CAPITOLO 38
ESSERE
ALPINO
L’eporediese
Mario Lorenzi arrivò ad Aosta venticinquenne.
Era già
sposato e gli mancava perciò la spensieratezza dei vent'anni.
Veniva
da un pesantissimo corso di laurea al Politecnico di Torino e la prima
cosa che apprezzò alla scuola era stata l'attività fisica, alla quale aveva dovuto
rinunciare per tanto tempo.
Gli
piaceva usare il corpo fino allo sfinimento e lì aveva
trovato pane per i suoi denti.
Amava le
montagne, la vita all'aperto, alzarsi presto al mattino.
E questo
nonostante il comandante Folegnani strapazzasse di continuo i suoi allievi e li
portasse volutamente al limite della sopportazione, evidentemente per
verificarne la loro reazione.
Un
giorno il signor tenente radunò l’intera compagnia.
A
plotoni schierati, cominciò ad urlare ripetutamente: “Va tutto bene? Non c’è
nessuno che abbia qualcosa da dire?”, sapendo perfettamente che ‘così non
poteva andare assolutamente bene’.
All’ennesimo
urlaccio Mario Lorenzi, tremante come una foglia, chiese la parola e facendo
appello a tutto il suo coraggio espresse il suo pensiero: “Lei ci tratta troppo
malamente!”.
Non
volava una mosca e tutti i ragazzi aspettavano la reazione del comandante.
Ma
Folegnani, senza batter ciglio, prese atto di quella opinione e non fece alcun
commento. Subito dopo ripresero le consuete attività addestrative come se nulla
fosse successo.
Soltanto
a fine corso, ad esami già brillantemente superati, Mario venne convocato dal
suo comandante.
L’argomento
di quell’incontro non riguardava specificatamente quel ‘pericoloso’ scambiò di
battute, ma Mario, nell’occasione, ebbe la netta sensazione che quella
coraggiosa uscita verbale avesse contribuito non poco all’alta valutazione
finale da lui ottenuta in attitudine militare.
Essere
alpino però, al momento, non gli dava ancora una sensazione particolare: in
verità aveva cercato di esserlo soprattutto per poter
restare vicino alla sua città ed in modo particolare a sua moglie.
Fu nel
periodo successivo, al battaglione da sottotenente, che il suo atteggiamento
cambiò.
Insieme
all’amico Giuliano Levrero, ebbe la fortuna di appartenere
alla compagnia del capitano Albarosa e del maresciallo Zampa, due
persone meravigliose morte in quel maledetto incidente
di elicottero.
Con loro
Mario capì che essere alpino significava soprattutto
essere una persona disposta ad impegnarsi per soccorrere chi è in difficoltà,
relegando la componente militare ad un aspetto secondario.
CAPITOLO 39
PILLOLE DI
SMALP
CHI SA DIPINGERE?
“Chi sa dipingere?” tuonò
il sottotenente davanti alla 1^ compagnia schierata nel piazzale, in attesa di
essere smistati nelle varie mansioni di pulizia, in preparazione di una visita
importante.
Una dozzina di allievi,
dopo una rapida indagine mentale fra passato artistico e valutazione di
possibilità di imboscarsi … trac … fece un passo avanti. Allora l’ufficiale,
sempre con tono imperante: “Voi, 1, 2, 3, 4, 5 e 6, prendete le scope e
cominciate a spazzare il cortile, iniziando dalla Palazzina degli Ufficiali”.
Ghignate solenni e
battutacce da parte dei compagni salutarono i neo pittori realisti della Scuola
di Aosta!
TRE ORE DI ATTESA
Ore 8.30. L’allievo AUC
Felice Piasini venne prelevato da una AR alla ‘Cesare Battisti’ e portato al
Castello di Beauregard (nido delle aquile, linguaggio criptato), sede del
Comando della Scuola Militare Alpina. Lì risiedeva il misterioso, ermetico e
leggendario Gen. Bruno Gallarotti.
Secondo le malelingue dei
compagni di camerata, si trattava di una missione con scopo ‘raccomandazione’,
in previsione delle prossime assegnazioni ai battaglioni al termine del corso.
No, era una missione
‘umanitaria’: Felice doveva portare i saluti dell’alpino Angelo Tognini (classe
1917, di Castione Andevenno), al comandante Gallarotti, suo capitano durante la
Campagna di Russia.
Lunga anticamera fino
alle 11.30 fra un andirivieni di ufficiali, con relativo scatto sull’attenti
dell’allievo ad ogni passaggio.
Finalmente si aprì la
porta. Felice, trepidante, aveva preparato e ripetuto alla noia la frase di
circostanza per non fare brutta figura.
Ma non apparve il
Generale, bensì un viscido attendente che frettolosamente chiese il motivo
della richiesta di colloquio. Il Generale era occupato e non poteva ricevere;
dei ‘saluti’ gli sarebbe stato riferito.
Tre ore di attesa per
essere liquidato freddamente da un… attendente, col dubbio che i ‘saluti’ non
siano mai stati recapitati all’interessato!
IL SERGENTE GARD
Caserma Ramirez, stava
per iniziare una delle tante lezioni in aula.
Gli allievi chiacchieravano
tra di loro in attesa che arrivasse l’insegnante.
Come sempre, c’era un
graduato davanti alla porta, per l’occasione era il sergente Gard, pronto a far
scattare sull’attenti i ragazzi non appena si fosse affacciato l’istruttore.
Ecco, l’ufficiale stava
per entrare.
Il sergente Gard, all’apice
della concentrazione, declamò: “Aaaaaa-ttenti”.
Poi, senza il minimo calo
di tensione, continuò: “Seeeee-duti”.
Forse sarebbe stato opportuno
un più militaresco ‘Riiiiii-poso!’
VODKA
A LA THUILE
La notte era profonda e
spettrale, nel nero assoluto del cielo brillavano tonnellate di stelle.
La luna, che illuminava
pallidamente il silenzio abissale della conca innevata de La Thuile, il cui
aspetto appariva sinistro perfino alla luce del giorno, esaltava quello
scenario insieme tetro e affascinante.
Di fianco alla caserma
Monte Bianco una brutta spigolosa costruzione sembrava un’astronave aliena
appena giunta dalla cintura di Orione.
Era invece
‘fortunatamente’ solo un fabbricato, adibito a residence, in stile moderno
nettamente contrastante con il contesto architettonico dell’antico borgo; per
sovrappiù era adornato da lampade e faretti che irradiavano una inquietante
luce bluastra la quale contribuiva a rendere l’atmosfera di quella notte di dicembre
1971 maledettamente più siderale.
Erano circa le due;
l’allievo ufficiale Franco Ferrario stava diligentemente svolgendo il suo turno
di sentinella percorrendo il cortile della caserma tra alte mura di neve e
superfici ghiacciate.
Ad un certo punto vide
comparire, uscito da una palazzina, uno degli alpini esploratori di stanza alla
Monte Bianco, che attraversò lo spiazzo per raggiungere l’edificio del corpo di
guardia.
Notò Franco e gli porse
una bottiglia: “Tié’! Bevi!”
“Cos’è?”
“Bevi!”
Quasi costretto, pur
sospettoso, bevve alcuni sorsi.
“Grazie,” restituendo la
bottiglia, “ma è acqua?”
“Veramente è vodka, è il
freddo bestiale che la fa sembrare acqua”.
Come era apparso, così
scomparve.
Franco, astemio (o da
considerarsi ormai ex?), rimase ad interrogarsi sulle strane proprietà
alchemiche e termodinamiche testé direttamente sperimentate.
Nel frattempo aveva
infatti con stupore realizzato di non avere più freddo. L’autonomia termica
coprì abbondantemente il periodo del turno di guardia.
DA NOI CHIAMANO COSI’
SOLO LE PECORE …
Mancava poco a
mezzogiorno e una autovettura di ricognizione stava rientrando da un
sopralluogo alle opere di fortificazione e sbarramento oramai dismesse, sopra
Malles.
A bordo si trovano il
sottotenente Felice Piasini, comandante della 250^ di stanza a Glorenza,
l’autista e 4 naioni.
Entrando nell’abitato
incrociarono la barista più famosa del posto e, tanto per cambiare,
richiamarono la sua attenzione con fischi ed epiteti che non brillavano certo
per eleganza.
L’ufficiale richiamò
all’ordine i suoi ragazzi, ma ormai la frittata era fatta.
Si pensò per un po’ di
cambiare bar, per far decantare l’accaduto.
Ma poi si ritornò allo
‘stammtisch’ (tavolo fisso) del solito bar.
La barista si presentò al
tavolo con blocchetto e lapis per le ordinazioni, ma questa volta non era
sorridente e solare come al solito, anzi. Rivolgendosi all’ufficiale,
visibilmente stizzita e acida, disse: “Ich heiße Magda! Bei uns nur die Schafen
rufen wir so!“ (traduzione: da noi chiamiamo così solo le pecore).
UN
BOCCONIANO ATIPICO
Renato Barberis arrivò ad
Aosta da Quattordio, il paese dove viveva con i genitori in un bel cascinale di campagna lungo la statale Asti
- Alessandria.
Aveva un grande rispetto
per la natura, amava la vita all'aria aperta e nell'orto di casa coltivava ogni
tipo di verdura.
In autunno si alzava
all'alba per andare a cercare i funghi nei boschi del Sassello, sui monti che
marcano il confine tra il Piemonte e la Liguria.
Era un AUC intelligente e
riservato, sempre pronto ad aiutare i compagni. La zappa e la vanga avevano
irrobustito il suo corpo, saliva sui pendii senza affanno portando in spalla lo
zaino e il Garand.
Terminato il Corso ad
Aosta andò a prestar servizio nella brigata Julia, a Tarvisio, un paese così
lontano da Quattordio da far pensare che il nostro ufficiale non avesse santi
in paradiso.
Laureato alla Bocconi con
compagni di corso come Philippe Daverio e Marco Tronchetti Provera, era così
diverso dallo stereotipo di quei giovani rampanti, da rinunciare ad una
promettente carriera nella City londinese per un impiego in banca vicino al suo
paese.
IL GAGLIARDETTO
Il gagliardetto del 64°
AUC sventola per merito degli ufficiali alpini che, partiti da Aosta nel lontano
1972, rispondono “presente!” alle adunate, ai raduni e alle commemorazioni.
Franco Zanin, Evelino
Mattelig, Giuliano Secchi e Angelo Soave sono gli alfieri di questo gruppo
virtuoso.
Franco è la memoria
storica del 64° e ricorda nome, cognome e numero di camerata di tutti i suoi
compagni di Corso.
Evelino ha cercato e
ritrovato quei ragazzi che, diventati adulti, si erano persi di vista.
Giuliano notifica gli
eventi e aggiorna la lista dei presenti e degli assenti.
Ogni anno Angelo invita i
compagni di Corso a Bruno, sulla collina della chiesetta della Misericordia
(sec. XVI) dedicata alla Protezione
Civile.
Il gagliardetto del 64°
AUC sventola per merito degli alpini che rispondono “presente!” e rende omaggio
ai compagni di Corso che sono “andati avanti”.
PARTE
SECONDA:
AI
BATTAGLIONI
CAPITOLO 40
IL BACIO ALLA MULA
Giuliano Levrero salutò la scuola militare alpina
con tre palline bianche in saccoccia e la stelletta di sottotenente su entrambe
le spalline della divisa.
Come tutti i neo tenentini fu inviato in
‘ordinaria’ per le feste di Natale, una lunga ordinaria, che avrebbe permesso
ai ‘vecchi’ del 63° corso, in quel momento ai reparti con il grado di sergente
AUC, di acquisire l'agognata stelletta e l'incarico di Ufficiale prima di loro.
Come la quasi totalità dei compagni, trascorse la
sospirata e lunga licenza dividendosi tra la famiglia e la fidanzata.
Poi, in una fredda mattina di gennaio arrivò a casa
un carabiniere. Aveva in mano un dispaccio. Giuliano comprese subito di cosa si
trattasse e lo aprì rapidamente: “Taurinense, 4^ Reggimento, Torino”: la
destinazione che aveva richiesto!
Si recò immediatamente in caserma dove fu accolto
dal Maresciallo Comandante che, sorridendo compiaciuto, gli porse una notifica
del Comando di Reggimento della Caserma Monte Bianco di Torino. Giuliano la
aperse con curiosità e soddisfazione: gli si comunicava quando avrebbe dovuto
recarsi presso l'Ufficio del Comandante Colonnello Forneris per il Giuramento
quale Ufficiale e per la destinazione al Reparto. Congedandolo, il Maresciallo
gli strinse la mano e gli disse: “Auguri, Signor Tenente!” … Era stato chiamato
per la prima volta “Tenente”… Giuliano si sentiva importante.
Nel giorno stabilito, era di pomeriggio, si
presentò al Comando della ‘Monte Bianco’ a Torino. Nel corridoio al primo piano
incontrò i colleghi Sten che a loro volta erano stati assegnati al 4°
Reggimento. Si salutarono con affetto e con una certa eccitazione: ognuno di
loro sperava di essere assegnato al Reparto desiderato.
Giuliano confidava vivamente di poter tornare ad
Aosta, al Battaglione, nella Caserma Testafochi.
Il gruppetto di giovani sottotenenti fu finalmente
ricevuto nell'ufficio del Comandante. Si schierarono sull'attenti,
perfettamente inquadrati, impeccabili nella fiammante ‘diagonale’: cappello,
sciarpa, camicia e cravatta erano in perfetto ordine e senza pieghe, le scarpe
luccicavano.
Dopo la presentazione individuale ed il discorso
del Colonnello, ad uno ad uno giurarono secondo il rituale, poi ritornarono ai
loro posti.
Il Colonnello comunicò ad ognuno la propria
destinazione con l'ordine di presentarsi immediatamente al reparto; avvisò
anche che, se nell'ambito della stessa specializzazione qualcuno avesse voluto
cambiare la località designata con qualcun altro disponibile, non ci sarebbero
stati problemi di sorta.
Seguì il saluto alla bandiera, quindi i ragazzi
uscirono in corridoio.
Si formarono all’istante piccoli gruppi per
commentare le assegnazioni mentre altri compagni passeggiavano assorti nei loro
pensieri.
Giuliano era stato destinato al Battaglione Susa di
stanza nella Caserma Berardi di Pinerolo: non era tanto soddisfatto. Anche Ernesto Brociero non sembrava
particolarmente contento di finire invece alla Testafochi di Aosta. Ci volle
solo un attimo per intendersi: entrambi erano ben felici di quel possibile
scambio. Tornarono dal Colonnello Forneris che provvide alla modifica.
Per Giuliano era la soluzione perfetta: abitava a
Torino con i genitori e per raggiungere Aosta al volante della sua bella GT
1300 junior sarebbe stata sufficiente poco più di un’ora di viaggio.
Erano 7 i giovani tenentini del 64 corso AUC che
furono destinati alla caserma Testafochi di Aosta: Michele Casini, Giuliano
Levrero, Mario Lorenzi, Alfredo Marchelli, Roberto Salati, Roberto Tesio, Giuseppe
Tropenscovino.
Arrivati a destino, si presentarono al Corpo di
Guardia. L'Ufficiale di Picchetto li aspettava; li accolse con uno strano
ghigno satanico e subito li accompagnò con sospetto fare affabile al circolo
Ufficiali. All’ingresso, c’era un lungo corridoio che divideva il circolo in
due zone: alla sinistra si trovava il bar e quindi la cucina con in fondo i
servizi igienici, alla destra c’era l'ampia zona lettura cui seguiva la grande
sala mensa.
Ad attendere i nuovi arrivati, non mancava nessuno:
i ‘vecchi’ del 62° ed i ‘fratelli maggiori’ del 63° erano tutti lì, nella
trepida attesa di conoscere i nuovi polli da spennare.
Furono ‘ricevuti’ al bar e gentilmente obbligati a
presentarsi singolarmente. Avvezzi alla presentazione ripetuta a gran voce una
infinità di volte alla SMALP, un po’ per l’emozione e un po’ per l’imbarazzo, a
qualcuno scappò un “Allievo …” troppo in ritardo sostituito dalla nuova
qualifica.
Arrivò la prima punizione: un’abbondante bevuta da
offrire a tutti i presenti.
