trottechien, sulla strada per la
piola di Papà Marcel ed a Sandro venne naturale proporle di accompagnarla.
Lei
accettò di buon grado.
Quando
si salutarono cordialmente, il ragazzo ebbe la netta sensazione che quel ‘arrivederci
a domani’ celasse la volontà di approfondire quella conoscenza fugace.
Assorto
nei suoi pensieri, Sandro proseguì la sua strada verso Papà Marcel:
quell'incontro non lo aveva lasciato indifferente.
Raggiunto
il locale, si soffermò sull'uscio e subito intravide quello sguardo confortante
sopra i simpatici baffoni, accompagnato dal cenno della mano che lo invitava ad
entrare.
… l'oste, il baffuto papà Marcel, mustacchi
portati ad onore del labbro …
Accennò
a Marcel, che aveva la grande capacità di capire le situazioni senza nulla
chiedere, di quell’intrigante incontro e gli parlò brevemente della sua
fidanzatina che lo aspettava in Liguria e che mai avrebbe osato tradire.
Un
giro di coppa dell'amicizia e si sentì subito meglio.
Sull'uscio
l’oste gli disse: “Me la devi proprio far conoscere la tua morosa, deve essere
davvero speciale”.
Ancora
una volta aveva colto nel segno.
Durante
la sua permanenza ad Aosta non ebbe mai occasione di presentargliela.
Smise
anche di frequentare il caffè Crestani per un po' di tempo.
Non
era proprio il caso di complicarsi ulteriormente le vita, a quello pensavano
già i suoi superiori.
Sandro
ritornò ad Aosta anni dopo, in viaggio di nozze, e tra le tante cose da condividere
con sua moglie, non poteva mancare l'osteria di papà Marcel, ed i suoi panini.
Obiettivamente
non credette di essere stato subito riconosciuto, ma inquadrato certamente sì:
era uno dei suoi alpini.
Ora Papà Marcel non è più
dietro il bancone, in rue Croix de Ville, è andato avanti il 2 gennaio 2010, e
forse lassù nel Paradiso di Cantore, aspetta che quei ragazzi di tanti anni fa
arrivino ansimando e smoccolando con lo zaino affardellato, nell'ultima
faticosa salita, per accoglierli con il suo sguardo buono e ristorarli con
quell'ottimo frizzantino.
CAPITOLO
25
LA
MASCOTTE DELLA SMALP
Non
si sa da chi, ma era stato battezzato con l’augurante nome di ‘Congedo’. Non si
sa quanti anni avesse, ma certamente non era più un giovincello.
Vi
era chi sosteneva che esistesse da sempre o, per lo meno, dalla fondazione
stessa della SMALP, così come altri garantivano che avrebbe continuato ad
esistere in un tramonto senza sera, in quanto era l’emblema dell’eternità.
Perché “Eterno, troverete eterno quanto vi aspetta” era la maledizione che i
cadetti anziani urlavano simpaticamente ai nuovi arrivati, con riferimento alla
durezza del corso. E l’emblema di questa eternità era un cane, ma non un cane
qualunque: lui era ‘Congedo’, la mascotte della SMALP.
Gli
annali della Scuola raccontano che abbia vissuto in mezzo agli AUC dal 47^ fino
ad almeno a tutto il 70^ corso. Viveva scodinzolando allegramente in ogni dove
all’interno della caserma o sul marciapiede adiacente all’ingresso, quasi fosse
in servizio permanente effettivo.
‘Congedo’
era un meticcio di media taglia con il manto marrone chiaro, screziato di nero
e dall’aspetto abbastanza buffo giacché aveva zampette da bassotto su un corpo
da labrador a pelo lungo.
Non
sarà stato di razza purissima, ma era sicuramente un gran cane: fedele ed
affezionato.
Si
raccontava che in gioventù fosse stato aiutante di alcuni margari per
inquadrare le vacche in Valpelline, sopra Aosta e che poi, con l’avanzare degli
anni, avesse optato per una vecchiaia più tranquilla, tra le mura ben più
ospitali della caserma Cesare Battisti.
Non
si sa neppure se fossero stati gli AUC ad adottare Congedo e se fosse stato
Congedo ad adottare gli AUC.
Fatto
sta che Congedo, con piglio petulante, ogni volta che un reparto usciva dalla
caserma, vi si aggregava e, qualunque ne fosse la destinazione, lo seguiva fino
al rientro.
Talvolta
gli allievi gli riservavano qualche piccolo scherzo, ma sempre con un certo
riguardo, perché il suo contegno era quasi marziale. Non indulgeva in confidenze
con nessuno. Anzi, con aristocratico distacco e forse anche con non poca
commiserazione, assisteva alle varie vicissitudini di quei giovanotti, spesso
invidiato per la sua ‘vita da cani’. Tutti erano lì che sbanfavano sul percorso
di guerra sotto il solleone o sbalzavano con il ‘passo del leopardo’ mentre lui
era là, bello spaparanzato all’ombra, con il contegno ineffabile di un generale
in rivista delle esercitazioni. Anche nei trasferimenti e nelle marce più
lunghe lui non poteva mancare e, con il dovuto contegno, presenziava anche alle
cerimonie più solenni come i giuramenti.
L’unica
cosa mai appurata era se Congedo avesse una qualche predilezione per un
particolare reparto.
C’era
chi sosteneva che Congedo si aggregasse al primo plotone che usciva dalla
caserma, mentre altri assicuravano che il vispo cagnolino avesse una sorta di
preferenza per gli allievi ‘padri’ e che solo alla partenza dalla scuola di
questi ultimi, divenuti ormai sottotenenti, si aggregasse al corso successivo.
Anche
Piergiorgio Marguerettaz, seguace della seconda ipotesi, si chiedeva sulla base
di quale criterio l’amabile bastardino riuscisse a riconoscere i ‘padri’ dai
‘figli’, ma a sua volta non riusciva a dare risposta all’inspiegabile enigma.
Risolse l’oscuro rebus l’anno successivo.
Piergiorgio,
terminato il servizio militare nel settembre del 1972, visse ad Aosta per quasi
due anni.
Spesso
gli capitava di transitare a piedi davanti alla caserma sul marciapiedi
adiacente all’ingresso dove era solito giocherellare Congedo quando si
considerava in libera uscita.
Orbene,
quando il cagnolino vedeva Piergiorgio subito cominciava a gratificarlo con
tanto di strusciate, scodinzolamenti e richieste esplicite di carezze. E tali
festeggiamenti erano sempre e solo riservati a lui e mai ai suoi
accompagnatori, chiaramente non AUC.
Piergiorgio
tornava spesso a salutarlo, ed era sempre la stessa storia.
Congedo,
in pratica, era in grado di distinguere un vecchio alpino da un giovane alpino
e da chi alpino non lo era mai stato.
“L’olfatto!”,
dedusse tra sé e sé Piergiorgio.
Sì,
l’olfatto.
Probabilmente
alla SMALP aleggiava un particolare ‘odore alpino’ che piano piano ti si
appiccicava addosso e che non te lo levavi mai più e lui, Congedo, era il solo
in grado di riconoscerlo!
Leggenda
vuole che Congedo sia ancora alla SMALP, anche se oggi scorta solo la nostra
memoria.
Congedo, tra Piergiorgio Marguerettaz e Mario
Sandrone
CAPITOLO
26
UNA
SANA RIVALITA’
Le
disposizioni per il reclutamento degli allievi ufficiali di complemento
prevedevano la chiamata alle armi di quattro scaglioni all’anno.
Ciò
significava che ogni trimestre (gennaio, aprile, luglio ed ottobre erano i mesi
di riferimento) un nuovo manipolo di giovani speranze varcasse il cancello
della scuola e vi restasse per sei lunghi mesi.
Sovrapponendosi
pertanto gli arrivi e le partenze, succedeva che ogni contingente venisse
identificato come ‘figlio’ per i primi tre mesi di permanenza, trasformandosi
poi in ‘padre’ per il periodo successivo.
Questa
differente qualifica, basata esclusivamente su un principio di anzianità,
concedeva comunque una specie di diritto di primogenitura ai ‘padri’.
E,
pur senza arrivare a sgradevoli episodi di nonnismo, in verità mai verificatisi
durante il corso, i ‘figli’, per principio, dovevano ‘subire’.
Era
pertanto una conseguenza scontata che tra padri e figli, in altri termini tra
la prima e la seconda compagnia, si formasse una persistente ed accesa
rivalità.
Nel
tempo, poi, si erano formati dei discutibili stereotipi.
Si
diceva, ad esempio, che la prima compagnia fosse quella degli studiosi, insomma
quella degli ‘imbranati’, mentre la seconda quella dei super dotati, cioè dei
‘ganzi’.
Inoltre
il vulcanico tenente Lamberto Petrocco, boss della seconda compagnia, con il
suo comportamento talvolta provocatorio, faceva di tutto per alimentare questo
divertente antagonismo.
Tra
le tante altre agevolazioni (o almeno tali apparivano ai ragazzi della prima
compagnia), i discepoli di Petrocco potevano adornare il loro viso con barba e
baffi, se ben curati ovviamente, cosa invece negata agli allievi ‘padri’ di
Folegnani.
Già
questo rendeva antipatici a molti dei ‘padri’ i ‘Petrocchini’, e la cosa che
più infastidiva era la loro arroganza, unita alla mancanza di una adeguata
deferenza.
Ora la cosa potrebbe far
sorridere, ma a quel tempo, quando i goliardi portavano la ‘feluca’ ed i
diplomandi la ‘papalina’ e la naia era ‘pinciare’ (in dialetto veneto ‘fare
all’amore’), a strisciare sotto i muli con l'uniforme di ordinanza, a poter
‘tirare’ il cappello ed ad altre chicche del genere, ci si dava una certa
importanza.
Questo stato di fatto,
complice alcune ingiustizie nei confronti dei ragazzi della prima compagnia,
fece quelli della seconda oggetto di molte ritorsioni e scherzi.
Uno in particolare fu di
grande effetto.
La
prima compagnia doveva partire per il campo invernale con trasferimento alla
caserma Monte Bianco di La Thuile.
Era
il 29 novembre e mancavano 24 giorni alla fine del corso.
Fino
al 13 di dicembre quella sarebbe stata la loro nuova casa.
La
notte che precedeva la partenza, al piano della prima compagnia, ci fu molto
movimento.
Ombre
scure rapidamente scendevano dalle brande, sgusciavano lungo i corridoi ed
altrettanto velocemente, poco dopo, si infilavano nuovamente sotto le coperte.
Il
mattino della partenza, tutta la prima compagnia al gran completo era
schierata, armi e bagagli, sulla piazza antistante la palazzina AUC.
Il
comandante ‘Tex’ Folegnani, più loquace del solito, apostrofò duramente i suoi
ragazzi: “Se non esce chi ha prelevato e fatto sparire nottetempo il tavolo
dell'allievo di giornata della seconda Compagnia, registro compreso, tutta la
truppa rimarrà sugli attenti al freddo e sotto la neve”.
Al
di là del timore per la minaccia, la cosa portò una certa dignitosa ilarità
nella Compagnia, prontamente spenta da Tex, però non con la solita severità,
anzi parve ai più che persino un furtivo malizioso sorriso distendesse la
solita grinta, il solito viso truce.
La
cosa andò avanti un bel po', poi non confessando i colpevoli, che evidentemente
erano più di uno, considerato l'oggetto trafugato, si decise di partire
egualmente verso la tradotta, demandando a successivo periodo la punizione più
consona al misfatto perpetrato.
Nessuno
confessò, né mai si seppe la fine che avessero fatto il suddetto tavolino ed il
soprastante registro dell'allievo di giornata della seconda Compagnia, che si
disse fosse prontamente stato sostituito con altro similare; il povero allievo
di giornata della seconda compagnia, pare per combinazione proprio il meno
‘religioso’ di tutti, subì una esemplare lavata di capo dal proprio Comandante.
Si
dice anche che anni dopo il tutto sia stato rinvenuto nel sottotetto, sotto un
cumulo di vecchie divise, in occasione di, evidentemente rare, ispezioni in
loco.
Se
non si fosse trattato di uno scherzo più goliardico che naione, si sarebbe
potuto parlare di una operazione di ‘commando’ da manuale.
CAPITOLO
27
LA CELLA DI RIGORE
Mercoledì,
10 novembre 1971, ore 22:30’.