Poi, ad ogni ‘stupidaggine’ involontariamente
sparata dai sette neofiti, seguivano, a titolo di riparazione, altre
bicchierate e ripetuti piegamenti sulle braccia. Il tutto eseguito senza
potersi togliere cappello e ‘castorino’ (il pesante cappotto militare).
“Adesso, appena sentirete squillare il telefono in
fondo al corridoio – era un ‘vecchio’ che stava parlando - ad uno ad uno
schizzerete sino a laggiù con il passo del leopardo, 'castorino' e cappello
sempre indosso, alzerete la cornetta e vi presenterete a voce alta e chiara
perché, così distanti, si sente poco! Evitate di eseguire male l'ordine,
altrimenti dovrete ripetere il tutto!”
I ‘veci’, maledetti loro, erano in combutta con gli
alpini del centralino. Il telefono cominciò a squillare ininterrottamente.
Nell’arco di pochi minuti, l’oblungo corridoio del circolo ufficiali era stato
tirato a lucido come non avveniva da tempo.
Giuliano e compagni erano stravolti, accaldati ed
un filo ‘bevuti’.
Il clima era comunque goliardico ed allegro.
Si passò poi alla descrizione della vita di
caserma. A parlare erano gli ufficiali anziani, quelli del 62^, mentre i
‘fratelli maggiori’ del 63^ annuivano di continuo e con grande deferenza.
Il quadro descritto era allucinante: comandanti
terribili, punizioni assurde, fatiche immani, servizi interminabili, rischi
continui …
Il tutto condito con ripetute domande ai nuovi
arrivati con l’unico obiettivo di coglierli in fallo. Naturalmente, ogni minimo
tentennamento dei ragazzi era occasione di una nuova sanzione.
Le ultime penitenze, con grande sollievo fisico dei
ragazzi che grondavano sudore da ogni dove, avvennero all’aria aperta.
In un primo tempo dovettero saltare dalla finestra
del bar che dava sul piazzale, correre sotto l’alzabandiera ed ‘aquilare’.
Fu il castigo conclusivo a risultare senza alcun
dubbio il più impegnativo.
Dovettero, uno ad uno, sottoporsi al tradizionale
bacio alla mula!
Tale goliardica usanza, già di per sé abbastanza
originale, era molto diffusa nei reparti alpini.
La difficoltà era duplice.
Da una parte non tutti i muli erano sempre ben
disposti a queste amorevoli effusioni ed il pericolo di una bella scalciata era
sempre dietro l’angolo. “Ma - pensavano i ragazzi – se il bacio va dato sul
muso, non avrebbero dovuto esserci grossi problemi a scansare l’eventuale
pedata del quadrupede”.
Il secondo problema, e qui le cose si complicavano
alquanto, riguardava invece l’esatta localizzazione del punto in cui doveva
avvenire il contatto tra il mulo e l’alpino. Contrariamente infatti a quanto
pensarono in un primo tempo i giovani tenentini, non si trattava di un languido
bacio bocca a bocca, bensì di un increscioso sbaciucchio tra le labbra
dell’alpino e … l’inquietante pertugio situato nel fondo schiena dell’animale.
Decenza esige che non si entri nei particolari di
questa incresciosa vicenda.
Bontà volle che, per buona fortuna, i ’veci’ si
mostrarono particolarmente comprensivi nelle operazioni di controllo.
E leggenda racconta che uno dei giovani tenentini,
a missione compiuta, ebbe a sussurrare: “Meno male che era una mula. Fosse
stato un mulo, non lo avrei mai fatto!”.
CAPITOLO 41
LA ‘CUNEO BENE’, UNA GIULIETTA SPRINT E 20.000 LIRE
Anche Sandro Bazurro, come tutti i suoi compagni,
visse con ansia il momento che da semplice allievo lo avrebbe introdotto nella
realtà di comandante di plotone fucilieri, incarico per il quale era stato
preparato nei lunghi mesi trascorsi alla Scuola.
Ripassò più volte la ‘libretta’ del perfetto
ufficiale, circa il comportamento che dovevano tenere i giovani subalterni
all'ingresso dei nuovi reparti.
Inviò quindi un telegramma di saluto alla bandiera
di guerra del Reggimento ed al suo Comandante, Reggimento che portava il numero
due, il mitico ‘doi’, unico reparto ancora esistente della gloriosa Divisione
Cuneense, Divisione martire in terra di Russia che con il suo eroico sacrificio
meritò la medaglia d'oro al valore militare. Il 2° RGT alpini era a quel tempo
C.A.R. e formava reclute per le brigate Cadore, Orobica, Taurinense e
Tridentina.
Trasmise inoltre un deferente telegramma alla
Calotta degli ufficiali subalterni, al Circolo della sede del Reggimento, anche
nella speranza di rabbonirne le immancabili manifestazioni goliardiche.
Si allenò ripetutamente al rito di battuta dei
tacchi da effettuarsi oltre che alla presenza di un superiore anche
all'ingresso della sala convegno del Circolo ufficiali ed anzi all'uopo
acquistò un paio di scarpe munite di tacco leggermente fuori misura, in
altezza, che avevano un ‘toc!’ forte e secco: favoloso.
Tutte queste precauzioni ovviamente poco valsero,
se non a limitare gli scherzi ed il pagamento di laute libagioni agli anziani
della Calotta.
All'arrivo, alla caserma Cesare Battisti di Cuneo,
sede del Comando del ‘Doi’ ed espletate le formalità di rito, compreso il
giuramento da ufficiale al cospetto della bandiera di Guerra e del Colonnello
Comandante, venne assegnato alla CAM Tridentina, di stanza nella caserma
medesima.
Ma la cosa singolare che più lo colpì fu il
successivo colloquio con il Comandante di Battaglione: sinceramente difficile
per lui giudicarlo come figura di comandante di reparto, indubbiamente era un grande
organizzatore di eventi.
Orbene, dopo il discorso di benvenuto a tutti gli
ufficiali del Battaglione, congedati gli altri colleghi, il comandante
trattenne Sandro al suo cospetto e subito lo raggelò con la seguente frase:
“Sono venuto a conoscenza che Lei è genovese, brutta gente i genovesi, avari,
gretti, contrabbandieri ..., ma fidàti … Per questo motivo, Lei avrà dei
permessi saltuari, - ... lunga pausa ... -, permessi nei quali Lei si recherà
nella sua città, potrà incontrare i suoi o la morosa a suo piacimento, ma ...
viaggerà accompagnato da quella valigia,” ed indicò un valigione di cartone che
stava in un angolo dell'ufficio. “Bene, all'andata sarà un semplice contenitore
vuoto, ma al ritorno sarà ricolmo di ogni ben di Dio, tutte cose che serviranno
a rallegrare le nostre festicciole di battaglione. Lei si incontrerà con una
persona che provvederà a rifornirla dell'occorrente, nulla di strano badi bene,
sigarette, radioline, gadget e ninnoli vari che renderanno più piacevoli i
giochi di società nelle nostre feste. Ovviamente, questo è un incarico di
estrema fiducia, che esula dalle sue specifiche competenze, che non Le porterà
nessuna agevolazione, o premio, e che pertanto Lei può anche rifiutare … se lo
ritiene lesivo della sua dignità di ufficiale.”
Sandro Bazurro avrebbe volentieri risposto picche,
ma considerata rapidamente la possibilità di rivedere saltuariamente la sua
famiglia, la fidanzata, staccare qualche giorno, il tutto assolutamente
giustificato, anzi con la benedizione del superiore, lo spinse ad accettare.
Fu così che nei periodi di ‘intercar’, ovvero
quando ultimato il ciclo di addestramento, accompagnate le reclute al
reggimento, si era in attesa dei nuovi arrivi, il giovane tenente partiva per
Genova con un bel permesso e la sua valigia vuota, si recava in Darsena, in
porto franco, ed alcuni giorni dopo ritornava in caserma con il prezioso
carico.
Va detto che col tempo Sandro acquisì molta
esperienza, tanto che a seconda del gradimento degli ospiti delle loro feste,
soprattutto delle signore, ovviamente della ‘Cuneo bene’, gli venne demandata
persino la scelta dell'oggettistica da produrre e da consegnare al suo valente
superiore.
Una sera dovette partire da Genova senza auto, in
quanto la sua fida ‘seicento’ aveva avuto improvviso bisogno di manutenzione e
non ne volle sapere di partire con lui; pazienza, il treno avrebbe sopperito,
l'ultimo treno della giornata per Cuneo ovviamente, che gli consentiva di
rientrare in caserma per un'ora … comunque indecente.
Arrivò alla stazione di Cuneo che nevicava
abbondantemente e faceva un freddo cane. Uscito, si guardò attorno, non c'era
anima viva, né un taxi, nulla, … solo un'auto rossa stazionava lì davanti.
Pazienza, alzò il bavero del cappotto, calcò bene
il cappello in capo, sollevò la sua valigiona di cartone ed il suo prezioso
carico, e si avviò verso la caserma.
Passando vicino all'auto rossa sentì chiamare:
“Ehi! Tenente!” Era una voce di donna. Ma come avrà fatto a distinguere i gradi
con quel tempo ... mah! Sarà l'esperienza, pensò maliziosamente. “Buonasera!”
rispose alla gentile signora bionda che si allungava verso il finestrino, ed
aveva aperto la portiera. “Ti posso dare un passaggio se vuoi, vado verso la
caserma, ormai con questa serata ... stai tranquillo, non voglio nulla”.
Sandro rimase perplesso un attimo, guardò meglio,
era una gentile signora già di una certa età, che cortesemente lo invitava
nell'alcova o che forse impietosita si offriva di accompagnare a casa un
soldatino infreddolito?
Accettò di buon grado, era comunque addestrato ad
affrontare qualsiasi situazione.
Fu gentilissima, molto cara, direi quasi materna.
Lo portò davanti al portone della caserma, lo salutò ed improvvisamente gli
sfiorò la guancia con un leggero bacio mentre una lacrima furtiva le rigava il
volto. Confessò, quasi per giustificarsi, che le ricordava suo figlio, morto da
piccolo di un male incurabile: avrebbe avuto la sua stessa età.
Sceso dall'auto, una ‘giulietta sprint’ rossa
fiammante, Sandro guardò all'intorno, scrutando tra i fiocchi di neve per
accertarsi se qualcuno lo avesse visto ... nessuno ... e veramente un po' gli
dispiacque.
Si avviò poi verso il portone, senza voltarsi,
mentre il vento gelido gli sferzava il viso e gli occhi si riempivano di
lacrime.
***
Ma al di là di questi fatti dal sapore più
goliardico che militare, la sua permanenza al Corpo Addestramento Reclute del
secondo Reggimento Alpini di Cuneo fu l'esperienza unica di un periodo della
vita pervaso da avvenimenti irripetibili, di crescita morale e spirituale, che
ne segneranno profondamente il futuro.
I sottotenenti come Sandro, istruttori di reclute,
avevano il compito di formare uomini prima ancora che soldati. Si trattava di
una pluralità di soggetti che per gran parte tollerava soltanto l'imposizione
della divisa, dell'ordine, della disciplina, del fatto che la libertà del
singolo finiva dove cominciava quella del vicino di branda, del rispetto di
orari e di una vita scandita da ritmi preordinati. Una vita insomma che cozzava
con gli ideali del sessantotto e con l'aria che si respirava fuori dalle mura
della caserma.
Arrivavano persone in gran parte diverse per
estrazione sociale, cultura, tradizioni e dovevano vivere fianco a fianco,
integrarsi l'un l'altro fino a creare un tutt'uno, quel tutt'uno che da sempre
ha visto il corpo degli alpini in prima linea, lo Spirito di Corpo.
Ognuno si portava dietro i suoi problemi. C’era
stato il caso di un ragazzo che aveva portato con sè persino la famiglia,
moglie e bimbo piccolo, in quanto non sapeva cos'altro fare per mantenerli.
Arrivavano giovani che non capivano o meglio fingevano di non capire la nostra
lingua, per lo più contadini altoatesini, persone che giungevano accompagnate
dai carabinieri, condannati per reati minori, che venivano affidati
temporaneamente all'esercito per ottemperare al loro dovere di cittadini e così
via. Spesso ci si doveva improvvisare psicologi ed il grado dava quella
autorità paterna, non paternalistica, di riferimento, che il più delle volte
era riconosciuta dai soggetti stessi, che vedevano nei superiori chi poteva
risolvere i loro problemi, aiutarli a vincere le loro paure. A volte purtroppo
tutti gli sforzi si rivelavano vani, qualche giovane non reggeva a questo modo
di vita ed i pregressi problemi si acuivano fino a portarlo in qualche caso,
per fortuna raro, al suicidio, come avvenne per un caro amico che pur assegnato
a compiti di fureria ed esentato dagli addestramenti, nonostante gli sforzi
congiunti con la famiglia, giunse alla decisione estrema di mettere fine alla
sua esistenza terrena.
Un episodio in particolare tra i tanti, colpì profondamente
Sandro.
Un giorno arrivò un ragazzo, accompagnato dai
carabinieri, per assolvere il dovere militare. Taciturno, schivo, senza amici,
sembrava proprio non volersi integrare con gli altri. Eseguiva però gli ordini
ed i compiti a lui assegnati sì in modo autonomo, ma stranamente con impegno, a
voler forse dimostrare che non era inferiore a nessuno. E l’atteggiamento di
iniziale diffidenza verso il suo sottotenente Bazurro si trasformò a poco a
poco in una particolare dedizione nei suoi confronti e di ciò che ivi
rappresentava. Il cambiamento divenne presto evidente. L'attaccamento alla
divisa ed al Corpo furono segnati da un susseguirsi di eventi: gli
addestramenti e le marce, condotti con entusiasmo e disciplina, il voler
partecipare alla Cerimonia del Giuramento nonostante la febbre altissima, con
conseguente diagnosi di una bella broncopolmonite. Una volta guarito, Sandro si
prodigò per fargli avere una licenza premio, ma il ragazzo, alla notizia,
sembrò tentennare. Stupito gli chiese i motivi di tale atteggiamento e la
risposta fu che non aveva i soldi per portare un regalino alla mamma per il suo
compleanno. Bazurro gli offrì all’istante ventimila lire in prestito, quasi
certo che non le avrebbe più riviste, considerata la sua condizione economica
non certo florida.
Ancora una volta aveva avuto torto; al termine
della licenza si presentò a rapporto, ancora prima di recarsi in camerata e gli
restituì i soldi con un bel sorriso ed una calorosa stretta di mano
accompagnata da un ‘grazie’ appena sussurrato.
Sandro non poteva sapere
cosa il giovane soldato avrebbe combinato una volta ultimato il servizio
militare, ne ebbe mai più sue notizie, ma era fermamente convinto che sarebbe
stato un cittadino onesto e da portare ad esempio.
CAPITOLO 42
LA MALEDIZIONE DELLA POLVERIERA
Nella
lotteria delle assegnazioni, la sorte si era rivelata sufficientemente benigna
per Roberto Braggion.
Venne
infatti destinato all’8^ reggimento, battaglione alpini Cividale, alla 76^
compagnia, a Chiusaforte.
Il
paesino, allora di poco più di mille anime e in continuo spopolamento, era
situato in una posizione geografica militarmente interessante, nei pressi di
una strettoia della valle del Fella.
Fu
questo il motivo per cui, ai tempi della seconda guerra mondiale, si ritenne
strategicamente utile porvi di stanza un’intera compagnia.
Ma,
ciò che probabilmente più importava a Roberto, era la distanza che divideva la
sua Preganziol da Chiusaforte: circa 150 chilometri che poteva percorrere
tranquillamente in due ore di macchina.
Nel
complesso, restando nel gergo bellico, era ad un tiro di schioppo dagli affetti
più cari: famigliari, amici e morosa.
Come
per tutti gli altri suoi colleghi in servizio presso quel piccolo comune
friulano, anche per Roberto giunse il momento dell’ingrato compito, della
durata di una settimana, di essere demandato quale Ufficiale Responsabile della
Sicurezza della Polveriera, che era situata a pochi chilometri di distanza da
Tolmezzo.
Il
luogo era quanto di più tetro si potesse immaginare, talmente desolato che
persino la memoria del ragazzo aveva deciso di cancellarne il nome della
località in cui si trovava.