A
pochi chilometri di distanza dalla caserma Cesare Battisti, nelle eleganti
località di turismo d’élite della Valle d’Aosta, tanti coetanei degli allievi
del 64mo corso AUC se la stavano spassando alla grande.
Probabilmente,
anche quella sera, i fortunati ragazzotti che frequentavano Courmayeur,
Cervinia o Champoluc, stavano decidendo in quale locale alla moda trascorrere
la loro serata.
Ma
alla caserma Cesare Battisti, a quell’ora, gli altoparlanti della scuola
militare alpina di Aosta avevano già mandato in onda le note del Silenzio
militare. Da allora e fino alle 5.30 del mattino seguente, così come per tutti
i 150 giorni della durata del corso, nelle palazzine riservate agli AUC e agli
ACS non doveva volare neppure una mosca.
Ciononostante,
nella camerata numero 1, quella ‘riservata’ ai primi arrivati alla scuola, al
piano terreno, tre allievi ufficiali, forse invidiosi dei loro coetanei in
vacanza, decisero, ahimè, di disubbidire a quest’ordine tassativo (ma in gergo
militare si sarebbe dovuto dire, giusto per aumentarne la gravità,
‘trasgredire’).
Questi
ingenui mariuoli, un ligure, un piemontese ed un lombardo, in realtà non
avevano in mente nulla di eclatante.
Fattosi
prestare un mazzo di carte da gioco napoletane, con l’impegno di restituirle a
fine partita al collega AUC che ‘abitava’ al primo piano, avevano deciso di
sfidarsi nella più banale partita a carte che possa esistere.
Per
non essere scoperti, visto che il finestrone della stanza si affacciava
direttamente sul piazzale della scuola e non era ovviamente possibile accendere
la luce, Mirco Bozzo, Ugo Ferrando e Paolo Moneta avevano deciso di disputarsi
il titolo di ‘re della briscola dalla camerata 1’ scomodamente accovacciati per
terra, sotto una branda malconcia, alla misera luce di una pila a batteria.
Non
riveste particolare importanza chi dei tre conquistò l’ambito titolo in palio,
ma piuttosto quanto successe in seguito.
Terminata
infatti la grande sfida, come d’accordo con l’amico che gli aveva prestato le
carte, era necessario provvedere alla restituzione delle stesse. E qui sorse il
primo problema.
A
silenzio suonato, infatti, era sì possibile uscire dalla propria camerata, ma
solo per accedere ai bagni, e specificatamente a quelli situati nello stesso
piano della propria camerata. In altri termini, a chi abitava al piano terra,
non era giustamente concesso di andare a fare pipì al primo piano, e viceversa.
E
l’essere scoperti a passeggiare su un piano non di ‘competenza’ avrebbe potuto
essere motivo di grave infrazione alle regole.
Bozzo,
Ferrando e Moneta, affrontando questo problema, commisero il loro primo grave
errore.
Presero
in considerazione tre diverse opzioni.
La
prima, chiaramente la più logica, sarebbe stata quella di riconsegnare le carte
da gioco l’indomani mattina, essendo preferibili le controllabili ire
dell’amico a quelle ben più incontrollabili dei superiori: essendo una
soluzione logica e scontata, i tre intellettualoidi decisero di scartarla.
La
seconda opzione avrebbe previsto la riconsegna del mazzo di carte in serata,
così come concordato all’origine, incaricandone soltanto uno dei tre. Per la
scelta del malcapitato, si sarebbe potuto procedere sia per estrazione che
selezionando l’ultimo arrivato nella tenzone appena terminata.
Ma,
inevitabilmente, i tre scelsero l’ultima possibilità: la più rischiosa, la più
illogica, soprattutto la più stupida. ‘In tre abbiamo trasgredito ed in tre,
insieme, provvederemo alla riconsegna’ fu la frase che più o meno all’unisono i
nostri eroi sussurrarono con estrema fierezza, sempre nascosti sotto la
malconcia brandina e sempre alla più fioca luce della pila a batteria.
All’andata
andò tutto abbastanza liscio.
I
tre procedettero cautamente in rigorosa fila indiana, a guisa di squadra
speciale addetta alle operazioni ad alto rischio. Ferrando manteneva la
posizione di testa, Moneta era al centro, mentre Bozzo copriva le spalle al
terzetto.
Raggiunsero
senza ostacoli il piano superiore e, senza alcun intoppo, arrivarono alla
camerata obiettivo della missione provvedendo così alla riconsegna di quanto
dovuto.
Ma
fu nella fase di rientro che iniziarono i guai.
Appena
usciti dalla stanza e pronti per la discesa al piano inferiore, scorsero
infatti un Sottotenente della seconda compagnia che passeggiava lungo il
corridoio, con l’aria di chi volesse prendere qualcuno in difetto per poi
castigarlo severamente.
Pur
essendo ad una certa distanza, gli sguardi si incrociarono.
Erano
stati scoperti.
Ormai
addestrati dalla ferrea istruzione della scuola, i tre, questa volta, scelsero
la strategia più consona e corretta. Diversificarono difatti i loro percorsi,
rendendo così assai più arduo l’inseguimento da parte dell’alto graduato.
Ugo
Ferrando, non per niente diventato nel tempo valente pilota di auto da rally,
sgusciò gettandosi letteralmente a capofitto lungo la scalinata e raggiungendo
la propria camerata prima ancora che il nemico potesse avvicinarsi al primo
gradino della lunga scala. Fu il solo del terzetto a salvarsi ed a restare
impunito.
Paolo
Moneta decise invece di entrare nel vicino locale toilette e di nascondersi
dietro la porta di legno di uno dei dieci bagni turchi che correvano affiancati
lungo la parete. Fatto edotto da uno dei tanti film di spionaggio che arricchiscono
la sua cineteca, lasciò la porta più aperta possibile e si acquattò dietro la
stessa, sperando di dare l’illusione che il piccolo bagno fosse vuoto. In
effetti l’ufficiale entrò nello stanzone della toilette, controllò tutti i
bagni e, per fortuna di Paolo, non scoperse nessuno.
La
strategia di Moneta sembrava aver avuto successo. Purtroppo non fu così.
Mirco
Bozzo accettò invece con estrema filosofia le eventuali conseguenze che
sarebbero potute derivare dalla sua piccola malefatta. Mentre Ferrando e Moneta
cercavano alternative vie di fuga, lui si presentò tranquillamente
all’ufficiale, pronto a scontare le sue colpe.
Moneta
rimase nascosto nel bagno per qualche tempo. Quando ritenne che fosse arrivato
il momento giusto, decise di uscire per tornare, sano e salvo, alla propria
camerata.
Si
allontanò con cautela dal locale toilette. Ma riuscì a fare solo pochi passi
perchè improvvisamente, voltato il primo angolo, davanti a lui si materializzò
l’ufficiale, ora accompagnato da qualche altro graduato, e con l’imperturbabile
amico Mirco Bozzo che attendeva in apparente tranquillità l’evolversi della
situazione.
Il
beffardo sottotenente, al momento, si limitò a prendere i nomi ed i dati
identificativi (numero della compagnia, della camerata, del plotone, della
squadra) dei due ragazzi.
Nella
stessa notte, purtroppo, sempre al primo piano, ma la cosa si seppe solo la
mattina successiva, un allievo ufficiale (si maligna che fosse della prima
compagnia) pensò bene di fare il solito gavettone notturno ad un figlio della
seconda, dopo un rapidissimo toccata e fuga tra le due camerate.
La
sua azione fu perfetta, rapida ed efficace perché raggiunse l’obiettivo e,
soprattutto, perché il suo autore ebbe il merito di non farsi individuare.
Sta
di fatto che, l’indomani mattina, agli alti ufficiali della scuola, risultava
che nella notte era avvenuta un’azione gavettone e contestualmente erano stati
individuati due allievi che avevano gravitato in zone non di competenza: Bozzo
e Moneta.
Collegare
le due azioni fu un fatto scontato.
L’auto
difesa dei due, ingiustamente incolpati di un fatto non commesso, fu molto
labile.
Probabilmente
entrambi, avendo ritenuto che le alte sfere non avrebbero mai creduto alla loro
versione, valutarono che continuando a dichiarare che loro nulla centravano con
la storia del gavettone, altro non avrebbero fatto che aggravare la propria
posizione, aggiungendo alla non colpa del gavettone una ulteriore ed ingiusta
qualifica di persone non veritiere.
Fatto
sta che il mattino seguente Bozzo e Moneta furono convocati, separatamente,
nell’ufficio del comandante delle compagnie AUC, tenente colonello Verunelli.
Lo stesso, con fare grave e solenne accompagnato da un continuo andirivieni
nella stanza, dopo aver adeguatamente sottolineato la gravità del comportamento
e l’immaturità dei due ragazzi, comminò loro la punizione esemplare, ancorchè
esageratamente eccessiva e al di fuori di ogni logico buon senso: tre giorni di
cella di rigore!
Mirco Bozzo
Sia permesso un
piccolo inciso.
Bozzo e Moneta,
avendo deciso come sopra scritto di non difendersi ad oltranza, ritenendo la
cosa per loro controproducente, provvidero a raccontare il reale accadimento
dei fatti, per filo e per segno, al compagno capo-corso e tri-baffo Bertarione.
La speranza era che
lo stesso indagasse tra i colleghi e, magari, trovasse il vero responsabile e
ne riferisse a chi di dovere. O, quantomeno, parlasse con il comandante
Folegnani prendendo, in qualche modo, le loro difese.
L’amico Bertarione,
purtroppo e con grande delusione dei due, non diede alcun seguito a queste
attese.
Voci di corridoio
d’allora, non si sa comunque se attendibili, sussurrano che il vero artefice
del malfatto fosse stato invece l’allievo ….
Orbene, carissimo
allievo …., se ci sei, ci leggi, e sei stato tu, potresti ancora rimediare con
un simpatico invito a cena per Bozzo Moneta e signore.
L’unica
cella di rigore della SMALP si trovava nella palazzina subito retrostante
all’ingresso principale della scuola, in via Saint Martin de Corleans. Una sala
d’ingresso, una ampia stanza per le visite dei parenti, un locale di riposo per
le guardie di servizio ed una camera con branda per l’ufficiale di picchetto
completavano il piano terra della struttura.
La
configurazione della cella seguiva per filo e per segno le disposizioni
regolamentari.
Misurava
circa 8 piedi (1,80 x 2,40), le pareti erano rigorosamente in muratura, con una
finestrina protetta da sbarre in acciaio nella parte alta della solida porta in
legno.
All’interno
non c’era alcun mobile, tranne un grande lettino in legno a due piazze
leggermente inclinato, tipo quelli usati negli spogliatoi sportivi per fare i
massaggi.
Bozzo
e Moneta fecero il loro ingresso nella cella di rigore portando con sé solo
quanto concesso dal severo regolamento vigente: un solo capo di abbigliamento
(la tuta da ginnastica), il loro materasso con cuscino, una coperta di lana, i
libri di studio della scuola, il necessaire igienico. Disposero di due mezze
ora al giorno di libertà ‘vigilata’ (cioè con al seguito un piantone) oltre
alla completa libertà di muoversi in caserma nel periodo serale corrispondente
alla libera uscita. Pranzo e cena venivano consumati in cella, mentre per
soddisfare i bisogni corporali bisognava chiamare il soldato di guardia e per
la relativa urgenza era necessario affidarsi alla sua comprensione.
Ovviamente,
il ‘comprensivo’ comandante Folegnani fece sì che i due ragazzi, durante i tre
giorni di punizione, non perdessero in solo minuto del faticoso addestramento.
In pratica, quando c’era da faticare i due galeotti venivano provvisoriamente
messi in libertà, mentre quando si trattava di riposare, tornavano in
gattabuia.
Il
13 novembre 1972 i due giovani detenuti vennero finalmente rilasciati.
Prima però, come era abitudine di tutti i ‘visitatori’ di quel
misero locale, incisero su una delle pareti un loro significativo pensiero. Era
una breve poesia, composta per l’occasione.
Recitava:
Ingiustamente
colpiti dalla ria sorte
soffrimmo tre
giorni con animo forte.
E questa cella
angusta e silente,
che fu ricettacolo
di tanta gente,
a noi sorrise ....
Bozzo
e Moneta vissero così per tre giorni e tre notti more uxoris, condividendo in
tre metri quadrati settantadue ore di gioventù e l’assurdità di un castigo che
sapevano perfettamente di non meritare.