Quella
lugubre polveriera era situata a ridosso di una rupe, circondata su tre lati da
un fitto bosco e cinta da un reticolato che la rendeva simile ad un campo di
concentramento.
Solo
da un lato, in corrispondenza dell'entrata, confinava con la strada statale che
portava a Tolmezzo. L’unica parvenza di vita, al di là della strada, era
rappresentata da un enorme bidone delle immondizie, lì collocato a disposizione
della polveriera.
La
montagna tutt’intorno era percorsa da cunicoli, grotte, camminamenti
sotterranei, stanze enormi un tempo adibite a dormitori, santabarbara, depositi
ed altro.
Insieme
al sottotenente Braggion, in servizio per quell’intera e funerea settimana,
c'erano una dozzina di Alpini, addetti di volta in volta ai turni di guardia ed
ai servizi.
Il
tempo passava molto molto lentamente in un alternarsi di luce e di buio sempre
uguali.
Le
ispezioni ed i controlli di rito si susseguivano con una regolarità ferrea e
con notevole attenzione e diligenza: presente era ancora l'eco degli attentati
in Tirolo.
Roberto
Braggion si sentiva un po' come il sottotenente Giovanni Drogo della Fortezza
Bastiani ne “Il Deserto dei Tartari” e, comunque e in qualche modo, investito
di quella parte lo era.
Tutti
i suoi sforzi e la sua concentrazione erano diretti al buon funzionamento del
gruppo ed a garantire la necessaria sicurezza.
Roberto
usciva puntualmente per le ispezioni giorno e notte, con ogni tempo che,
purtroppo, in quel breve periodo, fu freddo e piovoso come non mai di
primavera.
La
ferrea disciplina (alla Sottotenente Drogo) che imponeva a se stesso ed ai suoi
sottoposti non impedì loro, comunque, qualche piccolo momento ricreativo
durante i turni di riposo.
Memorabili,
in proposito, furono alcune sedute spiritiche con relative comunicazioni con
l'aldilà e persino una colossale mangiata di lumache, raccolte durante una
delle poche schiarite, preparate secondo i dettami dalla cucina abruzzese: sugo
di pomodoro, origano e altre spezie misteriosamente apparse.
Ma,
a parte quelle poche parentesi medianiche e culinarie, quei sette giorni si
rivelarono abbastanza duri per tutto il gruppo.
Soprattutto,
furono pieni di costante apprensione perché l'imprevisto era sempre in agguato
e tanti, in proposito, erano gli aneddoti relativi ad improvvise disgrazie che,
a quanto si diceva, colpivano con regolarità e gravità il comandante di turno
della Polveriera.
Fu
pertanto con sommo piacere che il sottotenente Braggion vide arrivare anche
l'ultimo giorno del proprio turno di servizio senza che alcun intoppo avesse in
qualche modo intralciato quella inquietante settimana.
Finalmente
Roberto risalì sulla Campagnola per fare ritorno nell'amata e tranquilla
caserma a Chiusaforte e per sorseggiarsi dopo tanto tempo un buon caffè al
Circolo Ufficiali.
Il sottotenente Roberto Braggion
Ma
trascorsero solo ventiquattro ore dal suo rientro alla caserma di Chiusaforte
che la puntualissima maledizione della Polveriera si abbatté senza pietà anche
sul giovane sottotenente.
Arrivò,
la tempestiva condanna, sotto la forma di pesante punizione: tre giorni di
arresto di rigore furono l’inevitabile obolo che Roberto dovette pagare.
Originale,
quanto meno, fu la motivazione che accompagnava l’inesorabile verdetto, stilata
dal personale pugno del Generale allora in capo alla Brigata Tolmezzo:
“…...quale
responsabile, essendo al comando, di aver permesso ad un Alpino, alle ore 7,15
di mattina, di andare a depositare le immondizie dentro al bidone, situato
oltre la strada fuori dal cancello, SENZA IL CAPPELLO”.
Accadde infatti che il Generale Comandante passasse
davanti alla polveriera proprio in quell’istante e, forse per il timore di contraddire
la malevola forza della leggenda, decise di punire oltremisura il malcapitato
sottotenente garante del servizio.
E, se la severità del Generale parve ai più a dir
poco traboccante, di grande dignità e senso del dovere fu invece la reazione di
Roberto. Egli riconobbe il proprio errore: la divisa dell’alpino non era
regolare e lui non aveva vigilato a sufficienza affinché ciò non accadesse.
Mitico Roberto, uomo ed alpino capace di prendersi
le proprie responsabilità e di riconoscere i propri errori, anche se
apparentemente insignificanti.
CAPITOLO
43
IL
MULO IMPERO
L’incubo della
polveriera non si abbatté soltanto su Roberto.
Anche lo spirito
libero di Vinicio Callegari, finito al 6^ Reggimento Alpini e sistemato alla Compagnia
Comando e Servizi di Bressanone, dovette rassegnarsi alla clausura della Santa
Barbara al forte di Fortezza, nella storica Val d’Isarco all’incrocio con la
Val Pusteria.
E se per Roberto
l’inquietante soggiorno durò solo una settimana, Vinicio vi restò, in quel
forte austro-ungarico, per una ventina di giorni.
In realtà si
trattava di tre settimane di giusto castigo, che sostituivano i venti giorni di
arresti di rigore che il ragazzo si era più che meritatamente conquistato
essendo stato ‘semplicemente’ la causa di un ritardato giuramento!
Per
tutto il periodo Vinicio non poté uscire dal fortilizio e dormì completamente
vestito, scarponi inclusi.
Come
esordio del suo servizio da ufficiale non era niente male!
Rientrò
in Caserma più spaesato che mai.
Qui
si ritrovò con il collega esploratore Alois Pfeifer ad essere d’improvviso
l’ufficiale più anziano. Il Comandante infatti si era assentato per frequentare
alcuni corsi e, inaspettatamente, non si rivide mai più.
E
poiché il caro collega Alois, come del resto tutti gli esploratori, era sempre
in giro a divertirsi con gli sci, finì che il ribelle Vinicio divenne a tutti
gli effetti, sotto gli occhi vigili e anche paterni dell’Aiutante Maggiore,
comandante ad interim della Compagnia.
Così
in pochi giorni, il neo-ufficiale in punizione si ritrovò ad essere Comandante
di un bel drappello di 150 alpini.
Obbligato
dagli eventi, fece presto ad imparare.
Arrivò
il periodo del campo estivo e contro il malcelato desiderio del suo superiore
di restare in caserma, Vinicio decise di partecipare al campo.
E
poiché come per tutte le Compagnie Comandi e Servizi anche a Bressanone i
vecchi, cari ed insostituibili muli facevano parte integrante del Battaglione,
successe che il sottotenente Callegari finì con lo scorrazzare tra le sue
montagne, tra Trentino Veneto ed Alto Adige, portandosi a spasso, oltre ai suoi
alpini, quelle simpatiche e testarde bestiacce, capaci come nessun altro di
trasportare nei tortuosi sentieri montani i gravosi mortai da 120.
Iniziò
il campo e animali e uomini cominciarono il loro cammino tra le montagne. In
quella meteorologicamente incostante primavera, caldo afoso e violenti
temporali si alternavano con incessante continuità.
Dopo
una lunga cavalcata, era solo il secondo giorno di marcia, l’intera comitiva
raggiunse l’Alpe di Pampeago, sopra Cavalese.
Durante
la notte una fitta nevicata imbiancò tutta la montagna con oltre 20 cm di neve.
Colse
tutti di sorpresa.
Le
tendine non preparate a dovere si afflosciarono fra le sonore bestemmie degli
alpini ed il freddo pungente mise a dura prova i ragazzi che indossavano già le
uniformi estive.
Da
Bressanone arrivò l’ordine di attendere in zona a causa del pericolo di
valanghe e di predisporre una sorta di campeggio all’interno della struttura di
un fabbricato in costruzione.
Vinicio
pensò che tale riparo riguardasse tutti, soldati ed animali.
No,
per i muli no. La disposizione era tassativa. Gli ibridi equini avrebbero
dovuto restare all’addiaccio.
La
notte seguente la temperatura scese sotto lo zero con forti folate di vento
gelido.
I
turni di guardia divennero più ravvicinati ed il fuoco fu mantenuto sempre
acceso.
Il
giorno seguente il sergente salmerista comunicò che 4 muli si erano ammalati.
Era
un grave problema perché, a causa del gelo pungente, l’iniziale forma di
raffreddamento avrebbe potuto trasformarsi in polmonite. Bisognava
assolutamente sostituire i quadrupedi malati.
Fu
avvertito Il Comando che inviò di tutta fretta il ‘carro attrezzi’ con tre muli
di ‘ricambio’, riportandone altrettanti in caserma.
Il
quarto si chiamava Impero.
Sempre
il primo, il più forte, il leader.
Il
suo alpino conducente, quasi piangendo, insistette perché il suo mulo non fosse
portato via.
Con
le lacrime agli occhi, promise che lo avrebbe curato lui e che lo avrebbe fatto
guarire.
Il
comandante Vinicio, pur con qualche logica perplessità, acconsentì.
Ma
diede anche un termine perentorio di due giorni, oltre i quali, se non si fosse
completamente ristabilito, anche Impero sarebbe stato rispedito in caserma.
Per
due notti e per due giorni quell’Alpino (l’A maiuscola non è casuale) rimase
seduto con una coperta sulle spalle in mezzo alla neve ed al freddo a far
compagnia al suo mulo.
Lo
accarezzava sul muso e parlava dolcemente a quell’animale dallo sguardo
lagrimoso e che respirava a fatica per causa delle froge piene di muco.
Ma
il giorno seguente Impero cominciò già a dare segni di insofferenza.
Ormai,
dal suo cocciuto punto di vista, era stato tenuto troppo a lungo legato al
filare.
Fu
sufficiente un’occhiata d’intesa tra Vinicio ed il conducente perché Impero
fosse finalmente liberato e potesse lanciarsi in due poderose sgroppate
liberatorie per una corsa in discesa nel prato innevato.
All’una
di quella notte la compagnia del sottotenente Callegari partì per la tappa
successiva.
Vinicio
era in testa al plotone e, immediatamente dietro, zampettava Impero che
continuava a dare colpetti col muso sulla schiena dell’ufficiale. “Vai troppo
piano - sembrava volesse incitarlo - meglio se allunghi il passo!”
CAPITOLO
44
IL CAR DI BRA, BIBINI E GALLINACCI
Il 64° Corso AUC era
finito.
Prima di lasciare Aosta,
Luciano Ivaldi venne chiamato in fureria da un graduato che lo invitò a
scegliere la destinazione da Sottotenente.
Pensò quale ministro o cardinale
lo stesse raccomandando.
Un dattilografo lo tolse
d'impaccio rivelandogli che il diritto di scelta spettava agli AUC
classificatisi nel primo decimo del Corso.
Quale rilevante
performance gli aveva permesso di conseguire questo significativo risultato?
Luciano non lo seppe mai!
Forse era stato tra i più
veloci al percorso di guerra.
Tra le varie destinazioni
scelse il secondo Reggimento Alpini, la Taurinense: non intendeva perpetuarne
la gloria e i fasti ma, semplicemente, non voleva allontanarsi troppo da casa.
Augurò buona fortuna al
suo compaesano Angelo Soave, che andava a difendere i confini del Nord-Est, e
si ritrovò a Bra, cittadina nota per i suoi vini e i suoi formaggi.
In quei luoghi, precisamente a Pollenzo, Carlin Petrini ha fondato
“Slow Food” ed oggi vi si trova l'Università del Gusto, da dove escono i
giovani chef che portano la cucina italiana nel mondo.
La caserma di Bra era un
C.A.R. (Centro Addestramento Reclute).
Lì, ritrovò Enrico
Casalegno, Sandro Cerrato ed Adriano Peracchia. Capitan Burdese era il
Comandante della Compagnia e ad ognuno dei quattro novelli Sten fu assegnato il
comando di un Plotone. Erano i ragazzi di leva che arrivavano ogni due mesi e,
dopo quaranta giorni di addestramento, raggiungevano i Reggimenti operativi.
Il primo compito di
Luciano consisteva nel selezionare i futuri alpini. In pochi minuti doveva
individuarne le attitudini psico-fisiche. Il campionario che gli sfilava
davanti era variegato. Testimoni di Geova che rifiutavano la naia, contestatori
del 68' che avevano in odio il sistema, ladri e spacciatori con la fedina
sporca ... e per fortuna molti ragazzi giudiziosi.
Fatta la selezione, i
giovani affrontavano la triplice alleanza: doccia, parrucchiere, vestizione. Il
parrucchiere era un boia senza pietà ... finiti i tempi dei Beatles e Rolling Stones!
Il giorno seguente
iniziavano le lezioni.
Orari delle attività,
regolamento, gradi, saluto, presidio, punizioni ...
Il Corso appena terminato
alla SMALP? Se ne faccia due volte la radice quadrata, si aggiunga una massa di
allievi svogliati, li si paghi 500 lire al giorno. Il risultato sarà sempre
troppo.
Luciano
Ivaldi ed Angelo Soave
Era molto meglio
l'addestramento, sul grande piazzale della caserma.
Avanti-march! Dietro-front! Segnare-il-passo
...
“Fa meno baccano un
esercito che cammina di un esercito che segna il passo”, disse un generale
infastidito.
Sottufficiali tronfi
impartivano ordini urlando. Il loro obiettivo recondito era di trasformare
giovani imbranati in arditi guerrieri.
Di fatto, alla fine del
CAR, bastava che i nostri eroi sapessero imbracciare il fucile e lanciare la
bomba a mano un poco distante dai piedi.
Prima che partissero, con
malcelato sorriso, Luciano diceva loro: “La pacchia è finita. Sulle montagne
troverete i miei compagni di Corso. Sono molto esigenti, vi faranno trovare
lungo!”. Ma era certo che non sarebbe
andata così.
Poi, nell'estate del
1972, con grande sorpresa, arrivarono tra le nuove reclute alcuni giocatori di
calcio. A quel tempo non era ancora attivo il Centro Sportivo di Formia,
pertanto anche gli sportivi più famosi cadevano nella tagliola del C.A.R..
Tra quei coscritti c’era
anche Claudio Onofri, che allora calcava i campi della serie C e che successivamente
sarebbe diventato una delle bandiere del Genoa.
Luciano Ivaldi,
conoscendo la sfrenata simpatia dell’amico e compagno di corso Alberto Orecchia
per i colori rossoblù, provvide subito ad avvisare il compagno del nuovo arrivo
in caserma.
All’uopo, è doverosa una breve parentesi e pubblicare per
intero due mail che Alberto Orecchia trasmise all’istante, non appena lesse sul
nostro blog le due righe appena scritte:
Mail n.ro 1: “Caro Paolo, stamattina
sono balzato sulla sedia quando aprendo il nostro blog e scorrendo il
contributo di Luciano Ivaldi mi sono scoperto inaspettatamente tifoso a mia
insaputa dei ‘Bibini’ o ‘Gallinacci’ che dir si voglia, gli odiati -
calcisticamente - tifosi dell'altra sponda calcistica di Genova. Ti prego di
rettificare URGENTEMENTE quella indicazione malamente stravolta della mia amata
fede calcistica. Io sono e sarò sempre fieramente BLUCERCHIATO, cioè
Sampdoriano! Sono quelli i soli colori che amo e difendo sportivamente! Luciano
ha frainteso il fatto che io conosca televisivamente un ex capitano di
quell'altra squadra cittadina, Onofri; ma mai mi sono dichiarato suo tifoso.
Elimina dunque quell'eresia! Grazie”.
Mail n.ro 2: “Una precisazione: noi
Sampdoriani siamo identificati simbolicamente dal Marinaio o Baciccia,
cioè dal marinaio ligure che figura nello stemma societario con berretto e
pipa in bocca. Gli ‘altri’, invece, dal grifone, figura del simbolo del
Comune di Genova. Entrambi gli schieramenti usano sfottersi ironicamente con
nomignoli. Noi Sampdoriani, in virtù della nostra maglia blu con righe
orizzontali rosse e nere bordate di bianco, siamo i Blucerchiati e
veniamo derisi anche come ‘i ciclisti’ alludendo alla nostra maglia che evoca
quella dei campioni mondiali dello sport a due ruote con l'arcobaleno cerchiato
sul tronco. Quei bicolori verticali dirimpettai di gradinata, così
rappresentati nella loro effige, sono invece appellati volgarmente ‘bibini’,
termine genovese per indicare ironicamente i tacchini, o ‘gallinacci’,
rimandando a quegli animali il loro simbolo stilizzato. Ad ognuno
dunque il suo Credo e la sua Passione sportiva. Amici si, sempre, ma fieri e
distinti rivali nel tifo calcistico”.