Post
scriptum
Non si conosce il
pensiero di Mirco in merito, ma Paolo visse molto male quell’esperienza.
Rimase deluso, nell’occasione, di tutti i suoi superiori coinvolti, che
preferirono individuare in fretta e furia dei colpevoli e dare una punizione esemplare,
piuttosto che accertarsi di come effettivamente si fossero svolti i fatti.
Nella sua modesta
valutazione, salvò soltanto il suo comandante di compagnia, il taciturno
tenente Folegnani.
Terminati i giorni
della punizione, venne infatti chiamato a rapporto.
Temeva, all’inizio,
l’ennesima sfuriata con conseguente lavata di testa.
Inaspettatamente,
avvenne invece il contrario.
Il tenente Folegnani
lodò la dignità con cui Bozzo e Moneta accettarono e subirono la punizione,
quasi avesse seri dubbi riguardo la loro presunta colpevolezza.
CAPITOLO 28
LA PROCESSIONE
Aosta.
Domenica,
21 novembre 1971.
Di
lì a una settimana ci sarebbe stato il Giuramento dei figli del 65^ corso.
Il
‘glorioso’ 64^ era ormai giunto alla vigilia del campo invernale in quel di La
Thuile e poi, dopo gli esami di fine corso, la sospirata stelletta da
Sottotenente sarebbe diventata realtà.
La
settimana appena trascorsa aveva impegnato gli allievi, oltre che nel consueto
programma standard, anche in una intensa attività di addestramento formale in
vista della partecipazione di una loro rappresentanza nello schieramento, in
occasione del suddetto Giuramento.
C’era
anche un po’ di fermento per la consueta rivalità con la seconda compagnia,
questa volta alimentata dal fatto che il comandante tenente Folegnani aveva
informato i suoi allievi di aver scommesso con il capitano Petrocco una
damigiana di vino a beneficio della compagnia che si sarebbe meglio comportata
durante la cerimonia. E siccome lui non era disposto a perdere, la conclusione
per i suoi ragazzi era ovvia: dovevano essere i migliori! Giudice arbitro della
singolare tenzone era stato nominato il comandante del battaglione, colonnello
Verunelli.
Domenica,
21 novembre 1971, primo pomeriggio.
Come
accadeva ogni domenica, giorno di libertà, i ragazzi passavano il loro tempo
chi in biblioteca (in realtà molto pochi), chi allo spaccio (una buona parte) e
chi in camerata (la maggior parte). In gergo un po’ triviale, si potrebbe dire
che il cazzeggiamento era l’attività più gettonata nei giorni di festa
trascorsi in caserma.
Poi,
improvvisamente, si sentì echeggiare: “Nevica! Nevica!”.
La
compagnia immediatamente cominciò ad animarsi.
Si
sentirono
dei vocii in corridoio, c’era un certo fermento e si sentiva ridere.
Quasi tutti gli allievi
si affacciarono alle finestre delle loro camerate o corsero fuori per
verificare l’evento.
E
con grande sorpresa, si accorsero che la copiosa nevicata che stava imbiancando
l’ampio cortile non era la sola novità.
In men che non si dica
era stata organizzata una originalissima processione.
Un cospicuo gruppo di
allievi, una ventina, procedeva con passo lento e cadenzato nel grande
piazzale.
… in testa
al corteo c’era un suonatore di flauto …
In testa al corteo c’era
un suonatore di flauto che intonava ‘Tu scendi dalle stelle’. Due ragazzi si
erano coperti con un grande mantello bianco, ovviamente un lenzuolo, ed uno di
loro era stato issato sulle spalle dei colleghi a guisa di santo protettore.
La singolare sfilata,
dopo aver gironzolato un po’ per la caserma, alla fine si diresse verso la
palazzina dove ‘abitavano’ gli ufficiali.
Lì si fermò.
Anche il flauto smise di
suonare.
In un attimo, il
religioso corteo, quasi si fosse nella curva sud dello stadio di San Siro,
cominciò ad invocare, ripetutamente ed a gran voce: “Lambri, Lambri, Lambri
!!!”.
Bastò poco, poi si videro
aprire le finestre ed affacciarsi la sagoma dell’ufficiale.
Un applauso scrosciante e
ripetute invocazioni ne accompagnarono l’apparizione.
Dall’alto del suo seggio
l’aitante graduato osservò compiaciuto e con fare amichevole la ciurma dei suoi
allievi.
Stando al gioco, da buon
compagnone e dopo un attimo di pausa, con fare ecumenico quasi fosse un
santone, benedì quella folla festante e la salutò con un discorso allegro,
beneaugurante, simpatico.
Dopodiché il gruppo
natalizio si sciolse e ritornò verso le camerate per ricevere gli abbracci ed
il compiacimento dei compagni che avevano assistito divertiti alla spassosa
rappresentazione.
Almeno per quella sera,
nei cortili della Cesare Battisti non riecheggiò l’immancabile voce del
terribile tenente marchigiano: “Sdade bunidi, mambrugghi”.
Intanto la nevicata
continuava sempre più copiosa.
Fece pure crollare il
baldacchino del palco delle autorità che era già stato allestito per la
cerimonia del Giuramento.
Il mattino del lunedì i
ragazzi del 64^ vennero informati che avrebbero dovuto provvedere allo sgombero
della neve di tutta la caserma.
Coordinò le operazioni il
colonnello Napolitano, comandante delle compagnie ACS. Disse ai ragazzi che,
usando il badile leggero in dotazione ad ognuno di loro, avrebbero dovuto
ammucchiare tutta la neve in modo da essere poi caricata, con l’intervento
della compagnia comando e dei suoi mezzi, sui camion C.L. e C.P. per la sua
evacuazione.
Il 28 novembre 1971,
giorno del Giuramento dei figli del 65^, nella Battisti non era rimasto neppure
un piccolo fiocco di neve.
Il colonnello Napolitano
fu insignito dagli spalatori del titolo di colonnello Neve.
Mentre il colonnello
Verunelli, a fine cerimonia e senza alcuna incertezza, premiò il prorompente
allungo del tenente Giovanni Folegnani, dichiarandolo unico ed insindacabile
vincitore di una damigiana di vino.
Il prorompente allungo del tenente
Giovanni Folegnani
CAPITOLO 29
INCUBO BIANCO
Domenica, 21 novembre
1971.
Pier Giuseppe Cerri
voleva assolutamente andare in fuga.
L’aspettava a casa, a
Borgomanero, una fondamentale partita di calcio cui non poteva assolutamente
mancare.
Alle 8 in punto partì da
Aosta con la sua mini.
Era una mattina fredda,
grigia, tuttavia non c'era traffico: percorse senza problemi i 150 chilometri
che lo separavano da casa.
Anche a Borgo faceva
molto freddo.
Andò subito al campo, ma
inaspettatamente, all’ultimo momento, decise di non giocare.
Annusava nell’aria
qualcosa di strano ed improvvisamente valutò l’eventualità di un qualche
infortunio, che assolutamente non poteva permettersi.
Rimase a bordo campo
fino alla fine del primo tempo ed accanto a lui (altra stranezza) c'era un
calciatore professionista che assisteva alla partita. Era un calciatore che
conosceva bene perché era un difensore del Toro, squadra di cui Pier Giuseppe
era un accanito tifoso.
Ma che ci faceva in
quel campetto di provincia? Boh!
Dunque, alla fine
del primo tempo il ragazzo si recò a casa per poi prepararsi per il rientro in
valle.
Avrebbe comunque
dovuto allungare un po’ il percorso di ritorno: doveva infatti accompagnare la
nonna a Torino prima di raggiungere Aosta. Per fortuna suo padre gli prestò per
l’occasione la sua auto, una Alfa Romeo 1750, affinché potesse percorrere più
velocemente quella deviazione.
Così raggiunse
Torino e scaricò la nonna senza problemi.
Ma una volta
raggiunto il casello autostradale per Aosta, cominciò ad intuire i problemi che
avrebbe incontrato e che avrebbero potuto seriamente compromettere non soltanto
il rientro felice dalla fuga, ma anche una positiva conclusione del suo corso
AUC.
Era infatti già sera
quando un giovane alpino autostoppista, accettato a bordo da Pier Giuseppe,
informò il compagno di viaggio dell’incredibile ‘domenica valdostana’.
In tutta la valle
era arrivata una incredibile nevicata: oltre 50 centimetri di neve in poche
ore. L’autostrada era chiusa da diverse ore ed Aosta era paralizzata sotto la
neve.
Per fortuna dei due,
l'autostrada era stata appena riaperta ma, a partire da Pont San Martin, c'era
neve ovunque. Tutto era bianco, soprattutto il fondo stradale.
Ma Pier Giuseppe
doveva arrivare entro le 21 in camerata, prima del contro appello, e non poteva
rallentare. L'Alfa, con trazione posteriore, ondeggiava paurosamente mentre
l'alpino, sempre più preoccupato, continuava a dire, più o meno garbatamente,
che non aveva alcuna fretta.
Non c’era
assolutamente traffico, ma neppure mezzi spalaneve.
Arrivarono ad Aosta
per miracolo, assistiti dai molti santi protettori invocati durante il viaggio.
Davanti alla caserma
non c'era modo di parcheggiare.
I cumuli di neve
occupavano ogni angolo del piazzale.
Pier Giuseppe trovò
un buco davanti all'ingresso del Circolo Ufficiali, per sua fortuna senza che
nessuno lo intercettasse.
Arrivò trafelato in camerata, ma il contrappello era già stato fatto, e lui non c’era.
Arrivò trafelato in camerata, ma il contrappello era già stato fatto, e lui non c’era.
Quella sera però era
di turno lo Sten. Lambri, che solo poche ore prima era stato ‘osannato’ dai
suoi allievi.
Lambri, per
l’occasione, chiuse entrambi gli occhi e la travagliata domenica di Pier
Giuseppe si chiuse, buon per lui, senza ulteriori grattacapi!
CAPITOLO 30
LA MARESCIALLA
GIACOMINA
Alla sinistra della Dora
Baltea, sulla cima di un promontorio roccioso a 384 metri sul livello del mare,
si stagliava il forte di Bard.
La sua posizione era
altamente strategica, in quanto in quel punto la valle si stringeva fino a
formare una gola che nei secoli aveva marcato un confine culturale, politico e
religioso della valle d’Aosta.
La fortezza di Bard
Il castello fu raso al suolo da Napoleone perché
gli aveva ostacolato la discesa in Italia nel 1800. Nel 1838 terminarono i
lavori di costruzione del nuovo Forte che restò a lungo sotto il dominio della casa Savoia. Contava 283 stanze e poteva
ospitare fino a 416 soldati. Caduto in disuso dalla fine del XIX secolo, fu poi
adibito a carcere militare e successivamente a polveriera dell’esercito
italiano.
La Scuola militare alpina
si riforniva periodicamente da questo deposito, in vista di addestramenti al
poligono di tiro e in occasione di ogni altra esercitazione a fuoco.
Anche qualche ragazzo del
64° partecipava ai trasporti di munizioni, insieme ad un ufficiale o ad un
sottufficiale.
A Bard operava una delle
rare presenze femminili inquadrate nell’Esercito Italiano: per la sua unicità,
per la sua figura e per il suo ruolo era soprannominata ‘la marescialla’.
Risiedeva a Hone, ai
piedi della fortezza, e grazie al suo titolo di ragioniera, in mancanza di
altro personale maschile qualificato, era stata assunta dall’Esercito e faceva
la spola quotidiana tra la sua casa e l’ufficio al castello. Controllava la movimentazione delle munizioni
e teneva il registro di carico e scarico svolgendo un compito di grande
responsabilità.
La
sua presenza ingentiliva quel luogo cupo e inaccessibile che era il Forte.
Il papà di Giacomina era un operaio trafiliere, originario
di Lecco, che si era trasferito in valle in cerca di fortuna; oltre al lavoro
aveva trovato lì anche una giovane valdostana con cui formare una famiglia e
nel 1936 era nata Giacomina.
***
Ancora oggi la ‘marescialla’ vive a Hone, è mamma di tre
figlie, tutte coniugate e nonna di numerosi nipoti. Recentemente ha raggiunto
il grado di bisnonna.
Giacomina è cugina di Manuela, rimasta lecchese, che nel
1978, ammaliata dalla prestanza del sottotenente Giorgio, divenne la signora
Buizza.