Erano gli anni in cui
andavano al massimo i tornei di calcetto, a cinque o a sette giocatori, in
notturna e Luciano non si lasciò sfuggire l'occasione di diventare presidente
di una squadra di calcio senza tirar fuori un quattrino.
Claudio Onofri fu
nominato capitano e subito ne approfittò per chiedere che i
militari-calciatori, nel giorno in cui avrebbero giocato la sera, fossero
esentati da marce e servizi. Si arrivò ad una transazione: d'accordo per le
marce ma non per i servizi. Dopotutto si trattava di usare le mani, non i
piedi!
Luciano chiese quindi a
Capitan Burdese il permesso d'iscrivere la squadra ai tornei, anche a quelli
fuori presidio. Il comandante acconsentì a condizione che Luciano fosse sempre
presente e che in caso di rissa, in campo o fuori campo, i rei fossero puniti
con tre giorni di CPR.
Iniziarono i tornei. I
giocatori erano così bravi che, sin dalla prima partita, si intesero a
meraviglia. Avevano un controllo di palla, una facilità di gioco, di lancio, di
finte e contro-finte, di tiro ... da stordire gli avversari.
Gli spettatori
aumentavano di partita in partita.
I giornali locali
scrivevano di questi successi. Tutte le Pro Loco del circondario chiedevano che
la squadra degli alpini del C.A.R. di Bra fosse iscritta ai loro tornei.
Luciano Ivaldi fu
selettivo, solo tornei importanti: Alba, Nizza Monferrato, Acqui Terme. I loro
tifosi erano gli alpini di leva e dell'ANA, gli amanti del bel calcio, tutti
quelli che i giocatori li avevano visti solo in TV, le ragazzine che leggevano
Grand Hotel ...
Vinsero in scioltezza il
torneo di Alba.
Il primo premio era una
FIAT 500.
Il sottotenente Ivaldi
andò a ritirare il premio e disse agli organizzatori: “Che faccio adesso,
taglio a fette la 500 e la distribuisco ai giocatori?”
Il concessionario FIAT lo
tolse d'impaccio: “La 500 costa 500 mila lire. La tengo io e vi do i soldi.”
Affare fatto! L'indomani
andò ad incassare. Il rivenditore contò i soldi sull'unghia, in quegli anni non
si parlava di tracciabilità del contante!
Per festeggiare la
vittoria venne prenotato un pranzo in uno dei ristoranti più in voga della
Langhe, a Santa Vittoria d'Alba. Erano più di cento, tutti alpini.
Venne loro riservato il
salone dei matrimoni. Le portate erano quelle classiche della cucina regionale.
Affrontarono gli antipasti con un Gavi d'annata, poi attaccarono i primi con un
generoso Barbera e finirono i secondi con un corposo Barbaresco. Il Barolo no,
è un vino per ricchi, non per gente di montagna.
Il dolce (allora non si
chiamava ancora dessert) era una torta su quattro piani, con sopra un pallone
di crema e cioccolato. Fantasia del cuoco, stufo di infilare sposini di
plastica sulle torte di nozze. Brindarono con un Moscato d'Asti e finirono di
stordirsi a grappini e caffè. Il pranzo, iniziato alle 13, finì alle 18.
Luciano andò a pagare il
conto: 650 mila lire.
La FIAT 500 non bastò.
Staccò un assegno a
saldo, un mese di stipendio.
CAPITOLO 45
LA 115° COMPAGNIA
MORTAI E IL TENENTE IPPOLITO
La 115a Compagnia
‘specialisti al tiro mortai pesanti da 120’ apparteneva al battaglione Cividale
dell’8° reggimento della Brigata Alpina Julia ed era di stanza nella caserma
Zucchi di Chiusaforte in provincia di Udine, sulla strada Pontebbana, poco
distante da Tarvisio e dal confine con l’Austria e l’allora Jugoslavia.
Ivi giunse nel lontano
gennaio 1972, proveniente dal 64° corso allievi ufficiali della Scuola Militare
Alpina (la Smalp) di Aosta, il sottotenente Franco Ferrario in servizio di
prima nomina.
La 115a Compagnia era
comandata dal tenente Giovanni Ippolito; il suo vicecomandante era il tenente
X.Y., che brillava per la sua assenza in quanto distaccato a Udine con
l’incarico di comandante della banda musicale di Brigata.
Il sottotenente di
complemento ‘anziano’ Ventura si stava congedando proprio in quei giorni e così
avvenne che, non ancora arrivato, Franco Ferrario era già diventato
vicecomandante di Compagnia! E che
Compagnia!
In forza alla 115a c’era
il reparto salmeria con ben 36 muli e circa 150 tra graduati ed alpini e i 3
sottufficiali, i sergenti Vincenzo Di Domenico, Giorgio Pezzali, Mario Castella
(quest’ultimo militare di carriera), oltre all’aggregato sergente Di Biasi con
il suo pastore tedesco addestrato per il soccorso antivalanga.
Il giovane sottotenente
era chiamato quindi ad assolvere un compito carico di responsabilità che
avrebbe potuto facilmente impressionare un novello ufficiale appena uscito
dalla scuola militare e ancora privo di esperienze di comando. Grazie però alla
acuta sensibilità ed all’appoggio del suo superiore Ippolito (che già dopo
pochi giorni gli sembrava di conoscere da anni) il passaggio non fu affatto
traumatico, anzi, lui riuscì incredibilmente a far risultare tutto molto
semplice e naturale.
Il tenente Ippolito,
ricco di competenze militari e di grandi doti umane, grazie alle quali si
meritava il rispetto, la leale obbedienza ed anche l’affetto dei sottoposti,
non era al contempo propriamente un campione di formalismo militare – a cui non
teneva tanto – dato che prediligeva all’etichetta una interpretazione elastica,
intelligentemente elastica, di regole e burocratismi.
Sostituendo volentieri il
protocollo gerarchico con rapporti diretti e spesso amichevoli, mostrava sempre
grande comprensione e sincera attenzione verso i vari problemi personali dei
suoi soldati.
Non disdegnava tra
l’altro di partecipare ad infuocati incontri di calcio che organizzavano i suoi
alpini nell’attrezzato campo antistante la caserma ed a serotine affumicate
partite a carte nel locale fureria dove la visibilità, man mano che si evolveva
il gioco, tendeva rapidamente a zero.
Purtroppo forse anche a
causa della sua personalità poco convenzionale, i suoi meriti non venivano
sempre pienamente riconosciuti dalle ‘alte sfere’ che un po’ lo sottostimavano
– o c’era dell’inconscia invidia? – e con lui, conseguentemente, la sua Compagnia,
ritenuta a volte un poco ordinato insieme di alpini. Nonostante avesse
l’anzianità di servizio adeguata, infatti, non era stato ancora promosso a
capitano.
Il primo pesante impegno
che si prospettò di lì a … subito, fu il campo invernale.
Freddo, marce, percorsi
scavati nella neve per il passaggio dei muli, pernottamenti in quota in fienili
o ‘trune’, pericoli e boati di non lontane slavine… nulla venne risparmiato,
eppure tutto filò liscio.
Si era ormai arrivati a
fine marzo, quando una sera Ippolito chiamò Franco nella sua stanza del circolo
ufficiali e contorcendosi per i dolori provocati quasi certamente da pesanti
coliche, gli preannunciò che avrebbe dovuto essere ricoverato, e con un filo di
voce gli disse:
Tre parole tre: “Adesso
pensaci tu”, costituirono il passaggio di consegne.
Il mattino seguente il
comandante del battaglione, il colonnello Milanese, convocò a sua volta il
giovane ufficiale:
“Signor sottotenente
Ferrario, il suo comandante sarà assente per malattia e ne avrà per molto tempo.
Il comando della Compagnia ora spetta a lei”. (!) Poi, quasi en passant,
aggiunse: “Tra due giorni dovrete partire per la scuola tiri e le relative
esercitazioni, poi per il pre-campo e il campo estivo. Starete fuori per quasi
3 mesi. Predisponga e organizzi il tutto
per tempo. Auguri.”
Gulp! Il compito era
molto complesso e gravoso. Rommel stesso ne sarebbe stato disorientato.
Occorreva infatti
organizzare e in brevissimo tempo trasferimenti autotrasportati, abbigliamento
completo con il cambio divisa da invernale ad estiva, equipaggiamenti e
materiali vari, armamenti, organizzazione delle salmerie, organizzazione delle
cucine da campo e dei rifornimenti, stabilire i programmi per il personale che
rimaneva in sede ...
Insomma bastava
semplicemente definire tutto il necessario escludendo il superfluo.
Sull’esempio del modus
operandi del tenente Ippolito, Ferrario riunì a consiglio i suoi validissimi
amici sergenti Di Domenico, Castella e Pezzali ed i graduati spiegando loro la
complessità della operazione e chiedendone la collaborazione per il miglior
successo dell’impresa.
Anche la truppa, messa al
corrente durante la susseguente adunata, non si tirò indietro, anzi contribuì
attivamente avanzando suggerimenti e proposte per ottimizzare il lavoro.
Tutti assolsero in modo
encomiabile il loro compito e puntualmente all’ora prevista la 115a Compagnia
equipaggiata di tutto punto partiva sugli autocarri alla volta di Sappada in
Cadore sulle Dolomiti bellunesi.
A Sappada si svolse la
prima parte dell’addestramento. Ogni mattina sul greto del Piave si tenevano le
esercitazioni teoriche, le simulazioni di tiro e le lezioni di topografia.
Franco
Ferrario (in versione AUC)
(N.B.: Il mortaio spara
‘al coperto’ e non ‘vede’ l’obiettivo, di solito distante qualche chilometro,
che deve raggiungere tramite tiro curvo a puntamento indiretto, dopo aver
calcolato sulla carta gittate e quote da scavalcare, sulla scorta delle
coordinate della propria posizione ricavate mediante metodi di orientamento e
di triangolazione geografica, e delle coordinate del bersaglio che vengono
tele-comunicate dall’ufficiale osservatore, il quale, posizionato in altra
zona, deve poi comandare gli aggiustamenti necessari. Ricevuti i dati,
l’ufficiale preposto alle armi deve commutare le misure lineari in misure
angolari per impostare l’alzo ed il puntamento, con l’ausilio di
rappresentazioni grafiche e tabelle. Poi definire la quantità delle cariche di
lancio da utilizzare).
A Franco, studente in
Fisica e futuro docente di Matematica e Fisica, toccava l’onere e l’onore di
istruttore della compagnia mortai.
Nel giro di 15 giorni,
tra lezioni, marce ed esercitazioni varie, il cosiddetto ‘disordinato e
svaccato’ insieme di capi arma, serventi ai pezzi, goniometristi, comandanti di
squadra e salmeristi (dovevano addestrarsi a caricare e scaricare velocemente
sui muli armi e casse delle munizioni), dopo aver ben assimilato tecniche ed automatismi
nei piazzamenti e nei puntamenti, era diventato un gruppo strutturato, omogeneo
ed estremamente efficiente.
Intanto Ippolito, finita
la convalescenza, era rientrato in servizio ed aveva raggiunto i suoi ragazzi.
Terminato questo periodo,
si doveva tornare in Carnia, al poligono di tiro in val di Resia, per la parte
conclusiva dell’addestramento che prevedeva esercitazioni a fuoco e prova
d’esame finale: la 115a Compagnia era stata comandata a rappresentare il
Cividale in un battaglione di formazione costituito dalle varie Compagnie
mortai da 120 dell’8° reggimento, che avrebbero dovuto competere e rivaleggiare
per il migliore risultato.
L’attendamento fu
impiantato a est di Prato di Resia, in prossimità del monte Canin.
Il battaglione era comandato
da un Maggiore che faceva parte di quelli che non tenevano in gran conto la
115a e che già in precedenti occasioni aveva velatamente manifestato una non
certo benevola attenzione nei confronti di quel reparto.
Dopo due settimane di
perfezionamento dei tiri, esercitazioni sia diurne che notturne e continui
avvicendamenti dei diversi reparti, venne finalmente il momento della prova
finale.
Sopra una altura che
fungeva da osservatorio, a circa 1 km in linea d’aria dall’area bersaglio,
erano attestati tutti i vari ufficiali del battaglione, sotto la direzione del
Maggiore e sotto lo sguardo un po’ trepidante del tenente Ippolito che non
poteva mancare all’appuntamento finale senza l’intima speranza di un discreto
risultato e di un onorevole piazzamento, speranza corroborata dalla stima verso
il giovane sottotenente Ferrario e dalla fiducia nel livello di preparazione
raggiunto da tutti i suoi. Alla sua responsabilità sarebbe stato comunque
imputato il successo o, al contrario, un risultato negativo.
Adesso toccava a Franco
dirigere i tiri della 115ma.
Con sadico intento il
Maggiore Comandante ruotò il cavalletto che reggeva il cannocchiale, lo puntò
sulla montagna di fronte e ne focalizzò un puntolino.
Poi chiamò a sé Franco e
lo invitò a contemplare attraverso il cannocchiale il bersaglio che aveva
stabilito per lui e la sua compagine.
Perfidamente aveva
individuato il sito più ‘rognoso’ della zona, estremamente difficile da
riconoscere sulla carta topografica e da tradurre in longitudine, latitudine, quota
... Si trattava infatti di uno stretto terrazzamento di circa 20 metri per 10
più o meno a metà di una quasi verticale parete di granito, dove crescevano
alcuni alberelli e cespugli.
Insomma, solo una piccola
insignificante asperità nella vastità della montagna.
Mentre cercava di
aggredire l’ardua questione, prendendosi il tempo necessario, colse alle sue
spalle la voce beffarda del maggiore che, rivolgendosi ad Ippolito, con
sufficienza commentava mormorando, ma non troppo: “Ferrario sta ancora inventandosi
le coordinate!”
“Ah sì? Ah sì?” disse tra
sé e sé il ragazzo, ferito nel suo militaresco orgoglio: “Mo’ ti faccio vedere
io. Io vengo del 64° AUC, sai? Mo’ sono cazzi!!!”
Franco stava prendendosi un po’ di tempo per il fatto che,
assistendo nei giorni precedenti alle prove delle altre compagnie, aveva visto
ripetuti tiri di aggiustamento con correzioni anche di 800/1000 metri. Troppo!
Non gli sembrava possibile che questi errori fossero dovuti
ad imperizia degli operatori, dato che anch’essi erano bene addestrati, e
nemmeno parevano tanto imputabili alla oggettiva difficoltà di individuare
obiettivi su pareti verticali.
Infatti, a conferma di queste riflessioni, ricontrollando accuratamente
le mappe, vi individuò una certa piccola imprecisione, sufficiente però a far
sballare di molto le gittate.
Decise perciò di rivedere i dati precedentemente raccolti e
di rifare con molta cura “il punto”, come suol dirsi, dell’arma base, cosa
fondamentale e da cui dipende praticamente il 100% del successo, operando gli
opportuni correttivi topografici.
Per far ciò fu preziosa la collaborazione dello stravagante
alpino goniometrista triestino Venutti.
Costui che, quando voleva, era un vero specialista, era anche
un personaggio singolare e bizzarro.
Girava sempre smisuratamente sovraccarico di cavalletto,
tavole geografiche, strumenti vari e binocolo, borse, fucile a tracolla,
borraccia e zaino.
Mancava solo che si portasse a spalla anche il mulo.
Barba incolta e divisa un po’ sbrindellata, si atteggiava
simpaticamente a guerrigliero centroamericano appena fuoriuscito dalle fila dei
‘Barbudos’ di Fidel Castro.
Durante le giornate delle prove, terminato il suo compito
specifico, si godeva lo spettacolo dei tiri in lontananza piazzandosi nella
piana poco fuori dell’abitato circondato dai ragazzini del paese dei quali,
utilizzando la propria dotazione viveri, con gallette e cioccolato – tra
l’altro ottimo! – e battute varie, si era accaparrato il tifo. Ogni tanto li
incitava a gridare a squarciagola il motto del Cividale: “FUARCE CIVIDAT!”
Fatte tutte le opportune
considerazioni, calcolate mentalmente le appropriate rettifiche da applicare a
quanto quotato nella mappa, tramite l’addetto alle trasmissioni, comunicò al
sergente Di Domenico (che dalla postazione base doveva comandare i capi squadra
mortaisti, mentre i sergenti Castella e Pezzali coordinavano i rifornimenti di
munizioni alle armi) le coordinate faticosamente desunte e diede l’ordine.
Al contempo
spasmodicamente scrutava la roccia con il cannocchiale per individuare il punto
dell’impatto e valutarne gli scostamenti dal bersaglio per mezzo delle tacche
graduate incise sulle lenti, sperando di trovare riscontro della giustezza
delle sue considerazioni; altrimenti avrebbe dovuto rivedere al volo il tutto.
Per somma disdetta il
primo colpo non esplose, il proiettile era svanito ‘nella immensità
dell’universo’!
Si trattava di un difetto
della spoletta oppure era un grossolano errore di calcolo?
Non c’era il tempo per
perdersi d’animo: bisognava decidere in fretta, il nemico non aspetta!
Il fatto era infatti
previsto nei manuali, naturalmente per chi li conosceva.
“Cosa fai adesso,
Ferrario?” chiese il Maggiore.
“Ripetere stessi dati”:
bisognava giustificare ad alta voce ogni scelta agli altri ufficiali
osservatori che seguivano con i loro binocoli lo svolgersi dell’azione; essi
dovevano valutare e approvare o meno le stime comunicate.
Il colpo esplose a 100
metri a destra e 50 sotto il bersaglio! Praticamente era quasi già centro!
Almeno così si valuta quando un proiettile da 120 mm cade a 50 metri circa
dall’obiettivo.
Ma poteva anche essere un
fatto casuale, episodico; occorrevano conferme (anche questo prescriveva il
manuale che teorizzava la migliore procedura da rispettare, sempre per chi lo
conosceva).
“Ripetere stessi dati”.
Il nuovo colpo cadde nello stesso punto. Non era casuale!!! Ma non bastava.
“Che ordine dai ora?”
interrogava il Maggiore, un po’ deluso.
“Devo fare forcella
assiale, perciò: a sinistra 200”.
“E perché non solo di
100? Saresti già in asse risparmiando tempo”.
“In combattimento, certo.
Ma in esercitazione vanno applicati tutti i possibili controlli”.
A denti stretti: “Bene”,
concluse il Maggiore.
Il colpo arrivò giusto
dove doveva arrivare: forcella impeccabile!
Il quasi smontato
inquisitore: “Ed ora?”
“A destra 100” ed il
colpo arrivò sull’asse sotto ancora 50 metri dall’obiettivo. E poi:
“Allungare 100”. Forcella
longitudinale anch’essa perfetta.
In pochi minuti, dopo soli
5 tiri di aggiustamento – tra l’altro tutti da considerare centro – il
sottotenente Ferrario della 115a Compagnia era già in grado di comandare
direttamente ‘l’intervento di Compagnia’ accorciando di soli 50 metri l’ultimo
dato. Tutti, dicasi tutti, i colpi esplosero in rapida successione nel povero
boschetto.
Esame superato a pieni
voti ed alla grande!
Dalla postazione delle
armi nel fondovalle giungevano intanto urla di “vittoria”, “evviva” e anche
qualche “vaffa…” urlate dagli addetti ai pezzi e dai comandanti d’arma,
informati dal caporale trasmettitore Ottaviano (rimproverato per questo dallo
scornato Maggiore: non sta bene, il nemico potrebbe individuarci…) che non
aveva saputo trattenersi ed al telefono aveva ripetuto più volte quasi
gridando: “Centro perfettoooo!!!”
In serata
all’accampamento un gongolante tenente Ippolito sprizzava felicità e
soddisfazione da ogni poro.
Sciolta ogni tensione,
pienamente riscattato nell’altrui considerazione, rinfrancato nel morale e del
tutto ristabilito nel fisico, con il suo consueto e informale modo di procedere
radunò la sua oramai ex ‘armata Brancaleone’.
Attraverso il solito
divertente e colorito eloquio, strappando più di un sorriso, spiegò e
commentò sottolineando ogni dettaglio lo
svolgimento di quanto avvenuto sull’osservatorio – cioè quanto dal fondo valle
non si poteva vedere direttamente ma solo intuire grazie alla ‘diretta’
telefonica di Ottaviano – non mancando poi di aggiungere un vivo apprezzamento
per l’operato da manuale dei mortaisti e dei sottoufficiali che avevano così
bene diretto le squadre di tiro e in particolare del suo, di nuovo vice,
sottotenente Ferrario, che ringraziò per il
brillante lavoro svolto e a cui rese merito del risultato raggiunto.
L’indomani, a battaglione
schierato a ranghi completi per la cerimonia di chiusura delle operazioni,
arrivarono ad un leggermente impacciato Ippolito i pubblici riconoscimenti e
complimenti degli ufficiali superiori e, miracolo, anche quelli del Maggiore.
La 115a Compagnia, in
considerazione dei risultati raggiunti, fu successivamente scelta per una
esercitazione di brigata sul monte Peralba ed anche qui i suoi mortai
sbriciolarono letteralmente le tavole in legno che adagiate sopra un pendio
costituivano i bersagli da colpire.
Ormai era giunta la fine
di settembre e per il sottotenente Ferrario si avvicinava l’ora del congedo.
Nel mese di ottobre la
115a doveva partecipare ad un’altra esercitazione di brigata, un’altra sfida,
ed il tenente Ippolito gli chiese:
“Ferrario, te la
sentiresti di fermarti in servizio ancora almeno per un mese?”
“Molto lusingato, grazie,
ma non ci penso nemmeno!”
Era ora di tornare a
casa.
CAPITOLO 46
UN ALZABANDIERA
TRAVAGLIATO
Alberto Orecchia era da
poco approdato a Feltre, ufficiale di prima nomina, assegnato alla 64ma
Compagnia dell'omonimo Battaglione. Una sera, girovagando alla scoperta dei
locali nei dintorni, in un bar di Pedavena impattò con piacevole stupore in un
suo concittadino, il sergente Caddeo Sergio, di Genova Sampierdarena, in
servizio di ronda esterna. Inevitabile fu l'accenno a quelle lontane amate
sponde che tanto li accomunavano.
Era al Battaglione solo
da pochi giorni e già tornava a fare breccia nel suo cuore la nostalgia dei
luoghi e degli affetti lasciati a malincuore per quel posto così lontano!
Ma era impossibile
usufruire già di una licenza.
Sprovvisto di un veicolo
in loco, per una fugace scorreria avrebbe dovuto affidarsi esclusivamente a
trenini e treni. Quella distanza chilometrica da coprire in un tempo
estremamente limitato era un pesante deterrente per quel suo intento. Severe
sanzioni erano inoltre previste per chi si recava oltre i confini del Presidio
senza autorizzazione. La riuscita indenne di quell'estenuante viaggio era
dunque pura utopia! Non aveva scampo! Sergio però gli confidò di essere un
esperto collaudato di quei colpi di mano e gli prospettò una sua nuova
escursione fuori porta.
Aveva un Maggiolone
Volkswagen verdone, ottimo cavallo di troia per sfondare quel perimetro
forzato.
Quelle quattro ruote
erano dunque la panacea del suo impellente nuovo tormento!
Senza esitazione accettò
i rischi di quell'imprevista chance offertagli. Dopo sole due settimane, al
primo sabato pomeriggio esenti entrambi dai servizi di compagnia, iniziò la
toccata e fuga verso la loro amata Genova. E allora vai! Feltre, Cittadella,
Padova, con Sergio che al volante fischiettava all'ossessione il motivetto
della quinta sinfonia di Beethoven, sua cabala collaudata per la riuscita
indenne dei raid.
Arrivati velocemente a
Padova, via sul primo treno per Milano e da lì su quello per Genova. Quando il
convoglio oltrepassò i Giovi sentivano già aria di casa. Finalmente sotto la
Lanterna!
Ad attenderli sui binari
ritrovarono le loro morose in trepidazione per quelle risicate ore da
trascorrere insieme.
Proprio vero quel vecchio
proverbio che recitava "Tira più un pelo di donna che una coppia di
buoi"! Rientrarono a Feltre al mattino del lunedì, giusto in tempo per
presenziare all'alzabandiera.
Con Sergio quale
sottufficiale d'ispezione, Alberto svolse anche dei servizi di picchetto.
In particolare, in una
gelida mattina di fine inverno si apprestava a quel compito, già svolto in
altre occasioni, deciso a portarlo a termine senza guai, osservando a menadito
le consegne sino al cambio del giorno successivo. Tante erano le incombenze che
comportava.
Nella caserma Zannettelli
convivevano da tempo due schieramenti, il glorioso Battaglione degli Alpini
‘Feltre’ ed il Gruppo Artiglieria da Montagna ‘Agordo’.
Da tempo un capitano di
quest’ultimi, un personaggio particolarmente pedante con tutti i subalterni e
mal sopportato per i suoi metodi dagli stessi suoi uomini, era solito eseguire
il compito di capitano d'ispezione con un'acredine smisurata verso tutta la
guardia comandata, ancor più se composta da alpini.
Già più volte si era
scontrato caratterialmente anche con il collega del Battaglione ‘Feltre’, suo
pari grado, ricevendone in cambio colorite rimostranze verbali.
E quella sera era di
servizio!
Tutti temevano quel
capitano d'ispezione che era uso fare improvvisi blitz notturni per coglierli
in fallo.
Con Sergio che lo
affiancava, Alberto si premurò quindi di istruire il caporale maggiore capoposto
e la muta della guardia sulle consegne da osservare durante la notte.
La guardia montante alla
caserma era stata assegnata agli alpini della sua stessa compagnia. Quei
ragazzi facevano parte di uno scaglione da poco arrivato dal CAR piemontese della
Cadore ed in quel periodo di nuovo ambientamento erano stati sottoposti ad un
duro addestramento atto a farli entrare nel vivo del loro servizio di leva.
Alla sera tutti gli
alpini e gli artiglieri rientrarono alla spicciolata dopo la loro libera uscita.
All'ora prestabilita
Alberto fece chiudere il portone principale e richiamò il capo muta della
guardia rimarcandogli le consegne.
Da allora e fino alla
riapertura del mattino, Il piantone di guardia, osservando dallo spioncino
chiunque si fosse presentato, aveva il compito tassativo di informarne Sergio.
Quest’ultimo avrebbe poi rintracciato Alberto ovunque fosse stato in modo che
potesse provvedere celermente e personalmente ad identificare il visitatore e
concedergli l'eventuale ingresso in caserma.
Era ovvio che se si fosse
presentato il comandante di Battaglione o un qualsiasi altro ufficiale
superiore avrebbe dovuto farli entrare senza esitazione. Ma altri, senza una
più che valida giustificazione, sarebbero rimasti inesorabilmente fuori.
Alberto compì i suoi giri
di controllo interno alla caserma, alle armerie, alle camerate, un giro anche
alle salmerie: tutto a posto.
Rientrò al corpo di
guardia, ormai era tarda notte.
Accusava una leggera
stanchezza e decise di buttarsi sulla branda nell'attigua saletta a lui
riservata. Avrebbe dovuto riposare con un occhio solo chiuso, sdraiato
completamente vestito, con gli scarponi che gli stringevano i piedi, il
cappotto, il cinturone e la pistola! Accennò a chiudere gli occhi ma era
impedito da quel pesante fardello.
Memore di altri servizi
di picchetto passati insonni, decise di trasgredire alle consegne per
concedersi una defatigante dormita. Si liberò allora della fascia azzurra, del
cappotto, del cinturone e degli scarponi per abbandonarsi agiatamente, anche
solo per pochi minuti, nelle braccia di Morfeo.
Finalmente lo colse un
profondo sonno ristoratore.
Sapeva di essere punibile
se scoperto, ma pensò di essere esente da sorprese, tutelato dalle disposizioni
impartite alla guardia e confidando nella complicità di Sergio.
Invece...
Quella stessa sera gli
ufficiali della sua compagnia avevano invitato a cena il loro capitano. “Beati
loro – pensò Alberto - saranno a fare bisboccia ed io sono qui di servizio!”.
Ma forse per gli effetti della loro abbondante libagione o per semplice
goliardia quel gruppo decise di giocargli un tiro mancino, rompendogli le
scatole in piena notte.
L'alpino di guardia al
portone sentì bussare e aprì lo spioncino. Ma non era il temuto capitano
d'ispezione! Riconobbe invece quei visi che aveva innanzi: erano gli ufficiali
della sua compagnia e soprattutto c’era anche il loro capitano! Impietrito da
quella presenza dimenticò la perentoria consegna e passivamente aprì la
porticina a quel gruppo un po’ alticcio che invase il corpo di guardia.
Sprofondato nel suo sonno ristoratore Alberto non avvertì quanto gli stava
succedendo intorno. Un sottotenente attuò un malizioso scherzo a sue spese che
avrebbe potuto rivelarsi oltremodo pesante: con un colpo di mano fece veloce
irruzione nella sua stanza e trovatolo addormentato si appropriò furtivamente
della sua fascia azzurra e della sua pistola. Con quei trofei se ne uscì dalla
caserma ostentando le sue prede e osannando rumorosamente la sua vittoria.
Alberto si destò per
quello schiamazzo e con immenso dissapore si accorse del furto patito.
Si rivestì velocemente.
Quel gruppetto di
colleghi era fuori dal portone e l'autore di quella marachella, ebbro oltre
ogni limite, indossata la fascia sugli abiti borghesi stava scorrazzando su e
giù nel viale antistante la caserma inforcando il suo ciclomotore Ciao.
Era un ‘padre’ del 63°
che di lì a poco si sarebbe congedato. Abitava nelle immediate vicinanze,
fortunato o divinamente super raccomandato per quella insolita assegnazione
logistica. Alberto uscì e cercò invano di rincorrerlo supplicandolo di
restituirgli il maltolto. Presagi di nefaste sventure fecero prepotentemente
breccia nella sua mente al pensiero delle successive conseguenze penali, se non
fosse riuscito a recuperare quegli indispensabili accessori. Niente da fare:
quello sparì nella notte ed Alberto, imprecando, rimase solo con le sue
inquietudini.
Era già quasi mattina;
poco dopo avrebbe dovuto presenziare all'adunata con il successivo alzabandiera
ed era ancora in ambasce per quelle privazioni!
Fortunatamente un altro
Sten era già arrivato di buona lena in caserma e grazie a lui, àncora di
salvezza, pose fine momentanea a quell'impaccio. Gli procurò la sua fascia e si
recò nell’alloggio di Alberto, una villetta nelle vicinanze della caserma, dove
recuperò una pistola-giocattolo, una Jaguarmatic, precedentemente acquistata
perché riproduzione molto similare della pesante Beretta di ordinanza. Con
quella nella fondina e con quell'azzurro rimediato era pronto per iniziare la
mattinata, pur con il martellante pensiero del recupero dell'arma sottrattagli,
da riconsegnare in armeria.
Per sua fortuna la notte
aveva portato consiglio a quel ladruncolo rinsavito che forse impietosito dalle
sue paure decise di riconsegnargli il tutto solo all'ultimo momento, prima
dell'adunata. Decadeva così il suo palesato timore di dover finire come novello
Silvio Pellico a guardare i muri del carcere militare di Peschiera. Riprese il
suo servizio rinfrancato: adunata, alzabandiera e successiva presentazione
della forza presente in caserma all'arrivo del comandante di Battaglione.
Tutto filò liscio, anzi,
quasi tutto.
Finalmente smontato dal
turno, ritornò dopo qualche ora alla sua compagnia.
Il suo ‘team’ di colleghi
ufficiali lo aspettava al varco in fureria pronto con gesso e lavagna a
rimpinguare abbondantemente il loro 'bottigliometro'.
Cosparso il capo di
cenere per l'accaduto, accettò poi l'inevitabile cazziatone del suo capitano.