Nel 1971 Giorgio non frequentava Manuela e non poteva
prevedere che in futuro avrebbe avuto un motivo in più per tornare di frequente
in Valle d’Aosta. Il mondo a volte si rivela molto piccolo e provoca
cortocircuiti imprevedibili.
Giacomina ricorda con un po’ di nostalgia i tempi del suo
incarico alla polveriera dove ha continuato a lavorare fino all’età della
pensione, tiene in alta considerazione lo Spirito Alpino e cita con un certo
compiacimento il suo ruolo, che anche le figlie bonariamente le riconoscono, di
‘marescialla’.
Coloro che nel 1971 sono stati al Forte di Bard e ricordano
la sua presenza possono avere il piacere di incontrarla per risvegliare
reciproci ricordi di gioventù.
Da allora le presenze femminili nell’Esercito sono entrate
nella norma e non fanno più notizia ed ora ci sono anche le capitane e le
colonnelle.
Ma Giacomina ‘la marescialla’ resterà a lungo una figura
senza uguali!
CAPITOLO 31
IL VALLONE DI ORGERE
Erano già passati cinque mesi da
quando, ai primi di luglio, 185 ragazzi in borghese avevano oltrepassato per la
prima volta la cancellata della caserma Cesare Battisti di Aosta.
Per tutti loro, dicembre sarebbe
stato il mese della verità.
Il campo invernale di fine corso a
La Thuile ed il successivo esame conclusivo avrebbero infatti decretato o meno
il conseguimento dell’agognata qualifica di sottotenente.
Lunedì, 29 novembre, all’alba, partirono
per il campo invernale dalla stazione ferroviaria di Aosta con il treno diretto
a Prè S. Didier. Il treno poteva benissimo essere paragonato ad una vecchia
tradotta, considerandone anche una certa trascuratezza nella manutenzione
causata da un minor interesse per la linea in questione conseguente al
ridimensionamento dell’attività estrattiva delle miniere di La Thuile.
I ragazzi, giunti al capolinea,
furono accolti da una fitta nevicata.
Naturalmente a piedi e sotto la
neve, appesantiti da armi e bagagli, iniziarono a percorrere i dieci chilometri
di strada in salita che dividevano la stazione di Pré s. Didier dalla caserma
Monte Bianco di La Thuile, sede del plotone degli Esploratori del Battaglione
Aosta e che per l’occasione avrebbe rappresentato anche il loro posto di
ricovero.
Camminarono lungo la S.S. 26,
superati di continuo dalle numerose automobili che si recavano nella bella
località valdostana e solleticati dagli invitanti sorrisi che qualche ragazza
lanciava simpaticamente alla lunga colonna di baldi giovinotti durante i tanti
sorpassi.
Ammiccamenti che, purtroppo, non
potevano essere neppure ricambiati.
Il comandante Folegnani infatti,
proprio per prevenire un più che probabile sfarfallio di berretti, fazzoletti e
commenti di ogni tipo da parte dei suoi aitanti e focosi alpini al solo
intravedere una parvenza femminile, aveva preannunciato punizioni a raffica nel
caso si fosse manifestato il ben che minimo comportamento fuori luogo e così i
ragazzi dovettero accontentarsi di esaurire nella fatica della marcia sulla
neve le loro insistenti pulsioni ormonali.
In poco più di due ore la truppa
giunse a destinazione.
Una volta sistematisi negli
spartani ma comunque accoglienti alloggi della caserma, gli allievi compresero
all’istante che avrebbero goduto di tale comfort solo per mangiare e per
dormire.
Tutte le attività infatti
avrebbero ruotato intorno alla D.E., situata in quel di Pont Serrand (‘ponte su
una stretta gola’), una piccola frazione a quota 1.630 lungo la strada che
conduce al passo del Piccolo San Bernardo, a poco meno di 3 chilometri dalla
caserma Monte Bianco.
Risalendo il
vallone di Orgère
La D.E., nel caso di
esercitazioni all'aperto, corrispondeva alla posizione in cui doveva trovarsi
chi aveva il compito di comandare le stesse e che quindi doveva attuare la
Direzione dell’Esercitazione. Corrispondeva pertanto, la D.E., con il punto più
strategico per poter godere da un lato della miglior estensione visiva
possibile senza però dall’altro essere troppo esposto alla vista del nemico.
La D.E. venne localizzata su un
piccolo cocuzzolo a monte delle frazione, separato dalle pendici del monte Belleface e
dal vallone di Orgère da un profondo orrido attraversato da un piccolo
ponte.
Lì, a Pont Serrand, la prima
compagnia si trasferiva in marcia ogni giorno e cominciava le faticose e ripetute
esercitazioni di assalto.
A mezzogiorno veniva servito il
rancio: i maccheroni caldi gelavano velocemente e si attaccavano alla gamella
mentre il vino, nel gavettino che si teneva in mano in un continuo movimento
tremolante per il freddo intenso, faceva su ghiaccio.
Poi nel tardo pomeriggio,
stravolti, i ragazzi facevano rientro a casa, salvo dover talvolta ripartire
nuovamente la sera, quando il programma di addestramento prevedeva il
supplemento della prova notturna, che sarebbe poi stata, alla presenza di tutti
gli alti graduati, la grande rappresentazione di fine corso a dimostrazione del
livello di preparazione conseguito.
La complessa esercitazione
consisteva nel simulare una vera e propria incursione armata contro una
postazione nemica, dove l’intera compagnia doveva agire in perfetta sincronia
per cercare di raggiungere l’obiettivo, rappresentato della conquista
dell’avamposto avversario.
I vari plotoni della prima
compagnia, a turno, salivano verso i suddetti Belleface e Orgère ed iniziavano
la loro fatica.
Mentre un plotone era impegnato
nella complessa fase di addestramento, gli altri compagni, dalla piazzuola
della D.E., dovevano seguire attentamente le varie fasi dell’attacco per
impratichirsi a loro volta.
Inoltre, per evitare di restare
paralizzati dal freddo, considerando che in quel periodo, nel pieno
dell’inverno, in zona vi era molta neve e le temperature erano scese al di
sotto dello zero, gli allievi A.U.C. non avevano trovato di meglio che
continuare a saltellare sulla neve.
Fu così che in queste pause
forzate si decise di costruire un igloo per scacciare il freddo e dare un senso
all’attesa. Le baionette del Garand erano ideali per la bisogna, la neve
sovrabbondava ed aveva la dovuta consistenza, pressata com’era, dai reparti che
vi stazionavano da giorni.
La sua collocazione sarebbe stata quella
del piccolo cucuzzolo dove si era appostata la direzione dell’esercitazione.
Architetti e manovalanza si misero
subito all’opera.
Giuliano Levrero, l’architetto, si
occupò della fase progettuale.
Giovanni Buffa, Pier Giuseppe
Cerri, Marco Fioroni e Pier Giorgio Marguerettaz, l’alta manovalanza laureata,
coadiuvati da qualche altro compagno, utilizzando con consumata esperienza le
loro baionette, provvidero a ritagliare dalla neve ben compattata dei
parallelepipedi simili come dimensione ai blocchetti in cemento usati
nell’edilizia.
E con questi mattoni, a tempo di
record in solo due giorni, realizzarono un bellissimo igloo capace di contenere
una decina di persone.
… si decise di
costruire un igloo …
Fu soprattutto durante le
esercitazioni notturne, quando il freddo era molto intenso, che l’igloo rivestì
un ruolo determinante, diventando il posto perfetto dove imboscarsi per qualche
minuto per godere di un piacevole tepore, in attesa che arrivasse il proprio
turno di lavoro.
Pier Giuseppe
Cerri a guardia dell’igloo
Per fortuna dei ragazzi, i brevi
periodi di riposo che si trascorrevano alla caserma Monte Bianco erano davvero
ristoratori.
C’era persino una sauna
finlandese.
Ai trenta secondi di doccia
bollente, a membra scoperte (cioè nudi come mamma li fece), faceva seguito un
immediato rotolamento nella neve fresca, e così via per 3 o 4 volte, anche se
talvolta capitava che di acqua calda non ve ne fosse a sufficienza per tutti e
pertanto il bel giochino restava a vantaggio solo dei primi arrivati.
Il campo invernale stava ormai per
terminare ed arrivò finalmente il tanto atteso momento della grande
esercitazione finale in notturna.
Antonio De Paoli e i
compagni delle Trasmissioni avevano alacremente lavorato per tutto il giorno.
Avevano steso dei cavi telefonici che partivano dalle sagome poste nella parte
alta del Vallone di Orgère per arrivare fino a circa la metà della posizione di
partenza per gli sbalzi dei Fucilieri. Ai piedi delle sagome avevano collegato
delle lampade, alimentate con delle batterie, ai cavi telefonici. Dopo aver
scavato delle buche sotto la neve, vi si nascosero e congiunsero le batterie e
i cavi telefonici a delle specie di interruttori che avrebbero poi usato per
simulare l’intermittenza dell’illuminazione delle sagome. Li aspettarono
l’inizio delle operazioni.
La tanto sospirata
ora X stava per scoccare.
Il maggiore
Verunelli, comandante dei battaglioni AUC, aveva preso posto con il tenente
Folegnani sul cucuzzolo della D.E.
Si respirava un
clima di esaltata tensione.
Tutta la compagnia
era già sistemata da tempo sul costone della montagna, mimetizzata nel vallone
innevato.
Un razzo colorato
diede il via alle grandi manovre. Si scatenò l’inferno.
L’articolata e complessa
operazione durò pochissimi minuti.
I primi ad entrare in funzione
furono i pionieri ed i mortaisti. I pionieri spararono con il lanciarazzi tre
grosse corde detonanti (le ‘vipere Bofors’) sul presunto campo minato, aprendo
così tre corridoi bonificati per il passaggio dei fucilieri, mentre mortaisti e
cannonieri sparavano i loro colpi a parabola direttamente sull’obiettivo.
Pochi secondi dopo, giusto il tempo necessario
perché i corridoi aperti dalla ‘vipera’ fossero percorribili, scattarono gli
agili fucilieri, che si lanciavano coraggiosamente verso l’obiettivo alla
massima velocità, garand con baionetta innestata in pugno. Contemporaneamente
al balzo dei fucilieri, i capi mitragliatori con i due porta munizioni,
dopo essersi portati rapidamente in posizione idonea, coprirono la veloce corsa
dei compagni fucilieri con fuoco a raffica continua (dove per ‘raffica
continua’ si intendeva fuoco ad intervalli rapidi, ma senza sosta).
Era trascorso poco
più di un minuto dall’inizio dell’operazione, che all’istante cessò il fuoco a
parabola dei cannonieri, onde evitare che potesse colpire i compagni fucilieri
ormai in fase di arrivo sull’obiettivo.
Intanto i
trasmettitori, nascosti nei buchi di neve, vedevano passare sopra le loro teste
i proiettili traccianti sparati verso le sagome, che si illuminavano per
qualche secondo per poi dissolversi nel buio.
Lo scenario era di
grande effetto: la notte era limpida, tutto l’ambiente circostante era bianco
di neve, verso la parte alta del Vallone delle luci sparute, quasi fossero un
Presepio, indicavano la presenza di piccole baite mentre sopra, nel cielo
stellato, le scie colorate dei colpi traccianti illuminavano a giorno l’ultima
fatica dei giovani soldati.
Con grande
soddisfazione di tutti, il maggiore Verunelli si complimentò con il comandante
per l’ottimo livello di preparazione raggiunto dalla truppa e non mancò di
apprezzare l’igloo, che aveva reso un poco più confortevole anche la sua breve
permanenza in zona D.E..
Il conclusivo
ristoro ai suoi ragazzi il generoso igloo lo offrì il giorno successivo: saliti
a Pont Serrand un’ultima volta per recuperare il materiale usato per
l’esercitazione, a lavoro ultimato, la squadra dei trasmettitori si stese a
riposare al suo interno in attesa di venire riportata a casa dai mezzi di
recupero.
Quando i ragazzi se
ne andarono guardando con affetto il grande igloo quasi fosse un caro amico che
li aveva protetti dal freddo pungente per tanti giorni ed altrettante notti, la
calotta di ghiaccio, ormai soddisfatta per avere a sua volta portato a termine
il proprio compito, cominciò progressivamente a sciogliersi.
Qualche giorno dopo,
approfittando della lunga licenza natalizia, Piergiorgio Marguerettaz risalì a
Pont Serrand con la sua dolce metà. Voleva mostrarle l’ingegnosa opera edilizia
realizzata con i suoi compagni.