Sarebbe stato inutile
rimarcargli la sua partecipazione altamente condizionante a quella combriccola
di buontemponi.
Quella notte agitata
vissuta balordamente nell'ansia foriera di una punizione biblica servì ad
Alberto da lezione e successivamente svolse sempre con la dovuta diligenza i
compiti propri del suo ruolo.
“Certamente - scrive oggi Alberto - il racconto di tale
malefatta non è edificante, ma penso che simili 'cappelle', forse anche
peggiori, le abbiano combinate tanti di noi. Non credo che il nostro servizio
militare sia stato tutto costellato da episodi da libro Cuore e allora chi è
senza peccato scagli la prima pietra!
Quanto accadutomi allora sottolinea come talvolta tante
persone che reputiamo 'amici' in realtà non si rivelino tali!”.
CAPITOLO 47
MISSIONE A
COGNE
Aosta.
Caserma Testafochi.
Una mattina di fine
febbraio il Capitano Albarosa convocò nel suo ufficio il sottotenente Giuliano
Levrero per disposizioni urgenti giuntegli dal Comando di Battaglione.
Lo fece accomodare nel
suo studio e gli comunicò che era stato scelto per selezionare e scortare a
Cogne un gruppo di alpini, possibilmente istruttori di sci o comunque allievi
maestri, in quanto nella vallata c’era bisogno di gente che preparasse
adeguatamene le piste di fondo in occasione dei campionati italiani assoluti
femminili e giovanili, che si sarebbero disputati nelle settimane successive.
In tutta onestà Giuliano
chiarì subito al suo comandante che lui sugli sci da fondo se la cavava a mala
pena, e pertanto non pensava di essere la persona più adatta.
Gli fu risposto che così
era stato stabilito e che comunque il suo compito si sarebbe limitato ad
accompagnare la sua squadra ed a riportarla sana e salva la sera in Caserma.
Inoltre avrebbe dovuto tenere i contatti con le autorità locali; il tutto per
una decina di giorni.
Giuliano saltò di gioia
al solo pensiero di starsene fuori dal collegio della Testafochi per dieci
intere giornate, e per di più a Cogne; finalmente poteva respirare un po' di
libertà!
Si mise subito al lavoro:
al Battaglione Aosta ‘soggiornavano’ molti ragazzi valdostani, ne conosceva
alcuni che erano già istruttori di fondo e gli fu facile sceglierne una dozzina
tra i migliori.
Giuliano sperava inoltre
che quell’incarico li avrebbe dispensati dalle solite formalità di caserma,
concedendo loro una più ampia autonomia, ma fu così solo in parte. In realtà,
la tragica levataccia, il battaglione schierato sul piazzale, l’alzabandiera, i
plotoni e le squadre incolonnate e destinate ai propri servizi, insomma, tutte
le procedure del primo mattino erano rimaste inalterate!
Solo a quel punto un ACL
(auto carro leggero), già pronto accanto alla porta carraia, li trasferiva a
Cogne per poi ricondurli a casa la sera.
Il primo giorno,
arrivarono a Cogne molto presto. Sulla piazza principale di fronte al Comune,
una piccola folla li stava già aspettando. Erano le autorità del paese:
sindaco, assessore, vigile, autorità della Valle, Pro Loco, Ente Parco,
istruttori di fondo, responsabili delle piste. Non mancava proprio nessuno.
Furono accolti con il
naturale e consueto calore bonario proprio della gente di montagna.
Dopo i convenevoli di
rito ed una salutare e robusta prima colazione, i responsabili delle piste
spiegarono quali fossero le incombenze da svolgere sotto la loro guida e
divisero gli alpini in piccoli gruppi. Quindi si incamminarono per i vicini
prati di Sant'Orso per dare inizio ai lavori, con l’accordo di rientrare a
mezzogiorno per il pranzo.
Il solo Giuliano rimase
nella bella piazza Emile Chanoux. Ma continuamente vigilato e scortato da
qualcuno che si sentiva in dovere di offrirgli qualcosa nel solito bar di
fronte al Municipio, il Café du Centre.
Non poteva assolutamente
staccarsi da lì e girovagare in pace e tranquillo per il paese. In
quell’assurdo eccesso di ospitalità, era sempre sotto continuo controllo, pedinato
e bloccato. E d'altra parte non poteva nemmeno rifiutare l'offerta di bere
qualcosa in compagnia: qualcuno avrebbe potuto offendersi!
Quella paradossale
situazione si protrasse tragicamente per dieci giorni sia la mattina che il
pomeriggio, tranne le poche volte in cui Giuliano doveva, necessariamente ma
temporaneamente, recarsi in qualche ufficio. Ma tutti i vari uffici erano
sempre nel Municipio, in altre parole troppo vicini al bar, esattamente di
fronte!
A mezzogiorno i suoi
alpini tornavano stanchi e con un appetito da lupi, mentre Giuliano, poco
affamato per la mattinata trascorsa al bar tra caffè ed aperitivi, e per nulla
affaticato, tendeva a temporeggiare.
Poi nel primo pomeriggio,
dopo un più che abbondante pranzo nell’ottimo ristorante di Via Limnea
Borealis, i ragazzi e l’ufficiale venivano risucchiati dalle loro ardue
attività: gli alpini riprendevano a tracciare e a battere faticosamente gli
anelli delle piste da fondo, mentre Giuliano continuava a sottostare alla
disagevole tortura di ingurgitare controvoglia e fino alla nausea caffè,
bicchierini di buon vino e stuzzichini vari.
Infine la sera, verso
l'imbrunire, dopo aver salutato tutti, previo naturalmente l'ultimo giro di
grappa, si tornava in caserma.
Si giunse così al decimo
ed ultimo giorno. Ormai le piste per le prossime gare di fondo erano tutte
tracciate: non c'era più bisogno degli alpini e del loro ufficiale.
Le autorità locali,
soddisfatte per il lavoro svolto con ottima perizia dagli alpini, decisero
pertanto di festeggiare i ragazzi ed il loro comandante con un allettante
banchetto finale, allestito con i prodotti gastronomici locali e dove la
varietà dei liquidi non era di certo inferiore a quella dei solidi!
Era quasi giunta l'ora di
tornare, con l'ACL puntualmente pronto come sempre sulla piazza a fianco del
municipio, quando Giuliano vide in lontananza un gruppetto vociante di suoi
alpini che procedeva occupando tutta la strada. Avanzavano lentamente e a
fatica come se stessero arrampicandosi su qualche erto sentiero, con fare
ciondolante e scomposto.
Alcuni erano sbronzi al
punto giusto, ma Giuliano non se ne preoccupò più di tanto: quella festa di
ringraziamento era stata organizzata per loro, che avevano lavorato con serietà
ed impegno per tutto il periodo. Quel piccolo premio se l’erano ampiamente
meritato ed un po’ di baldoria fuori ordinanza poteva anche essere concessa!
Al termine dei
festeggiamenti le autorità ringraziarono calorosamente il gruppo dei militari,
oltre a riempirli di una serie infinita di gadget a ricordo dell’evento che si
sarebbe svolto nei giorni successivi.
Immancabilmente,
conclusero il pomeriggio con un’ultima impegnativa bevuta!
Non fu facile far salire
l’intera squadriglia sul cassone posteriore dell’ACL.
I più sbronzi vennero
caricati a peso come sacchi di cemento, mentre gli altri, gli alticci,
riuscirono a fatica a guadagnare il loro posto. Per fortuna, l’unica persona
dell’allegra brigata che si era mantenuta sobria risultava essere l’autista!
Dall'abitacolo di guida,
dove sedeva anche Giuliano, si sentiva cantare, vociare, ridere e pareva che
tutto procedesse normalmente. Finalmente arrivarono sul piazzale della
Testafochi.
Con il freddo la
combriccola era quasi del tutto rinsavita e su di morale ed i fumi dell'alcool
si erano pressoché dispersi, come evaporati lungo la strada del ritorno.
“Come va? Tutto bene?”,
domandò l’ufficiale ai ragazzi mentre scendevano dal cassone dell’autocarro.
I più sobri,
avvicinandosi, gli riferirono ridacchiando che molti di loro avevano
abbondantemente 'innaffiato' gran parte dei venticinque chilometri che
separavano Cogne da Aosta, ma che al momento erano ritornati tutti in perfetta
forma.
Giuliano li guardò ad uno
ad uno, sorrise loro con fare paterno e li salutò regalando ad ogni ragazzo una
affettuosa pacca sulla spalla.
Quella particolare
vacanza di lavoro era purtroppo giunta al termine.
Dall’indomani sarebbe
ricominciata la ben più faticosa vita di caserma.
CAPITOLO 48
IL CAPITANO
ALBAROSA
Giuliano Levrero e Mario
Lorenzi comandavano due plotoni di assaltatori alla 42^ Compagnia del
Battaglione Aosta alla Caserma Testafochi.
Il Capitano Francesco
Albarosa era a capo dell’intera compagnia, mentre addetto alla contabilità era
il Maresciallo Capo Giancarlo Zampa.
Negli ultimi mesi di
servizio Giuliano divenne comandante ad interim della Compagnia in quanto il
Capitano, Lorenzi ed altri ufficiali furono aggregati al ‘Susa’, nel
Battaglione Logistico, in partenza per la Norvegia, sede delle manovre della
NATO.
Con Giuliano erano
rimasti due sottotenenti ‘figli’: Traversone del 65° e Vissà del 66°.
Poco dopo la Compagnia fu
destinata a trasformarsi in “Compagnia Sperimentale Addestramento Reclute”, per
cui il Comandante di Battaglione in carica, il Ten. Col. Piero Monsutti, diede
tutta una serie di nuove consegne al sottotenente Levrero.
I nuovi compiti erano
molteplici: riordinare e rinnovare tutti gli ambienti della Compagnia per
ospitare i 'borghesi' che sarebbero giunti in 'collegio', selezionare un numero
preciso di alpini al fine di tenere loro il corso per la nomina a caporale,
aggregare il resto della sua Compagnia (cosa molto ingrata perché, tra l'altro,
erano 'i vecchi') alle altre quattro al fine di 'liberare' le camerate e poter
eseguire i lavori.
Radunati tutti gli alpini
sul piazzale, non fu facile per Giuliano dar loro la 'bella' notizia.
In quel periodo poi
giunsero al Battaglione anche gli ACS divenuti sergenti: tra questi c’erano
Michele Candiani e Fabrizio Legrenzi, due bravi ed intelligenti ragazzi con cui
fu facile stringere una buona amicizia.
Finiti i lavori previsti
in tempo utile, iniziarono ad arrivare le nuove reclute.
Per Giuliano Levrero,
intanto, era finalmente giunto il momento di lasciare la caserma Testafochi
'per terminato servizio di prima nomina'.
Passò le consegne al
collega ‘figlio’ Guido Traversone.
ll Capitano Albarosa,
infatti, non era ancora rientrato dalla Norvegia.
Per Giuliano era
‘FINITA!”.
Era il 30 settembre del
1972.
Tornò a casa, a Torino,
dai genitori e continuò a frequentare Franco Garabello, un collega della
Testafochi che abitava non molto distante da lui e che era stato a capo del
Plotone ‘Comando e Servizi’ della 42^.
Ogni tanto trascorrevano
qualche ora passeggiando per Torino, ricordando qualche aneddoto o particolare
di quel bel periodo passato insieme l'anno precedente.
Un giorno di maggio del
1973 decisero di tornare ad Aosta per rivivere l'atmosfera della loro vecchia
caserma e salutare il loro Capitano, gli Ufficiali rimasti e qualche altro amico.
Franco prese l'iniziativa
e telefonò in caserma per concordare il giorno adatto per il pranzo al Circolo;
il capitano Albarosa, che era 'Capo Calotta', ne fu molto contento e tutto fu
organizzato.
Qualche giorno prima di
partire, era il 16 di maggio 1973, appena uscito di casa Giuliano incontrò suo
padre che, scuro in volto, gli disse: “Leggi cos'è successo”, e gli porse ‘La
Gazzetta del Popolo’.
Giuliano aprì il
quotidiano: “Elicottero cade ad Aosta: bruciati vivi sette militari. La
sciagura causata dall'improvviso arresto del turbomotore”. Seguiva un lungo
articolo. Giuliano non lo lesse, ma andò subito a cercare la pagina dedicata
alla Valle: “La Valle in lutto per i suoi soldati. I sette militari morti
carbonizzati nell'elicottero precipitato a Pollein”.
Si sentì girare la testa.
Sotto al titolo, erano
pubblicate le fotografie: il Capitano pilota Elia, il Tenente copilota Arata,
il Sergente Candiani, il Sergente Maggiore meccanico Galliano, il Sergente
Legrenzi, il Maresciallo Capo Zampa, il Capitano Albarosa. Ancora sotto, la
foto di ciò che rimaneva dell'elicottero: un troncone di coda.
Giuliano rimase
impietrito.
Sconvolto cercò subito
Franco che era già al corrente. Contattarono quei pochi di cui avevano il
recapito e telefonarono in caserma per avere notizie più precise riguardo alle
esequie.
I feretri avvolti nel
tricolore furono allineati nella cappella del Castello General Cantore e
vegliati da due militari del Battaglione e da due allievi della Scuola.
Giovedì, 17 maggio 1973,
Franco e Giuliano presenziarono al corteo funebre ed alla messa in Cattedrale:
fu straziante.
Abbracciarono la vedova
del Maresciallo Zampa e la giovane moglie del loro Capitano Albarosa: la donna
li accolse con ammirevole e tragica compostezza.
Giuliano conosceva già la
Signora Francesca: una persona minuta, sensibile e mite, di solidi valori e di
grande forza d’animo. Conosceva anche i tre piccolini: Umberto, Stefano e
Gabriele.
Il Capitano Albarosa
aveva trentadue anni, cinque più di lui.
Era un uomo tranquillo, molto
obbiettivo, pratico e di grande buon senso.
Non lo aveva mai visto
perdere la pazienza: le eventuali disattenzioni, mancanze o altro erano sempre
gestite intelligentemente e con fermezza, senza alterigia o presunzione,
facendo capire ai subalterni dove si era sbagliato. Non assegnava punizioni.
Il Maresciallo Capo
Zampa, di quarant'anni, aveva anch'egli tre bambini. Era un ottimo
Sottufficiale molto competente nell'amministrazione della Compagnia, attento e
attivo; era anche istruttore di sci e campione militare di tennis.
Il Sergente Legrenzi, di
ventisei anni, era perito tessile ed avrebbe terminato il servizio a giugno.
Il Sergente Candiani
aveva ventitré anni, studiava medicina a Pavia e sarebbe tornato a casa a
luglio.
Usciti dalla Chiesa, i
due amici salutarono tutti gli Ufficiali e Sottufficiali di loro vecchia
conoscenza e si fermarono a parlare con il Maresciallo Usai, Comandante del
Minuto Mantenimento di Battaglione.
Usai era stato tra i
primi ad accorrere sul luogo del disastro ed insistette per accompagnare i due
ragazzi a Pollein, nel posto in cui era avvenuto l’incidente.
La zona era transennata e
piantonata. Era rimasto solo un piccolo troncone di coda. Tutto il resto era
bruciato o carbonizzato dall'enorme quantità di cherosene.
Il Maresciallo Usai
raccontò loro l'evolversi della tragedia, come era stato successivamente
chiarito dagli addetti dell'aeroporto di Aosta che seguirono via radio
l'elicottero.
I sette tornavano da una
ricognizione nel Vallone di Orgere, dove nei giorni successivi avrebbero dovuto
svolgersi alcune esercitazioni.
L'elicottero, come
previsto dal piano di volo e senza alcun problema, costeggiava i monti sulla
via del rientro alla base. Poco prima di virare per raggiungere l'eliporto
ormai vicino, il turboreattore improvvisamente si bloccò. Il pilota tentò
allora l'autorotazione per attutire la caduta, ma le pale si stavano lentamente
fermando mentre il velivolo scendeva inesorabilmente di quota: erano oramai
molto bassi. Si trovarono di fronte i cavi dell'alta tensione e poco oltre due
case. Il pilota fu allora costretto ad inclinare l'elicottero per oltrepassare
i due ostacoli. La manovra riuscì ma il
mezzo si impennò precipitando. Impattò con la coda sul campo coltivato in
leggera discesa, si rovesciò ed esplose istantaneamente, mentre il cherosene
continuava ad alimentare le fiamme.
Per l'equipaggio non
c'era più scampo: i soccorritori trovarono i resti carbonizzati ancora
imbrigliati alle cinghie di sicurezza.
Di quella straziante
tragedia, Giuliano conserva due toccanti ricordi.
La moglie del Maresciallo
Zampa gli mandò un pensiero di ringraziamento con la foto del marito.
La moglie del Comandante
Albarosa gli inviò un pieghevole con una foto che riprendeva la bella famiglia
felice in campagna.
All'interno aveva
inserito un foglio piegato in quattro con una preghiera che le aveva lasciato
il marito:
CAPITOLO 49
GLI ALPINI
VANNO AL MARE
Alla caserma Vian di San
Rocco Castagnaretta il sottotenente Piergiorgio Marguerettaz continuava a
svolgere il suo compito di addestratore di nuove reclute con la massima
diligenza. Del resto era veramente impegnativo trasformare giovani borghesi,
spesso insofferenti alla vita militare della leva obbligatoria, in efficienti
soldati e per di più con un plotone costituito da ottanta ragazzi, un numero
molto più elevato di alpini rispetto al consueto standard dei reparti.
Successivamente, al
termine del periodo di addestramento, gli alpini venivano inviati ai
battaglioni cui erano destinati. Soltanto una sessantina di loro veniva invece
trattenuta in forza al ‘Doi’ per svolgere, al termine di un tirocinio della
durata di due mesi, il compito di Caporale Istruttore delle nuove reclute.
Insieme ad altri colleghi
anche Piergiorgio fu comandato alla caserma Cesare Battisti, sede del corso,
per partecipare in qualità di istruttore allo svolgimento dello stesso, il cui
responsabile era il cap. Camusso della compagnia Trento.
Questo periodo di
formazione ebbe inizio ai primi di aprile 1972.
Verso fine mese venne
comunicato che, a seguito dello svolgimento delle Elezioni Politiche
anticipate, il plotone degli allievi caporali era stato comandato per il
servizio di guardia ai seggi elettorali, con destinazione in Liguria, in
particolare nella provincia di Imperia.
Fu così che venerdì 5
maggio 1972, di buon mattino, il corso caporali al gran completo partì dalla
stazione ferroviaria di Cuneo.
Questo drappello
annoverava anche un discreto numero di altoatesini di lingua tedesca, con buona
conoscenza dell'italiano, allo scopo di avere dei graduati istruttori in grado
di fare da interpreti nei confronti delle reclute che dicevano di non conoscere
l'italiano o che, ed erano sempre numerose, faticavano a farsi capire.
Naturalmente costoro non erano molto contenti di essere stati trattenuti in
Piemonte per tutta la durata del servizio militare al contrario dei loro
compaesani ritornati in alto Adige e manifestavano questo malessere con mugugni
continui.
Tra questi spiccava
l'alpino Pfeifer.
Il ragazzo per
sottolineare il suo malumore per essere stato trattenuto nel cuneese si era
chiuso a riccio. Partecipava a tutte le attività in maniera critica e scontrosa
e a nulla servivano i vari tentativi degli istruttori per sciogliere questa
corazza.
Sarà stato anche per
l'atmosfera allegra e goliardica che si respirava negli scompartimenti, nei
quali, grazie anche alla bonaria tolleranza del cap. Camusso, si era instaurata
una complicità alpina, fatto sta che ad un certo punto Pfeifer si sciolse e
cominciò parlare, a scherzare e a ridere con tutti.
Poi, abbassato il
finestrino dalla parte del vagone rivolta verso il litorale, sporgendosi con
mezzo busto fuori, decise di informare il mondo, con il suo marcato accento
tedesco, che ‘gli alpini andavano al mare’.
Finalmente si era aperto:
era la prima volta che vedeva il mare.
Sicuramente il paesaggio e lo iodio della Liguria gli stavano dando una
mano.
Durante il viaggio poi il
Capitano informò la truppa che quella sera avrebbero alloggiato presso la
caserma Pietro Crespi, sede del 89° reggimento Fanteria Salerno. I primi
commenti nei confronti dei ‘buffaioli’ (simpatico termine con cui veniva
identificata la fanteria ‘generica’) furono sostanzialmente ironici e subito
dopo si manifestò un coeso spirito di corpo sotto forma di voglia di far vedere
ai commilitoni di Imperia di quale pasta fosse fatto il corpo speciale della fanteria
alpina.
Detto fatto: il tragitto
dalla stazione fino alla caserma fu percorso in perfetto inquadramento e
comprese, su richiesta degli stessi allievi, ulteriori tre giri del grande
cortile interno, come si fosse alla parata del 2 giugno ai fori imperiali.
E la sera, al circolo
ufficiali, il capitano Camusso sprizzava gioia da ogni dove quando, oltre ai
convenevoli di rito, ricevette i complimenti del colonnello comandante la
caserma, che disse testualmente: “Quando questi battono il passo sembra un colpo
di mortaio!”
Il mattino successivo gli
alpini furono destinati ai seggi elettorali.
Il sottotenente
Piergiorgio Marguerettaz, con una trentina di ragazzi, fu inviato a Borgomaro,
piccolo centro sul torrente Maro nella prima parte della valle Impero. Il
comune, di 900 abitanti, comprendeva 7 frazioni dislocate su altrettante
alture, distanti tra loro poche centinaia di metri in linea d'aria ma
corrispondenti a diversi chilometri di strada, a volte anche molto tortuosa.
Impiegarono quindi tutta la giornata tra il trasferimento da Imperia e il
dislocamento degli alpini ai seggi, in comune e nelle frazioni, ognuna delle
quali aveva un suo seggio elettorale.
Finalmente, sistemati
tutti i suoi soldati, Piergiorgio fu accolto dal sindaco che lo accompagnò presso
la caserma dei carabinieri dove avrebbe alloggiato per il periodo di permanenza
a Borgomaro. Ebbe così modo di sapere che quello era un comune a prevalente
reclutamento alpino, sede di gruppo ANA, e che pertanto erano tutti molto
onorati della loro presenza.
Inutile dire che durante
i 4 giorni di permanenza Piergiorgio fu coccolato da tutto il paese. Stomaco e
fegato furono messi a dura prova, perennemente sotto stress visto che ogni
occasione era buona per ‘offrire amicizia’ al sig. tenente sotto forma di cibi
e bevande.
La sera di lunedì 8
maggio1972, terminati gli scrutini, tutti gli alpini furono alloggiati per la
notte presso la scuola materna in un'aula appositamente predisposta.
Ma quella notte nessuno
dormì.
Complice infatti il
gruppo alpini di Borgomaro, venne organizzata una grande festa: vi partecipò
buona parte del paese, si gustarono numerose specialità della cucina locale,
annaffiata da ottimi vini, si fraternizzò con gli abitanti, ragazze comprese,
il tutto allietato da canti musica e balli.
Il mattino del 9 maggio,
martedì, al momento dei saluti, poiché Borgomaro era il regno dell'olio
extravergine dell'oliva taggiasca, tutti i ragazzi furono omaggiati di una
prelibata bottiglia.
Fu così che, con gli
occhi ancora gonfi per il sonno arretrato e con l'animo pieno di gioia e
riconoscenza per l'affetto e l'amicizia dimostrati nei loro confronti, i
giovani alpini lasciarono un po' a malincuore quell’ospitale borgo
dell'entroterra ligure.
CAPITOLO 50
UN GIRO SULLA
GIOSTRA
Lo Sten. Enrico Casalegno
era un ragazzo buono come il pane. La prima domenica dopo l'arrivo delle
reclute, toccò a lui svolgere il servizio di ufficiale di picchetto al CAR di
Bra.
Non essendo ancora in
grado di distinguere i gradi dei superiori, agli alpini in erba venne negata la
libera uscita. Di questa restrizione essi si dolsero perché, in quel giorno
festivo, avrebbero voluto girovagare in Langa e Monferrato, sulle colline che
in seguito l'Unesco avrebbe dichiarato ‘Patrimonio dell'Umanità’.
Per vincere la noia in
quel caldo pomeriggio, alcuni militari si sedettero all'ombra dei platani con
un libro in mano, altri accesero la radiolina per ascoltare ‘Tutto il calcio
minuto per minuto’, i più si ritrovarono a cazzeggiare.
Enrico Casalegno, dopo
una pennichella consumata sulla brandina della stanza riservata all'ufficiale
di picchetto, uscì in cortile per sgranchirsi le gambe. Poi imboccò lo scalone
che conduceva alle camerate e, in fondo ad un corridoio, vide alcune reclute
che si intrattenevano in ordine sparso.
Si avvicinò, erano una
decina. In quell'istante da una camerata uscì un giovane alpino che con
movimenti goffi si allacciò la cintura dei pantaloni.
“Tenente, se vuole fare un
giro sulla giostra, per lei è gratis”, disse il più furbo della compagnia nel
tentativo di limitare i danni.
Enrico irruppe
all'interno della camerata e su di un letto vide una giovane donna nuda, in
posizione supina, le gambe leggermente divaricate. Con sguardo furtivo ne notò
il seno turgido e le cosce ben tornite.
“Che cazzo ci fai qui?”
sbottò.
La prostituta si coprì il
seno con le mani, rannicchiò le gambe per nascondere la vulva e guardò di
sottecchi quell'ufficiale alto quasi due metri, con le spalle larghe e i baffi
minacciosi.
“Hai cinque minuti per
sparire”, urlò l'ufficiale alla sgualdrina che aveva i capelli neri e arruffati
come i corvi d'inverno e la pelle bianca e luminosa come la luna d'estate.
Poi uscì dalla camerata e
ordinò ad un caporale di inquadrare sugli attenti, nel cortile della caserma,
quegli incoscienti che tanto avevano osato per soddisfare le loro pulsioni
giovanili.
Dopo dieci minuti tornò
sul luogo del delitto, della prostituta non vi era traccia. Andò alla porta
carraia, si trattenne al Circolo Ufficiali e con comodo ritornò sul piazzale
della caserma per guardare negli occhi quegli scriteriati.
Il sole ardeva in un
cielo senza nubi e le giovani reclute, non ancora temprate alla vita militare,
avevano i visi paonazzi e gli occhi che imploravano pietà. Essendo sugli
attenti, non potevano muovere neppure la punta del naso. Gocce di sudore
scivolavano dalle fronti alle gote prima di cadere sull'asfalto rovente e
svanire nell'aria.
Il gigante buono squadrò
uno a uno quegli scapestrati e, mosso da compassione, ordinò al caporale di
porre fine alla punizione.
Poi si avvicinò
all'alpino che gli aveva offerto il giro gratis sulla giostra.
“Qual'era la tariffa?”
gli chiese sornione.
“500 lire a testa, una
diaria” disse il furbetto.
“E com'è entrata in
caserma?” aggiunse l'ufficiale.
“Dal portone principale,
mentre lei faceva la pennichella!” fu la risposta che mise fine alla
conversazione.
CAPITOLO 51
IL RENITENTE
ALLA LEVA
“Rifiuto il servizio
militare!” furono le parole proferite da un giovane di leva allo Sten. Luciano
Ivaldi. Si capiva da lontano che quel ragazzo era allergico alla polvere da
sparo. Aveva capelli lunghi, barba incolta e occhialini tondi con una sottile montatura
metallica.
L'ufficiale gli disse
che, per il codice penale militare, i renitenti alla leva erano equiparati ai
disertori e condannati con la reclusione di almeno tre anni, da scontare nel
carcere di Peschiera.
Il ribelle rispose che
con il codice militare si sarebbe pulito il culo. Poi iniziò ad inveire contro
il governo, i giornali e la TV (c'era solo la Rai). Al diavolo finirono anche
banche e multinazionali, ce l'aveva con il mondo intero. Troppa marijuana? Chissà?
Per sancire la renitenza
alla leva, la procedura prevedeva che, in presenza di due testimoni,
l'ufficiale intimasse alla recluta di imbracciare un'arma, nella fattispecie il
Garand M1. In caso di rifiuto, il regolamento prescriveva che l'ordine venisse
intimato altre due volte e, al terzo diniego, che il ribelle fosse consegnato
ai carabinieri.
Il ragazzo si oppose due
volte all'ordine e lo Sten. Ivaldi decise di rimandare all'indomani il terzo
tentativo. Se si fosse trattato di stupefacenti, smaltiti gli effetti
allucinogeni, forse il giovane avrebbe cambiato idea. In un caso precedente la
ricetta aveva funzionato.
L'obiettore venne
accompagnato in CPR, che per i non addetti ai lavori significa Cella di
Punizione di Rigore.
L'indomani mattina
l'ufficiale andò dal ragazzo, che trovò sdraiato sul tavolato di legno che
fungeva da letto in quella camera disadorna. Si avvicinò abbozzando un sorriso
e gli chiese di raccontargli qualcosa della sua vita.
Il giovane, con uno
sbuffo d'insofferenza, disse di essere uno studente e di far parte di un
collettivo autogestito. Era in disaccordo con i genitori, troppo benpensanti e
conformisti.
Ribadì di essere
contrario al servizio militare (erano i tempi della guerra del Vietnam).
L'ufficiale abbozzò: “gli
alpini non sono fomentatori di guerre, soccorrono chi è in disgrazia, i
terremotati, gli alluvionati...”.
Non riuscì a terminare la
frase. Il ribelle si alzò di scatto e urlò di farla finita con quella predica
da oratorio. A suo dire, tutti i militari erano guerrafondai e tutti quanti
leccavano il culo agli USA. Che lo mettessimo in galera, avrebbe sputato in
faccia ai secondini.
Aveva il sangue agli
occhi e ansimava come una belva ferita.
In presenza di due
testimoni, Luciano Ivaldi certificò il terzo e definitivo rifiuto, poi uscì in
cortile per respirare l'aria fresca del mattino. La sua laurea in Economia e
Commercio non gli consentì di risolvere quel caso che esulava dai manuali di
gestione societaria.
Ma mai avrebbe immaginato
che, alcuni anni dopo, economisti e dirigenti di società pubbliche e private
sarebbero diventati uno dei bersagli più colpiti dalle Brigate Rosse.
Il ragazzo ribelle, dopo
aver rifiutato il servizio militare, dopo aver scontato almeno tre anni di
carcere, si era forse arruolato come volontario in quel gruppo eversivo?
Negli anni di piombo i
capi delle Brigate Rosse rivendicarono l'assassinio di molte persone. Tra
queste:
Vittorio Bachelet
(professore)
Massimo D'Antona
(dirigente)
Aldo Moro (politico)
Ezio Tarantelli
(economista)
Girolamo Tartaglione
(magistrato)
Walter Tobagi
(giornalista)
Guido Rossa
(sindacalista)
CAPITOLO 52
MAL DI NAIA
Il CAR di Cuneo, un mondo
nuovo, racchiuso dietro un muro, dove ragazzi di vent'anni entravano portando i
loro problemi, spesso sottovalutati, una realtà di vita che avrebbe dovuto
contribuire a trasformarli in uomini, un aiuto educativo complementare alla
formazione del cittadino e del buon padre di famiglia, pilastro della nuova
società.
Era arrivato al CAR di
Cuneo con il primo contingente reclute 72'. Una persona educatissima,
sensibilissima, si capiva subito che aveva avuto una educazione superiore.
Proveniva da una famiglia
benestante di floricoltori della riviera ligure, un bel ragazzo, serio e
motivato.
C'era però nel suo
sguardo un qualcosa di inquietante, insieme con una profonda tristezza, un male
di vivere, vi si leggeva una tacita richiesta di aiuto. Certe cose spesso
venivano sottovalutate, anzi si diceva che la naia faceva bene e così era stato
probabilmente l'unanime giudizio della commissione di leva, quando lo avevano
assegnato alle truppe alpine.
Ad onor del vero lui
stesso non aveva mai voluto sottrarsi ai suoi doveri di uomo e di cittadino,
lui stesso era convinto che la naia gli avrebbe fatto bene, avrebbe risolto se
non tutti almeno parte dei suoi problemi e ce ne volle a convincerlo, ultimati
i mesi del primo ciclo di addestramento, ad accettare un impiego in fureria.