Ma del grande amico
igloo era rimasto soltanto un mucchietto di neve marcia.
CAPITOLO
32
UNA
NOTTE SOTTO LA NEVE
Giovedì,
9 dicembre 1971.
L’impegnativo
campo invernale stava ormai per giungere a conclusione.
Mancava
ancora un ultimo ostacolo da superare: la prova di sopravvivenza! In altre
parole, si trattava semplicemente di trascorrere un’intera notte a quota
duemila metri, più o meno a venti gradi sotto zero, creando dei piccoli
ricoveri naturali utilizzando esclusivamente la neve!
La
località prescelta ove trascorrere quell’originale notte polare fu la cima del
Colle San Carlo, valico di passaggio che congiungeva il paesino di La Thuile
con la frazione di Morgex.
Contrariamente
alle attese, la salita al passo, per quanto faticosa, risultò meno improba del
previsto.
Del
resto, i sette chilometri di strada innevata che portavano dai 1.441 metri di
altitudine di La Thuile ai 2.000 metri del colle San Carlo, non potevano
rappresentare un ostacolo insormontabile per dei ragazzi allenati ed in buona
forma fisica.
La
vera difficoltà, per la maggior parte degli allievi, fu piuttosto rappresentata
dal peso dello zaino, fonte di continuo sbilanciamento.
Pendeva
di tutto, dagli zaini: la gavetta, il badile pieghevole, il fucile, la
borraccia.
Anche
gli sci in dotazione non erano il massimo della tecnologia: due legni
stagionati, pitturati di bianco, talvolta disuguali tra loro, con due lamine arrugginite
avvitate ai lati. La loro scorrevolezza
era un optional non incluso.
Gli
attacchi di sicurezza?
Sarebbe
stato un sogno irrealizzabile. Quegli sci avevano dei superati attacchi a
ganascia, con la classica molla posteriore e con la leva davanti per tenderne
il cavo. In caso di caduta non si sarebbero sganciati neppure invocando la
Madonna degli Alpini!
Le
pelli di foca? Solo impensabile immaginare che fossero pelli di ultima
generazione, con la banda di tessuto sintetico adesiva da un lato e ricoperta
dall’altro di fibra tessile orientata: erano semplicemente due strisce conciate
(doppio senso quanto mai appropriato) di pelle animale, con i lacci di cuoio
che si rompevano o slacciavano di continuo. Affermare che quelle pelli fossero
un filino superate ed usurate non è neppure un eufemismo.
… salendo verso il Colle S.Carlo…
Gli
allievi salirono le ripide rampe verso il Colle San Carlo a passo lento e
costante.
La
fatica, complice il peso dello zaino, si faceva sentire.
In
lunga fila indiana proseguirono senza intoppi il loro cammino.
Nel
primo pomeriggio raggiunsero la cima del colle.
Lo
spettacolo che si presentò loro era superbo.
Il
panorama sulle due valli sottostanti era molto ampio ed a nord-ovest la vista
si perdeva fino a raggiungere le rampe finali del colle del Piccolo San
Bernardo.
I
ragazzi deposero i pesanti zaini sulla neve e cominciarono a rifocillarsi.
Era
trascorsa poco più di mezzora quando il comandante Folegnani, assistito dagli
altri graduati della prima compagnia, provvide a formare squadre di quattro
allievi ciascuna ed a predisporre la disposizione delle trune.
Immediatamente,
con solerte ed intatta energia, rinvigoriti dai viveri di conforto, i ragazzi
si misero all’opera.
Per
loro fortuna, a differenza dell’igloo che richiedeva una perizia costruttiva
nient’affatto banale, la truna era abbastanza semplice da realizzare.
Ligi
alle spiegazioni tecniche ricevute dai loro superiori, i gruppi di quattro allievi
cominciarono a scavare nella neve con il piccolo badile pieghevole. Per
raggiungere la corretta dimensione della truna, all’incirca 3 metri per 2 con
un’altezza interna di almeno 80 centimetri, le prime squadre impiegarono quasi
due ore.
Successivamente
bisognava completare l’opera con la realizzazione, si fa per dire, della
pavimentazione, della copertura, della porta d’ingresso e dell’impianto di
riscaldamento.
I
servizi igienici non erano inclusi: alla bisogna era sufficiente uscire dalla
truna (ma la cosa avrebbe comunque presentato qualche piccolo problema) e fare
pipì od altro ad una ventina di gradi sotto lo zero.
Non
disponendo di parquet e neppure di moquette, fu un abbondante strato di rametti
di pino, poi ricoperto da un telo militare, a fare da funzionale sistema
isolante. Questa operazione si concluse rapidamente e non presentò alcuna
difficoltà.
La
copertura della truna richiese invece una maggiore diligenza edilizia. L’intelaiatura
ad incrocio di rami, sci e bastoncini doveva infatti, ricoperta dal solito telo
militare, essere in grado di sostenere il tetto vero e proprio, nella
circostanza almeno trenta centimetri di neve. Qualche quartetto, purtroppo, causa
la relativa carenza ingegneristica, fu costretto a ripetere l’operazione più di
una volta. Fortunatamente, alla fine, tutte le trune presentavano una corretta
copertura.
Pronti per la notte
Davvero
geniale fu la messa a punto dell’impianto di riscaldamento. Furono realizzati
dei micro caloriferi, rappresentati da due candele incerate a due gavette.
Opportunatamente posizionati all’interno della ‘suite’, avrebbero dovuto
garantire una temperatura intorno ai 5 gradi sopra lo zero. Incredibilmente,
questo originale impianto funzionò alla perfezione e meglio riscaldò dove
maggiore era stato lo spessore di neve impiegato nella costruzione del tetto.
Per
terminare la realizzazione degli interni, furono lisciate al meglio le pareti
per impedirne il gocciolamento, mentre il ricambio dell’aria venne garantito
praticando con un bastone due piccoli fori, l’uno nella parte bassa
dell’ingresso e l’altro nella parte alta della truna.
La
porta di accesso al locale, rigorosamente dalla parte dei piedi e
preferibilmente sottovento per evitare l’ingresso violento e diretto di aria
fredda, fu realizzata impilando gli zaini, cercando di tappare nel modo
migliore tutti i possibili spifferi.
Stava
calando definitivamente la luce quando anche l’ultima squadra completò la
costruzione del proprio alloggio di fortuna.
Quell’originale
accampamento composto da una quarantina di casette di ghiaccio era pronto per
ospitare tutti gli allievi.
Invitati
dal loro comandante, i ragazzi si ritirarono nelle trune.
La
temperatura esterna era già precipitata sotto lo zero.
Con
cura, i ragazzi attivarono l’impianto di riscaldamento.
Al
lieve tepore di questi ingegnosi ripari, si prepararono a cenare. Aprirono le confezioni
di razione K.
Ne
controllarono il contenuto con l’attenzione di chi sa che, dal punto di vista
alimentare, rappresentavano tutto quanto avevano a disposizione. C’era una
bustina di cordiale, del caffè, del cioccolato, un tubetto di latte condensato,
qualche galletta, della carne in scatola, dei fagioli e, per terminare, dieci
sigarette (che rappresentarono un’ottima merce di scambio tra fumatori e
non-fumatori).
La
minuscola dimensione del locale-loculo, come lo definì Robertino Salati,
invitava a parlare sottovoce.
Si
cenò in tutta calma poi, con movimenti disciplinati per non urtare il compagno
vicino, ci si infilò nei sacchi a pelo.
Prima
che il sonno vincitore abbracciasse l’intera compagnia, ci fu solo il tempo per
scambiarsi quattro chiacchiere. La preoccupazione su come avrebbero trascorso
la notte fu l’argomento più gettonato.
Alle
quattro del mattino suonò, brusca e improvvisa, la sveglia. Non era il solito
squillo di tromba cui erano stati abituati in caserma, bensì la roca voce del barbuto
sottotenente Gosso che, passando di truna in truna, dopo aver spostato gli
zaini all’ingresso, sollecitava la truppa con un perentorio: ’Sveglia, smontare
tutto. Si riparte!’.
Robertino,
appena uscito dal suo loculo, per prima cosa si prese la briga di misurare la
temperatura: 20 gradi sotto lo zero!
Poi
si soffermò ad ammirare, solitario, l’incantevole spettacolo dell’alba nascente
in un paesaggio ammantato di candida neve.
La
magia, purtroppo, durò solo pochi istanti poiché in pochi minuti l’accampamento
si ripopolò.
Infatti,
uno dopo l’altro, tutti i ragazzi sbucarono velocemente dai loro alloggi e, con
incontrollata rapidità, distrussero quel momento incantato innaffiando di caldo
liquido giallognolo buona parte del bivacco. Una volta espletati, e
disciplinatamente ricoperti, i bisogni fisiologici, tutti si misero alacremente
al lavoro.
Del
resto, anche per i più pigri era preferibile restare attivi e in movimento
piuttosto che soffrire inoperosi al gelo.
Nell’arco
di un’ora l’accampamento venne completamente smontato e l’intera zona
adeguatamente ripulita.
La
prima compagnia del 64 corso AUC aveva brillantemente superato la tanto temuta
prova di sopravvivenza ed era pronta per il ritorno in caserma.
Inaspettatamente,
i dieci chilometri di rientro fino a Morgex rappresentarono un ostacolo molto
più arduo da superare rispetto alla salita del giorno precedente.
Durante
la discesa, infatti, accadde di tutto.
La
lunga fila indiana che avrebbe dovuto serpeggiare ordinata lungo i continui
tornanti che scendevano verso valle, fu di continuo interrotta da ripetuti
capitomboli.
Diverse
le cause che determinarono questa piccola ecatombe.
I
circa 30 kg. di peso dello zaino e l’impossibilità di ancorarlo al petto
essendo lo stesso sprovvisto degli appositi lacci, furono senza dubbio un motivo
rilevante. Ad ogni curva, infatti, il peso dello zaino ti spingeva dalla parte
opposta e mantenere l’equilibrio diventava uno sforzo improbo se non del tutto
inutile. A complicare poi le cose, ben presto i ragazzi si accorsero che, una
volta caduti, era impossibile rialzarsi da soli e necessitavano due solidali
compagni che, preso il tapino per le braccia, lo risollevassero in piedi.
Ma
responsabili di questa strage furono anche coloro che si ritenevano sciatori di
buon livello. Convinti infatti di poter controllare senza alcuna difficoltà i
due obsoleti pezzi di legno che avevano ai piedi, si lanciarono in ripetuti
sorpassi, convinti di potersi fermare a sci paralleli ed in assoluta eleganza
come erano solito fare volteggiando sulle piste ben battute ed innevate. Fu una bella musata nella neve fresca a
riaccendere la lampadina della saggezza, riportandoli a più miti atteggiamenti.
Immense
difficoltà le ebbe anche e soprattutto chi, per fortuna un’esigua minoranza,
non era uso agli sci. Per costoro la discesa si rivelò un ostacolo
insormontabile e dopo qualche vano tentativo, furono costretti a procedere a
piedi.
Infine,
l’ultima ragione di questo scempio sciistico, e probabilmente era la causa
principale, fu l’immane stanchezza determinata da due giornate tanto
indimenticabili quanto faticose. Il peso dello zaino trasportato camminando
all’andata o mal sciando al ritorno, il freddo intenso per buona parte del
tempo, una notte gelida per molti quasi insonne, un’alimentazione da soldati al
fronte, avevano sottoposto a durissima prova la resistenza dei ragazzi.
Poi,
come sempre accade al termine di una faticosa, impegnativa e per certi versi
indimenticabile impresa arrivata a buon fine, l’immensa soddisfazione per il
risultato raggiunto ebbe ben presto il sopravvento.
Cominciarono
a sprecarsi i commenti più aulici.
C’era
che affermava che ormai si fosse diventati dei veri soldati e grandi uomini
tutti d’un pezzo, altri si lasciavano andare a valutazioni più profonde,
pensando a quanto, immersi tra le nevi sulle candide montagne, si fossero
purificati il corpo e la mente, e così via senza dar limite alla creatività
della fantasia, per di più ubriacata dall’abbondante stanchezza.
Fu
l’affermazione improvvisa del solito burlone di turno che, scatenando l’ilarità
dei presenti, riportò tutti con i piedi per terra: “Non mi sono mai rotto così
tanto il culo come in questa discesa di merda!”.
Finalmente Morgex.
Un affaticato Gazzera a sinistra, al centro un
perplesso Peracchia,
un pensieroso Rosana seduto, un assetato Sandrone
in piedi.
CAPITOLO 33
LA VENDETTA DEL COLLE SAN CARLO
Così come il nostalgico
Piergiorgio Marguerettaz volle risalire a Pont Serrand qualche giorno dopo
l’imponente esercitazione a fuoco della prima compagnia, anche Luciano Ivaldi
pensò bene di ritornare su un altro luogo del delitto.
Più saggiamente di
Piergiorgio, Luciano preferì però aspettare che terminasse la fredda stagione
invernale e, in occasione di un caldo week-end di fine agosto, approfittando di
un breve periodo di tregua alla caserma di Bra dove era stato assegnato,
propose alla dolce Mariuccia, che due anni più tardi sarebbe diventata sua
moglie, di andare con lui, in tenda, sul Colle San Carlo. Voleva rivedere in
estate i luoghi dove, con i suoi compagni del 64°, si era accampato in inverno.
La ragazza accettò senza
troppo entusiasmo, preferendo da sempre i più confortevoli resort ai campeggi.
Partirono da Bruno in
auto, non troppo presto. Lasciarono alle spalle prima Torino e poi Aosta. Era
una splendida giornata, il sole riscaldava la terra e i cuori. Un tornante dopo
l'altro arrivarono al Colle.
Lasciarono l'auto in un
piccolo slargo della strada.
Prima di incamminarsi
lungo i sentieri, Luciano dispiegò una cartina militare per individuare il
luogo preciso che aveva in mente. Proseguirono a piedi sotto i pini. Luciano
avanzava con lo zaino in spalla, Mariuccia portava il cibo: yogurt, sottilette
e pan carré (sic!).
Una breve salita li
condusse alla meta. Il sole era allo Zenit.
Quell'inverno, quando il
64° si accampò sul Colle, la neve ricopriva ogni cosa. Gli alberi erano ricurvi
sotto mantelli immacolati, gli animali riposavano in letargo nelle tane, gli
uccelli cercavano riparo nel bosco.
A pochi mesi di distanza,
la natura era in trionfo: germogli vigorosi, profumi di muschio, uccelli in
volo.
Luciano provò un'emozione
immensa quando vide sul terreno i rami secchi che, verdi, aveva posto con i
suoi compagni nelle trune. Ripensò alle innumerevoli casette bianche, una
vicina all'altra. Un fortino fragile, che per una notte aveva resistito al
gelo. La truna di Capitan Folegnani era un poco più appartata. Grande Tex!
Manteneva le distanze, sarebbe bastato un suo piccolo cedimento e sarebbe stato
sopraffatto.
Sopita l'emozione, iniziò
a tirar su la tenda.
Era una bellissima
giornata: cielo azzurro, sole caldo, tutto lasciava presagire una vacanza
stupenda. All'improvviso, non era passata un'ora, nuvoloni scuri si addensarono
all'orizzonte. In pochi istanti furono sopra alla giovane coppia. Il giorno
divenne notte. Lampi di fuoco fendevano il buio, tuoni rintronanti scuotevano
la terra. Un vortice sollevò un lembo della tenda e una cascata d'acqua piovve
loro addosso. Finirà quest'inferno, pensarono. Bisognerebbe fare come la
betulla, chinare il capo e girare le spalle al vento.
La bufera non si
quietava. Un fulmine colpì un pino sul crinale di fronte a loro. Un troncone si
spezzò dall'albero e rotolò giù dalla china.
Mariuccia, pallida in
viso, con un filo di voce disse: “Andiamo in auto, saremo più al sicuro!”.
Di corsa guadagnarono il
riparo. La pioggia mutò in tempesta. Biglie di ghiaccio percuotevano la
carrozzeria con un fracasso metallico. Pareva di essere sotto il tiro di mitraglie.
E' in quel frangente che
Luciano Ivaldi pensò alla vendetta del Colle San Carlo.
Loro, gli alpini del 64°
lo avevano sfidato e lo avevano destato dal suo sonno invernale. Avevano
calpestato le sue nevi, si erano accampati nel suo ventre, avevano bivaccato
nelle trune. Erano un esercito in armi e lui, il colle, senza difesa, subì in
silenzio e non volle reagire.
Ma il gigante non aveva
dimenticato. Era rimasto in agguato per vendicare l'onta subita. E trovò
Luciano e Mariuccia disarmati, con il cuore tenero e con lo sguardo dolce.
Toccò a loro pagare per tutti.
Quando quell'inferno
finì, risalirono la china fangosa per vedere cos'era rimasto delle loro cose.
Faceva freddo, gli abiti erano inzuppati.
“Torniamo a casa”, disse
Mariuccia.
Luciano recuperò gli
stracci e guardò per l'ultima volta il Colle.
Il vento aveva spazzato
via i rami secchi delle trune.
P.S. In autostrada,
lasciata la Valle d'Aosta, la coppietta di innamorati ritrovò l'estate. Si
fermarono all'Autogrill. Gente allegra, turisti in bermuda e infradito. Luciano
disse a Mariuccia. “Sei sicura di voler tornare a casa?“. “Hai delle
alternative?” rispose. “Ti porto al mare!”.
Quella notte dormirono teneramente
abbracciati in un hotel a Santa Margherita Ligure!
CAPITOLO
34
IL
SERVIZIO DI GUARDIA E UNA 500 ROSSA
Il
64° corso AUC fu il primo a veder abolito il cosiddetto periodo di
‘sergentato’.
Dapprima
infatti l’impegnativa fase di addestramento prevedeva cinque mesi di
preparazione alla SMAlp con un ostico esame orale di fine corso.
Successivamente
si veniva trasferiti presso un reparto come Sergenti AUC per la durata di tre
mesi ed anche qui bisognava superare una sorta di verifica, questa volta però
rappresentata soltanto da un giudizio di idoneità rilasciato da parte dei
superiori.
Se
tutto filava liscio arrivava la nomina a Sottotenente e i conseguenti ultimi
sette mesi di vita militare, prima di conseguire l’agognato ben servito da
parte dell’Esercito Italiano.
Questa
abolizione del ‘sergentato’, con l’allungamento del corso di un mese (da 5 a 6)
e la non immediata messa a punto del nuovo e più completo piano di
addestramento, fece sì che i ragazzi del 64mo si trovarono a seguire i
programmi stabiliti per cinque mesi di corso avendo però un mese a disposizione
in più.
In
pratica avvenne che nei primi cinque mesi si completò l’intero programma e di
fatto ‘avanzarono’ una trentina di giorni di vita in caserma non programmata.
Una
prevedibile domanda sorgeva spontanea: “Cosa si poteva fare di quei 180 e passa
allievi, con tanto di brevetto e la stelletta in tasca?”.
Altrettanto
scontata era la conseguente risposta: “Servizi, servizi, servizi!”.
I
turni di guardia si susseguirono senza tregua: Pollein, picchetti esterni,
servizi di ronda.
Alla compagnia AUC erano affidate le
seguenti guardie: quella ordinaria, che veniva fatta all’ingresso della caserma
e che comprendeva la guardia alla garitta, il picchetto, che veniva effettuato
nel corpo principale della caserma, la guardia alle aule didattiche, ovvero
alla casermetta Ramirez, quella all’eliporto di Pollein ed infine quella al
Castello, dove risiedeva il comandante generale della scuola, di pura
rappresentanza. Oltre alle guardie c’erano il servizio di fureria, chiamato
‘allievo di giornata’, e le corvée varie: in mensa, nelle camerate, nei cessi e
nei cortili.
(da ‘L’ultima vacanza’ di Peter Disertori)
Tutti
i ragazzi, indistintamente, fecero la loro parte.
Il
vero problema fu comunque il freddo.
Intorno
alla metà di dicembre del 1971, la fredda piana di Aosta, contornata dalle sue belle
montagne (Becca di Nona, Monte Emilius, Punta Chaligne e Becca di Viou erano
ormai diventati nomi più che familiari) si presentava già imbiancata da una
discreta nevicata.
Le
temperature viaggiavano sottozero tanto da far ricordare le esercitazioni a La
Thuile di qualche settimana prima.
Soprattutto
la notte si raggiungevano picchi ben oltre i 10° sottozero e le due ore, tanto
era la durata di ogni turno, da trascorrere al gelo pungente non
rappresentavano di certo il massimo del confort cui si potesse aspirare.
E
se la maggior parte degli allievi di volta in volta incaricati alla bisogna
eseguì con assoluta disciplina le disposizioni ricevute, ve ne furono altri
che, molto meno ligi, trovarono più o meno originali vie di fuga per quanto
meno limitare i disagi determinati da quel troppo rigido clima invernale.
Tra
le anime ribelli non poteva certo mancare l’irrequieto Vinicio Callegari.
Gli
era toccato il servizio di guardia intorno alla caserma nell’infelice orario
dalle due alle quattro di notte.
Il
vento gelido gli tagliava le orecchie e i baffi si erano imbiancati dal vapore
del naso che colava.
Gli
indumenti in dotazione non rappresentavano il massimo per una buona protezione
dal freddo e le rigide disposizioni di servizio vietavano di rialzare il bavero
del cappotto per riparare almeno le orecchie.
Vinicio
camminava lungo il marciapiedi evitando di pensarci.
I
minuti trascorrevano lenti ma, in quelle condizioni, erano lunghissimi.
Per
di più pesava il fatto, pensava erroneamente il ragazzo, che un ufficiale in
pectore non avrebbe dovuto fare quei turni di guardia.
La
prolungata esposizione all’aperto provocava inoltre la sensazione che freddo e
vento fossero ulteriormente aumentati.
Vinicio
non sentiva quasi più neanche le mani nelle muffole ed i piedi nei Vibram.
Non
passava nessuno, neppure il motore di un’automobile rumoreggiava lungo la
strada davanti alla caserma.
Nella
quasi totale disperazione Vinicio si accorse che qualche lacrima di nervoso e
di rabbia gli bagnava le guance.
Ormai
stufo di offrirsi a quelle assurde condizioni metereologiche che forse
giudicava più inutili che estreme, dopo aver biascicato tra sé e sé qualche
incomprensibile accidente liberatorio, scelse di auto-ricoverarsi all’interno
del confortevole e riscaldato locale guardiola della porta carraia.
Fidando
nell’orologio a suoneria che aveva ricevuto in dono dalla sua morosa, decise di
schiacciare un pisolino.
Per
sua fortuna, la cipolla adempì al suo dovere ed avvisò per tempo il ragazzo che
il turno stava per terminare.
Vinicio
si svegliò di soprassalto e ripiombò di tutta fretta in strada.
Sempreché
fosse possibile, il freddo sembrava ancora incrementato, e … l’imprevisto era
sempre in agguato!
Il
malaugurante intoppo questa volta si materializzò nella persona del Capoposto.
Alla
sua presenza, Vinicio, preoccupato ma imperterrito, passò le consegne al
collega montante.
Il
Capoposto lo fissava impassibile.
A
consegne ultimate, il ragazzo ed il suo superiore rientrarono in caserma.
Vinicio
aspettava che la mazzata lo colpisse con la solita severità.
Camminarono
affiancati per pochi secondi, poi i due separarono le loro strade senza che
nessuno dicesse niente.
Il
disubbidiente Vinicio, inaspettatamente graziato, non seppe mai se a salvarlo
fosse stato il buon cuore del superiore forse addolcito dal prossimo arrivo del
Natale o l’opportuno orologio della sua ragazza.
***
Qualche
giorno più tardi, quando venne il suo turno, neppure l’apparentemente
tranquillo e disciplinato Paolo Moneta si dimostrò particolarmente rigoroso
nello svolgere in modo corretto il servizio di guardia.
Paolo,
dopo la prima licenza verso casa, era rientrato ad Aosta con la sua
affezionatissima ‘bomba’: una strepitosa 500 L, rossa fiammante, che aveva
parcheggiato nel grande piazzale alberato che fronteggiava tutto il lato
principale della caserma che correva lungo il viale San Martin de Corleans.
Gli
serviva, la mitica utilitaria, per delle sistematiche fughe vespertine a
Courmayeur, durante l’orario di libera uscita. Di quelle quattro risicate ore,
poco più di una era consumata per il viaggio di andata e ritorno, ma i momenti
restanti erano dedicati a spassarsela con la fidanzatina e con gli amici di
sempre con i quali andava da anni in villeggiatura nella lussuosa località
valdostana.
L’iter
della ricorrente evasione era ormai consolidato. Appena scoccata l’ora della
libera uscita, il ragazzo si precipitava, a guisa della partenza della
ventiquattrore di Le Mans, all’interno dell’abitacolo della sua Formula 1.
Una
volta acceso il rombante motore, ancora in perfetta divisa, percorreva a tutta
la statale della valle fino ad un piccolo bivio all’altezza di Sarre. Qui
scattava l’operazione di cambio dei vestiti. Così liberato dei pericolosi
indumenti di riconoscimento, continuava il suo breve viaggio fino a raggiungere
Courmayeur. Analogamente, procedeva con la medesima sequenza operativa, questa
volta all’incontrario, nel percorso di rientro in caserma.
Per
sua fortuna, non venne mai scoperto.
Orbene,
dopo questa breve divagazione, si può tornare al servizio di guardia ed al
secondo fondamentale ruolo ricoperto dalla gloriosa 500 rossa.
Paolo,
la sua amata vetturetta, l’aveva attrezzata a dovere.
Non
ci era voluto molto: due piccoli cuscini ed un pesante plaid di lana merinos,
che la solita mamma premurosa gli aveva messo in mano prima che partisse da
casa, erano più che sufficienti alla bisogna.
Fatto
sta che il ragazzo, quando montava di servizio esterno nelle ore notturne, dopo
i primi dieci minuti in cui percorreva come da disposizione il marciapiedi
perimetrale della caserma in senso antiorario, subito dopo si rifugiava nel suo
piccolo ma accogliente ricovero.
Si
sedeva sul sedile anteriore destro (non essendoci il volante era un poco più
spazioso) e posizionava il primo cuscino dietro il fondo schiena ed il secondo
dietro la testa. Quindi si avvolgeva nella calda coperta.
Qui
subentravano altri due importanti elementi di conforto.
Il
primo era rappresentato da una mini bottiglietta di Genepy Ottoz, che Paolo
gestiva con saggia oculatezza. Il secondo era un originale compagno di viaggio:
la trasmissione radio ‘Notturno italiano’, cui, dopo mezzanotte, si collegavano
tutti i tre canali della RAI e che allietava gli ascoltatori fino alle 5.30 del
mattino.
Così
adeguatamente sistemato, Paolo trascorreva la maggior parte del suo servizio di
guardia.
Poi,
poco prima che terminasse il suo turno, il ragazzo, dopo aver riordinato
l’occasionale cameretta, ricominciava come se niente fosse ed in perfetta forma
a marciare lungo il marciapiede, per poi procedere al rituale passaggio di
consegna al collega subentrante.
Paolo
Moneta e la sua 500 rossa non vennero mai smascherati.
Probabilmente
il destino aveva operato una sorta di compensazione pensando ai tre giorni di
cella di rigore che il ragazzo aveva dovuto ingiustamente sopportare qualche
tempo prima.
CAPITOLO 35
UNA
NOTTE A POLLEIN
Anche Alberto
Orecchia, seppur già sottotenente in pectore, non riuscì ad evitare l’ennesimo
turno di servizio
Per sua somma
sfortuna, gli venne comandata, insieme ad altri colleghi, una guardia a
Pollein.
Salì sull'ACL
(autocarro carichi leggeri) con i suoi compagni di sventura e già all'uscita
dalla carraia riecheggiavano rumorose le loro colorite imprecazioni per quel
servizio considerato al pari di una delle peggiori corvè assegnabili in quei
lunghi mesi trascorsi alla caserma Cesare Battisti.
Pazienza! Ancora
pochi giorni e sarebbero tornati finalmente a casa con la licenza ordinaria e
l'agognata stelletta.
Ingoiarono a
malincuore l'amaro calice ed arrivarono in quella landa desolata che avevano
ben tristemente già conosciuto altre volte e che ora li attendeva imbiancata da
una copiosa nevicata.
Va ricordato che in
quei giorni l'eliporto era stato fatto oggetto di ripetute azioni di disturbo
con lanci di sassi nelle ore notturne da parte di malintenzionati o forse di
seguaci del dio Bacco ebbri oltre misura. Circolavano varie versioni fantasiose
di quegli eventi anche perché nessuno aveva voluto o era stato in grado di
affrontarne direttamente la realtà.
Ciò comportava
dunque una vigile attenzione.
Giunge la sera e
impietosa calò la notte.
La neve rendeva
spettrale quella ghiacciaia. La colonnina di mercurio segnava -20°!
Arrivò il turno di
guardia di Alberto Orecchia.
La rigida consegna
comportava di procedere dal piazzale antistante gli hangar fino al limitare
della recinzione contornata da arbusti. Già era duro resistere al rigore di
quella temperatura insolita per un marinaio come il genovese Alberto, se poi si
doveva anche esplorare con lo sguardo e non solo, anche a passi, quel buio nero
che ti avvolgeva come il negativo di una pellicola, allora il tutto poteva
pesare maledettamente.
Neanche la bustina
di ‘Cordiale’ in dotazione lo aiutò ad alleviare quel pesante disagio.
Dopo qualche minuto
un piccolo rumore verso il limite della recinzione attirò la sua attenzione.
Pareva esserci
qualcosa.
Scorse in lontananza
un luccichio, anzi due! Vaneggiava? La bustina di cognac che aveva ingurgitato
poco prima conteneva qualche allucinogeno? Porca miseria, Alberto era astemio,
ma non poteva credere che solo per quell'intruglio inghiottito alla bisogna
avrebbe potuto avere strane visioni! Era titubante. Avanzò con la massima
cautela verso quei due puntini nel buio che ogni tanto scomparivano per
presentarsi poi poco più vicino. Era curiosamente allarmato, ma doveva
osservare la sua consegna.
La neve ghiacciata
rumoreggiava sotto i suoi passi sempre più lenti.
Si tolse il Garand
dalle spalle e lo imbracciò pronto ad armarlo per una eventuale difesa.
Puntò l'arma, pensò
di caricarla, ma esitò.
Mentre procedeva
pianissimo nel silenzio immane che lo circondava, il suo cuore ebbe un'aritmia
... stava ansimando nervosamente... il suo alito si condensava.
Dannazione! I fari
del deposito di Pollein faticavano ad illuminare in profondità quel paesaggio
lunare. Era in un cono d'ombra quasi al limite del percorso. Quei due fiochi
puntini rilucenti si erano fermati: ora lo osservavano. Un piccolo movimento
nel buio circostante lo disorientò. Era teso come una corda di violino.
Si avvicinò ancora e
con suo stupore riuscì a scorgere una piccola sagoma scura come la pece che lo
fissava.
Era immobile. Anche
Alberto era immobile!
Era un animale che
forse aveva lì la sua tana dalla quale era uscito per andare a cacciare. Forse
era a guardia di una sua preda notturna e si apprestava a difendere dagli
intrusi quel suo agognato pasto. Forse anche lui stava patendo quel gelo.
Entrambi, pensò
Alberto, eravamo vittime sacrificali di quel freddo che regnava sovrano,
accomunati dai nostri timori.
Tranquillizzato, si
voltò e indietreggiò lentamente lasciando a quell'imbelle intruso la
possibilità di fuggire o di nascondersi altrove.
Rientrò al vicino
corpo di guardia tacendo con i compagni dell'accaduto per evitare di essere
schernito.
Il silenzio ritornò
a dominare il perimetro innevato.
… arrivò il
turno di guardia di Alberto Orecchia …
CAPITOLO 36
L’ESAME DI FINE CORSO
Il 15 dicembre 1971 iniziarono gli esami di fine corso,
dopo i quali sarebbero state assegnate le varie destinazioni.
Per quanto impegnativi, non erano esami
difficilissimi.
Chi era riuscito a sopravvivere nei cinque mesi
precedenti, solitamente non aveva difficoltà a superare quest’ultima prova.
Statisticamente il numero dei bocciati era
irrisorio e non superava mai le dita di una mano.
I libri di testo, chiamati pomposamente ‘sinossi’,
abbracciavano solo una minima parte della scienza militare, ma comunque quanto
bastava per poter affrontare in modo più che dignitoso la remota eventualità di
una guerriglia alpina.
Tra gli argomenti di studio, ‘Regolamenti’ era una materia sufficientemente noiosa, bastava
studiare la libretta a memoria ed il gioco era fatto.
‘Lavori sul campo di battaglia’ affrontava
un tema per lo meno divertente, basato sulla logica militare: richiedeva un po’
di ragionamento e di impegno in più.
‘Armi e tiro’: in assoluto l’assunto più
impegnativo. Costituiva la verifica fondamentale, da non sbagliare. Se si
balbettava sull’argomento, erano guai: affascinante a chi piaceva smontare e
rimontare meccanismi senza che avanzassero dei pezzi, alquanto macchinoso per
chi non aveva la giusta manualità per risolvere quei complicatissimi puzzle.
Per fortuna, durante l’addestramento, queste operazioni venivano ripetute
decine e decine di volte, ben oltre la noia.
Anche l’esame di ‘Topografia’
presentava qualche difficoltà, soprattutto per coloro che non avevano già una
certa familiarità con le isoipse (le curve di livello), con la rete di
triangolazione (o rete geodetica) e con un lungo elenco di termini
incomprensibili di cui pochissimi erano già a conoscenza.
‘Addestramento al combattimento’ era invece
una pacchia, un po’ come l’ora di educazione fisica a scuola. Permetteva infatti
ai ragazzi, vestiti con la tuta mimetica e truccati a foggia di cespugli
semoventi, di ‘giocare’ alla guerra, simulando eroici attacchi contro
immaginari nemici.
‘Trasmissioni’ faceva parte delle cosiddette
specializzazioni. Essenziale per il ristretto gruppo di pionieri, passava
invece in secondo piano per il resto della truppa.
‘Scuola
comando’ era probabilmente l’ultima materia rilevante del corso.
Poi veniva un nuovo lungo elenco di argomenti
complementari, anche se non meno importanti: arte militare, contabilità,
salmerie, nozioni di sci alpinismo, impiego.
Ed infine ‘N.B.C.’, che insegnava l’insieme
di accorgimenti da conoscere per limitare l’impatto di agenti aggressivi
lanciati dal nemico nel caso di guerra nucleare, biologica e chimica.
Nel
merito, i dieci valorosi occupanti della camerata numero 8 (Bazurro, Brociero,
Colorio, Gaddo, Mattelig, Pasquino, Perron, Rossi, Secchi e Valentini) ebbero
modo di confermare l’utilità di saper indossare correttamente e velocemente la
maschera antigas. Ciò avvenne allorquando, poco prima di prendere sonno e
complice una cena a base di uova e fagioli, il solito buontempone del
gruppetto, dopo aver urlato a tutta voce “Gaaaas … gaaaas!” squarciando il
silenzio notturno, decise di fare esplodere il suo vigoroso agente aggressivo.
Non era stato facile per gli allievi, considerando
l’intensità degli addestramenti sul campo, trovare anche il tempo per lo
studio. Bisognava ritagliarseli, quei
momenti, sacrificando le già risicate ore di libertà.
Cercando di organizzarsi comunque in qualche modo,
riuscirono tutti a raggiungere un buon livello di preparazione anche nella
parte teorica di quel duro tirocinio.
Gli ultimi giorni di corso, dopo l'esperienza del
campo invernale, si rivelarono provvidenziali per ripassare le numerose
sinossi, colmare le lacune, appiccicare, almeno provvisoriamente, alcune
nozioni indispensabili, che avrebbero permesso di superare l’ardua verifica e
di non buttare al vento sei mesi di duro lavoro.
La commissione d’esame era composta da tre illustri
luminari: innanzitutto dal comandate di compagnia tenente Folegnani (che poteva
essere occasionalmente sostituito dal tenente Fidanza) e poi da almeno due dei
tre sottotenenti di complemento che avevano seguito la compagnia in quei lunghi
mesi. Di questi, lo Sten. Lambri era il più gradito per la sua manifesta
complicità con gli allievi, mentre il sottotenente Passerin d’Entreves era
alquanto temuto, più che altro per un atteggiamento un po’ staccato e severo
nei confronti della truppa.
Il colonnello Verunelli, comandante delle compagnie
AUC, ne era il Presidente. Ogni esaminatore disponeva inoltre di due palline,
che rappresentavano l’originale sistema di voto in auge alla scuola militare
alpina. La pallina bianca significava un giudizio positivo, quella nera
rappresentava l’inferno!
Al termine dell’interrogazione, ogni ‘professore’
doveva inserire in un apposito contenitore di legno, senza mostrarne il colore,
la pallina desiderata. Poi, una volta terminato l’inscatolamento, si procedeva
all’apertura del piccolo congegno davanti allo sguardo ansioso dell’allievo.
Tre palline bianche significavano una promozione a pieni voti, due bianche ed
una nera corrispondevano ad un 18 accademico, ma con due palline nere o peggio
si scendeva nell’oltretomba.
Sandro Bazurro, esaminato tra i primi, fu premiato
con tre palline bianche.
Vinicio Callegari,
l’anima ribelle del gruppo, riuscì a superare il corso, come disse lui stesso,
in ‘qualche maniera’ restando a metà classifica. Fu penalizzato dal giudizio del
Comandante Folegnani (un po’ scarso in attitudine al comando) che si assommava,
per la valutazione finale, all’esito dell’esame orale.
Paolo Moneta si comportò più che egregiamente per i
primi ventinove minuti rispetto ai trenta che rappresentavano la durata
dell’intera interrogazione. Non ebbe problemi a smontare e rimontare il Garand
con le dovute spiegazioni e si districò abilmente in topografia rispondendo
alla domanda sulla rete di triangolazione. Ma l’ultimo minuto stava per
essergli fatale. Una banale domanda su una sinossi mai aperta dal ragazzo lo
vide lanciarsi in un patetico sforzo di fantasia. Lo salvò inaspettatamente lo
sten. ‘cattivo’, Passerin d’Entreves, che, vista l’agonia del giovane, decise
all’istante di terminare l’esame, dichiarandosi già pienamente soddisfatto di
quanto ascoltato fino a quel momento. Fu gratificato da tre palline bianche.
Risultò alla fine 16mo, conquistando così il diritto di restare alla SMALP.
Mirco Bozzo si presentò ai suoi esaminatori
evidenziando una malcelata imbranatura ma forte dell’incoscienza dei suoi 22
anni. Rispose bene a quasi tutte le domande, confondendosi solo su quelle di
topografia, suscitando il sorriso (mai si capì se di scherno o di conforto) di
Passerin d’Entreves. Ricevette tre palline bianche su tre. Risultato finale del
corso: un onorevolissimo 41mo posto su 185 allievi! Ma, al contrario di Moneta,
pagò i tre giorni di cella di rigore con una impietosa destinazione finale.
Lui, ligure di Lavagna, venne spedito tutto d’un fiato a Forni Avoltri, un
grazioso e minuscolo paesino di settecento anime, ultimo comune dell’alta Val
Degano. Peccato che fosse in Friuli!
Giuliano Levrero era tranquillo, comunque molto
meno teso di quanto non fosse stato all’esame di laurea ed alla prova di
abilitazione alla professione sostenuta l’anno precedente. Rispose
correttamente alla domande di Topografia, Arte Militare, Armi e tiro,
Trasmissioni. All’apertura del cofanetto, le tre bilie sembravano appena uscite
dalla lava biancheria!
Il sottotenente Passerin d’Entreves
Quasi tutti i ragazzi ebbero ottimi risultati.
Le tre palline bianche ricompensarono gli sforzi
della maggior parte di loro.
Qualcuno, ma furono davvero in pochi, non più di
una ventina, trovò nella sua scatolina anche una pallina nera. Ma il corso era
comunque superato.
Sulla
formulazione della classifica finale del corso, appesa in bacheca davanti alla
fureria con l’elenco completo del piazzamento di ogni ragazzo, dal primo fino
all’ultimo, è opportuno segnalare qualche sottile precisazione.
Il
punteggio finale era infatti la risultante di una complessa funzione a più
variabili.
Alcune
di queste oggettive, altre … un po’ meno.
Tra
quelle ‘imparziali’ rientravano l’esame scritto ed il successivo esame orale di
fine corso. Il primo, composto prevalentemente da una serie di quiz, definiva
un preciso punteggio, mentre il valore del secondo era determinato dal numero
di palline bianche ricevute.
Il
giudizio finale del comandante di compagnia era la prima delle variabili
soggettive. Equivaleva al voto scolastico che un professore poteva assegnare al
suo alunno a fine anno: sì, potevano esserci delle preferenze o delle piccole
simpatie, ma la stima di cui godeva il tenente Folegnani garantiva una concreta
correttezza alle sue valutazioni.
Da
ultimo, c’era il giudizio dell’alto comando. E qui, per quanto doloroso
ammetterlo, il peso delle infinite raccomandazioni giocava un ruolo importante.
Non era
dato di conoscere quale fosse l’esatta incidenza di quella variabile nel
complesso della funzione, ma di certo nella classifica finale qualche significativa
manipolazione era intervenuta.
Dei 185 giovani che ai primi di luglio erano
sbarcati ad Aosta ed avevano varcato preoccupati un imponente cancello grigio
con un grande faro giallo lampeggiante che ne segnalava l’apertura, due si
erano ritirati durante il corso ed uno solo non venne dichiarato idoneo
all’esame finale.
Il 64^ corso AUC era finalmente giunto al termine.
Aveva sfornato 182 nuovi e baldi ufficiali.
Era davvero ‘FINITA!’
CAPITOLO 37
LIBERA
PROFESSIONE
L’eccellente
realizzazione del caro amico igloo da parte dei due giovani AUC Giovanni Buffa
e Giuliano Levrero, fece sì che anche il tenente cappellano don Adolfo Bois venisse a
conoscenza che nella Compagnia militavano i due capaci architetti.
Verso la fine di
dicembre, poco prima che terminasse il corso e ad esami già superati, li
contattò per chiedere loro se fossero disponibili all'esecuzione di alcuni
lavori di progettazione che erano stati richiesti dal Comando del Castello.
Lavori e disegni
avrebbero dovuto iniziare al più presto e, come solitamente succede, essere
terminati con urgenza, al massimo in due settimane.
Ovviamente i due
accettarono, particolarmente lusingati per quell’incarico che proveniva dalle
alte sfere: in quel momento si sentivano comprensibilmente crescere un po’ di
coda da pavone e non persero l’occasione per fare pure la ruota, così
splendente da suscitare una sana invidia in molti colleghi.
Giovanni e Giuliano
furono convocati al Castello General Cantore, sede del comando della scuola, e
lì ricevuti dal Generale Gallarotti che diede loro l'incarico verbale per
eseguire due progetti.
Il primo consisteva nella
risistemazione di un piccolo poligono di tiro a Pollein, l'altro riguardava la
progettazione del Sacrario per i Caduti della Valle. Quest'ultima opera era
stata concordata con la Regione e doveva essere eseguita nel cimitero di Aosta
in un campo appositamente dedicato.
In men che non si dica
gli assegnarono la postazione di lavoro in una camera già destinata ad ufficio
tecnico.
Ricevettero alcuni vecchi
disegni e qualche specifica riguardante il poligono, mentre dovettero visitare
il Cimitero per eseguire numerose rilevazioni, anche fotografiche, dell'ampio
campo assegnato. Quest'ultimo era a contatto con il retro di una costruzione di
loculi civili che subito i due architetti individuarono come ottimo sfondo per
il progetto.
Ogni mattina venivano
prelevati e la sera ricondotti in caserma da una campagnola a loro completa
disposizione: facevano praticamente orario d'ufficio!
Iniziarono di buona lena
ed in perfetto accordo dedicandosi in un primo tempo al lavoro più semplice: le
modifiche al poligono non erano particolarmente complesse e riuscirono a
presentare gli elaborati dopo pochi giorni.
Il secondo progetto,
molto impegnativo per la specificità e peculiarità dell’argomento, entusiasmò
molto i due ragazzi. Approfondirono le problematiche e scelsero di dare all'opera un carattere di drammaticità tale
da far soffermare e far riflettere il visitatore, escludendo a priori i
classici orpelli simbolici che si vedono un po’ dappertutto, tipo l'aquila, la
bomba, il cannone.
Il progetto prevedeva due
settori distinti: la parte 'ad ipogeo', quella sotterranea, che avrebbe
ospitato i loculi per i Caduti ed a cui si accedeva tramite due rampe di scale
contrapposte posizionate a ridosso della parete dei loculi, ed una parte
esterna, esposta alla vista diretta, formata da una spessa piastra in cemento
armato, sollevata dal terreno, così da dare luce ai tre lati della porzione
sotterranea.
Quella piastra ospitava
la parte simbolica, realizzabile in putrelle di varie misure, saldate ed
incrociate a formare diverse croci, di cui alcune contorte ed inserite nel
contesto secondo proporzioni precise. L'unico simbolo 'classico' era un filo
spinato posto oculatamente in alcune zone. La parete di fondo sarebbe stata
ricoperta da edera e vite canadese.
Il progetto, di cui
Giovanni e Giuliano erano particolarmente fieri, fu terminato nei tempi
prestabiliti e portato al buon Cappellano perché lo consegnasse al Comando,
come da accordi.
Dopo pochi giorni il
corso terminò e tutti gli allievi tornarono alle loro case per la lunga licenza
natalizia. Superata l’Epifania e terminata la sospirata vacanza, i novelli
sottotenenti ripartirono verso le nuove destinazioni loro assegnate.
Gianni Buffa si ritrovò a
Cuneo, Giuliano Levrero tornò invece ad Aosta, alla 42^ compagnia dell’omonimo
battaglione, alla caserma Testafochi. Ma a riguardo dell’andamento e dell’esito
del loro lavoro non se ne sapeva ancora nulla.
Giustamente, i due
ragazzi erano curiosi di sapere cosa ne fosse stato del progetto, ora in mano
al Generale Gallarotti.
Il castello
General Cantore
Giuliano, alla Testafochi,
ritrovò cinque ex-colleghi Auc, che avevano avuto la stessa assegnazione:
Michele Casini, Mario Lorenzi, Alfredo Marchelli, Roberto Salati e Giuseppe
Tropenscovino.
Tutti insieme, non appena
arrivarono nella nuova caserma, furono convocati dal comandante colonnello
Cesare Di Dato, per le presentazioni e le disposizioni di rito.
Giuliano aspettò che il
colonnello terminasse il suo discorso e che assegnasse ad ognuno le relative
consegne poi, ingenuamente e fuori luogo, disse all’alto ufficiale: “Signor
Colonnello, io devo andare al Castello dal Generale Gallarotti che mi aspetta
per un progetto …”.
Di Dato lo guardò, severo
ma benevolo, e non perse l’occasione di regalare all’incauto Giuliano un bel
cazziatone già alla sua prima giornata da sten: “Sottotenente Levrero, ricordi
che prima di tutto deve rispettare le mie consegne e le disposizioni di
Compagnia, solo dopo potrà fare ciò che riterrà più opportuno!”.
Aveva perfettamente
ragione.
Comunque, non appena gli
fu possibile, Giuliano contattò Don Bois. Il tenente cappellano gli disse che
avrebbe preso contatti con il comando.
Avrebbe voluto avvisare
anche Giovanni Buffa, ma al momento non sapeva dove fosse andato a finire e non
aveva alcun modo di recuperarlo.
Poi, finalmente, fu
avvertito di presentarsi dal generale Gallarotti.
Curioso ed emozionato,
salì al Castello.
Arrivò al cospetto del
generale.
Schizzo
prospettico del progetto di Buffa e Levrero
Dopo la formale
presentazione sull’attenti, Giuliano fu fatto accedere alla sua scrivania. Il
progetto era già sul tavolo.
Il generale chiese
spiegazioni e chiarimenti sulle motivazioni progettuali.
Giuliano, con fervore e
decisione, illustrò e chiarì i prìncipi ispiratori da cui Buffa e lui erano
partiti e la scelta circa le soluzioni adottate.
Il superiore sembrava
molto dubbioso e soprattutto meravigliato circa la necessità di usare materiali
quali putrelle non trattate, quindi arrugginibili nel tempo, e non gradiva
l’assenza di simboli classici. Disse quindi al giovane architetto di rimettere
mano al progetto secondo le sue disposizioni.
Da allora, non se ne fece
più nulla, forse anche perché il generale Gallarotti, nel mese di marzo, venne
trasferito in altra sede.
Giuliano Levrero conservò
comunque nel tempo la copia di quel singolare progetto e mai pensò di passare
per il cimitero di Aosta per darne una controllatina … !
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