Cercavano tutti di
metterlo a suo agio, dai commilitoni al comandante di squadra, a quello di
plotone, fino al comandante di Compagnia, degnissima figura di ufficiale e di
buon padre di famiglia.
I suoi genitori,
convocati a colloquio ci descrissero brevemente i problemi del loro ragazzo;
essi avevano sempre cercato e cercavano di spianargli la strada in ogni modo,
ben consci della lotta interiore che questo giovane stava vivendo.
Aveva una bella
automobile parcheggiata innanzi la Caserma, gli avevano affittato un piccolo
appartamento in città per trascorrere serenamente i momenti di libera uscita,
ma sembrava esserci qualcosa che lo tormentava all'interno.
Spesso il sottotenente
Sandro Bazurro si intratteneva con lui a parlare dei suoi interessi, della vita
militare che asseriva essere per lui era uno sfogo, un impegno che lo distraeva
dai suoi pensieri, un toccasana per la sua fragilità, per la sua solitudine e
la sua incertezza di vita, i suoi sensi di colpa. Il giovane ufficiale, nel suo
piccolo, cercava di fornirgli le risorse necessarie a completare le sue, nei
momenti di maggiore necessità.
Scrupoloso nel suo
lavoro, improvvisamente si abbatteva, e Sandro doveva improvvisarsi psicologo,
pur essendo impreparato ad un compito così gravoso.
E tantomeno quel ragazzo
voleva essere considerato un malato, anzi guai a parlare di ospedale militare,
l'unica via verso il congedo anticipato.
Comunque tutto proseguiva
tra alti e bassi, di pari passo con le esercitazioni delle reclute al greto
Gesso, il torrente che scorre in fregio alla città, ove la CAM Tridentina e le
altre Compagnie del Battaglione effettuavano le loro esercitazioni, mettendo in atto i vari passi del gatto, del
gattino, il percorso di guerra, l'addestramento formale per il giuramento,
l'istruzione basilare propedeutica al lancio della bomba a mano, ovvero
insegnare a lanciare pietre nel rio, scoprendo con orrore che qualcuno dei
ragazzi non aveva mai lanciato pietre, nemmeno nell'acqua. Immaginiamoci poi
lanciare la bomba a mano SRCM, cose dell'altro mondo, da inorridire.
Fu proprio dal ritorno da
una delle suddette esercitazioni sul fare del mezzogiorno, una bella giornata di
sole, di quelle che ti fanno sentire in grado di conquistare il mondo, che
entrati in Caserma, dalla porta carraia, ed arrivati nei pressi della CAM
Tridentina, videro un capannello di persone, in atteggiamento inequivocabile.
La prima cosa che venne in
mente a Sandro Bazurro fu proprio quella, terribile, che popolava i suoi
incubi. Quel caro ragazzo, quell'alpino, quell'essere che stava combattendo la
più tremenda delle battaglie, aveva posto fine al suo male di vivere, così
semplicemente, scavalcando il davanzale della fureria, e senza un attimo di
ripensamento giù a capofitto fino ad incontrare l'asfalto del cortile
antistante il suo Reparto, senza un grido.
La tragedia determinò una
pena tremenda, dall'ultimo degli alpini alle più alte sfere della gerarchia
militare.
Alla base c'era il
fallimento di tutto ciò in cui fermamente si continuava a credere: un po' di
naia fa bene a tutti e guarisce tutti i mali.
Invece lo Stato aveva
fallito, non aveva saputo proteggere uno dei suoi ragazzi che gli erano stati
affidati, non aveva saputo aiutarlo a guarire dal suo male e quel gesto estremo
che il poveretto aveva voluto si concretizzasse proprio nella sua Compagnia,
nella sua Caserma, stava a testimoniarlo, era l'ultimo suo silenzioso
rimprovero al sistema.
CAPITOLO 53
LA TRADOTTA
Il Secondo Reggimento
Alpini, CAR, venne costituito il primo luglio 1963 e successivamente inquadrato
nella Brigata Alpina Taurinense, con sede e Comando a Cuneo. Lo stesso CAR
verrà sciolto, a seguito della ristrutturazione dell'Esercito, il 31 ottobre
1974.
Era composto dai
Battaglioni Cadore, Orobica, Tridentina e Taurinense.
Operativamente venne
suddiviso tra le Caserme Cesare Battisti di Cuneo con il Comando Reggimento, la
Giovanni Cerutti di Boves sede dei reparti della Cadore, la Caserma Raffaele
Trevisan di Bra, la Caserma Giuseppe Galliano di Ceva, con la Compagnia Pieve
di Cadore, la Caserma Giuseppe Galliano di Mondovì Piazza, la Caserma Ignazio
Vian di San Rocco Castagnaretta (CN), con i reparti dell'Orobica, la Caserma
Trossarelli di Savigliano con i reparti dell'artiglieria da montagna
Taurinense.
Nella caserma Cesare
Battisti di Cuneo oltre il Comando di Reggimento, c'erano le Compagnie Trento,
Bolzano, Bassano e CAM (Compagnia Artiglieri da Montagna) Tridentina.
Al termine del ciclo di
addestramento di circa due mesi e mezzo, le reclute venivano accompagnate ai
vari Reggimenti di destinazione, solo una piccola aliquota restava al Secondo
Reggimento, per il cosiddetto CAR avanzato. Alcuni di costoro, tra i più
motivati, potevano aspirare a diventare caporali istruttori e passare così nel
Quadro Permanente del CAR.
Al suo arrivo al
Reggimento di destinazione, il “doi” di Cuneo, (il suo motto: “Vigilantes”),
l'11 di gennaio del 1972, Sandro Bazurro venne assegnato alla Compagnia
Artiglieri da Montagna Tridentina, ed il primo contingente reclute iniziò ad
affluire in Caserma il 18 gennaio seguente.
Al suo plotone, il
quarto, vennero assegnate 88 reclute, non so come fosse per gli altri giovani
tenentini, ma a lui sembravano un numero enorme; questa bellissima prima
esperienza da istruttore era destinata a terminare con il finire del primo
ciclo di addestramento, e quindi l'invio ai Reparti di destinazione.
La CAM Tridentina
preparava la maggior parte degli alpini per il gruppo Asiago della Brigata
Tridentina, con sede a Dobbiaco (Toblach), Caserma Piave, ma ne ‘perdevano’
molti durante il percorso, destinati in altre caserme, a Bressanone e Brunico
ad esempio. Anche il collega Maurizio Moro, sottotenente della Compagnia
Trento, era stato assegnato alla formazione delle nuove reclute, poi destinate
a Monguelfo (Welsberg), Dobbiaco, San Candido (Innichen).
La partenza per i Reparti
di destinazione, tra una concitazione incredibile, avveniva solitamente di sera,
in quanto considerato il percorso da effettuare e la velocità della
‘Tradotta’, si viaggiava tutta la notte, per giungere all'alba ai primi punti
di smistamento.
Il percorso della
tradotta era a grandi linee il seguente: partenza da Cuneo alla stazione di
Cuneo Altipiano, poi Fossano, Savigliano, Torino, Milano, Brescia, Verona, dove
venivano staccati i locomotori elettrici e venivano attaccate due locomotive a
vapore e poi via sbuffando, verso Trento, Bolzano (Bozen), Bressanone (Brixen),
Fortezza (Franzensfeste), con deviazione a Vipiteno (Sterzing), oppure verso
Brunico (Bruneck), Monguelfo (Welsberg), Dobbiaco (Toblach), ed infine
capolinea a San Candido (Innichen).
La partenza, dunque: dopo
un affrettato rancio, tutti inquadrati, gli alpini si avviavano verso la
stazione di Cuneo, carichi oltremisura con zaini, borsa valigia, borsa da
viaggio ed a volte qualche pacchetto ben nascosto o tollerato di generi di
conforto, che non avevano trovato spazio nel corredo di ordinanza.
Un vociare incredibile caratterizzava
la partenza, incontenibile ed inarrestabile nonostante gli sforzi degli addetti
all'accompagnamento. Ben presto questo vociare si sarebbe affievolito, complice
la notte da passare seduti sulle dure panchine di legno dei vagoni, fino a
scemare naturalmente ed inesorabilmente alla vista dei luoghi ove i giovani
alpini avrebbero trascorso lunghi, lunghissimi mesi di naia vera, complice
anche il comparire della stazione di destinazione lungo la cui banchina si
potevano scorgere i ‘vecchi’ dal cappello abbuferato e lo sguardo truce che li
attendevano, per accompagnarli ai nuovi Reparti.
Praticamente la
‘Tradotta’ effettuava solo scali tecnici, durante i quali nessuno poteva
scendere o salire dai vagoni: non era difficile quindi immaginare quanto succedesse
all'interno, in quel lasso di tempo di almeno tredici e più ore di viaggio.
Gli ufficiali addetti
all'accompagnamento viaggiavano in prima classe sulle vecchie panchine
rivestite di velluto, in uso fino alla fine degli anni ottanta, che comunque erano
scomodissime e sembravano fatte apposta per tenere svegli.
A tarda sera, mentre si
stava faticosamente appisolando, Sandro Bazurro venne chiamato da un caporale
del suo plotone per un problema che si era presentato; si alzò insonnolito e si
recò nello scompartimento assegnato al reparto, per vedere di che cosa si
trattasse. In realtà un gruppetto di toscani, peraltro recidivi, avevano
riempito due gavette di cipolla finemente tritata con l'aggiunta di tonno e
fagioli, il tutto condito con abbondanza di sale ed olio e lo invitarono a
dividere con loro quella che chiamarono ‘l'ultima cena’.
Ovviamente non poteva
mancare il vino e fu così che dopo una solenne mangiata di quell'insano
intruglio e parecchi brindisi, Sandro ritornò barcollante al suo scompartimento,
con un incedere incerto e scomposto dovuto esclusivamente al percorso tortuoso
del treno. Si sedette senza fare il minimo rumore, badando a non svegliare
nessuno. Poi, per fortuna, il treno era pieno di rumori, cigolii,
sferragliamenti, e casualmente si trovavano pure vicino al servizio igienico
Ad una certa ora della
notte, era ancora buio, uno dei colleghi che divideva lo scompartimento con
Sandro, bofonchiando, spalancò la porta inveendo contro la scarsa pulizia dei
vagoni ferroviari, causa dell'olezzo di cipolla che indubbiamente proveniva dai
consunti rivestimenti delle panchine e dal locale igienico attiguo. Bazurro,
ovviamente, finse di continuare a dormire, cercando di reprimere i sordi rumori
che inesorabilmente salivano e scendevano dal suo povero stomaco!
A parte questo piccolo
inciso, tutto funzionò a meraviglia e la tradotta all'alba giunse verso le
prime stazioni di destinazione.
Gli alpini via via
scendevano a piccoli gruppi, guardandosi attorno spaesati, spesso alzando gli
occhi verso le montagne innevate, avviandosi a piedi inquadrati o salendo
rapidamente sui camion che li attendevano, non senza volgere un ultimo sguardo
verso i loro compagni che forse non avrebbero mai più rivisti.
Arrivarono infine a
Dobbiaco, la destinazione di Sandro: la tradotta avrebbe poi proseguito per il
capolinea, San Candido. Era il 27 Marzo dell'anno 1972.
A Dobbiaco, alla Caserma
Piave sede del Gruppo Asiago, il cui motto “Tasi e Tira” la diceva lunga sulla
gloriosa storia di quegli artiglieri, la consegna delle reclute al Reparto
avvenne con le poche formalità di rito.
Il Comandante consegnò a
Sandro il foglio di ritorno con la data in bianco e gli disse: “Tenente, se
desidera farci compagnia per altri due giorni è il benvenuto, ma penso che come
tanti suoi colleghi non vedrà l'ora di rivedere i suoi cari: si regoli Lei di
conseguenza”.
Ovviamente Sandro corse a
prendere il primo treno per il ritorno, era circa mezzogiorno, giusto il tempo
per ingerire un panino e scrivere due cartoline.
Il sottotenente Maurizio
Moro scese invece a San Candido.
Alla stazione li
aspettava un ‘vecchio’ caporale con l’immancabile cappello abbuferato su una
capigliatura ed una barba decisamente fuori ordinanza: volutamente o
naturalmente faceva paura solo a vedersi.
Uno dei più coraggiosi
giovani alpini guardando i monti innevati, ostentando baldanzosa ancorché
prudente sicurezza, osò rivolgersi a lui con un: “.... e noi dovremmo salire lassù, e magari con i muli?”
“Certamente - rispose costui, senza volgere lo sguardo – sì, ci sono i muli e voi andrete e li porterete
là. Problemi non ce ne sono, tranne che a volte occorre scolpire nel ghiaccio
con la piccozza i gradini per il mulo, quando rischia di scivolare!”
Quei poveri ragazzi
ammutolirono: raccolti da terra i loro bagagli, a testa bassa, seguirono il
capobranco.
Anche per quella decina
di alpini era iniziata la naia vera.
Sul treno di ritorno
Maurizio e Sandro si incontrarono nuovamente.
Avevano avuto la stessa
idea ed erano felici: li aspettavano due giorni di libertà tutti per loro e per
fare una sorpresa a casa e, cosa che non guastava affatto, dodici mila lire di
diaria in più per quella missione fuori sede.
Sandro Bazurro arrivò a
Genova con l'ultimo treno e riuscì a salire sull'ultimo autobus, che lo avrebbe
avvicinato almeno un po' di più a casa (ormai a quell'ora non c'erano più mezzi
per il suo paese). Poi, dal capolinea, proseguì su, a piedi, per i restanti sei
chilometri fino alla casa sulla sommità della collina.
“Ben poca cosa – rifletté
Sandro - rispetto alle marce sfiancanti che aspettavano i suoi alpini ai nuovi
Reparti di assegnazione!”.
CAPTOLO 54
BARBARA,
PROTETTRICE DEI MONTANARI
Sembrava il racconto
della campagna di Russia.
In una fredda mattina di
gennaio il battaglione partì per i campi invernali, una missione dura ma
esaltante.
Negli anni successivi,
quando Roberto Salati parlava di questa avventura, essa veniva sempre più
arricchita di particolari che la rendevano straordinaria, eccitante,
impossibile da dimenticare, quasi eroica.
Nel ricordo, tra gelide
notti passate di guardia, si alternavano momenti di puro eroismo, dove gli
alpini, chiamati a difendere i valligiani dai disastri dell'inverno, venivano
calati dall'elicottero in mezzo a cumuli di neve per portare in salvo uomini e
animali.
Roberto esprimeva in
questo modo, forse un poco esagerato, tutto il suo amore per il corpo degli
alpini, per la Valle, per quella che considerava una esperienza straordinaria,
unica, che gli aveva aperto la mente e il cuore e della quale aveva sicuramente
grande nostalgia.
Terminata l'emergenza
dell'inverno, quando la neve e i ghiacci erano solo un ricordo, la Valle si
vestiva di colori, sempre più decisi e intensi.
Passati i mesi
primaverili, veniva il momento dei campi estivi. Roberto amava moltissimo la
montagna e la Valle d'Aosta che aveva frequentato fin da bambino con suo padre,
egli stesso Alpino che aveva partecipato alla campagna di Russia.
Proprio durante i campi
estivi, tra tappe quotidiane, nonostante la fatica e il sudore, l'amore per i
monti e i boschi trovava la massima soddisfazione.
Quell'anno, però, c'era
un importante novità per Roberto: sua moglie Marinella aspettava un bambino,
che sarebbe nato proprio nel bel mezzo dei campi estivi.
Fu un periodo piuttosto
complicato per i due giovani sposi. Marinella aveva dato, due settimane prima
della data prevista per il parto, il quarto e ultimo esame orale di letteratura
tedesca con ottimi risultati ma con grande fatica ad entrare nel banco, non
previsto per gestanti al nono mese.
Roberto faceva tappe
giornaliere su e giù per le valli, non sempre poteva telefonare alla moglie e
la cabina telefonica non era sempre a portata di mano. Se fosse accaduto
qualcosa di imprevisto, come raggiungerlo in tempi brevi?
Roberto e Marinella Salati, Michele Casini
Il padre di Marinella,
direttore di una delle molte filiali della Sip, si incaricò del problema.
Furono avvisati i centralini dei paesi dove Roberto avrebbe sostato per la
notte. Arrivò il momento. Il futuro papà, nel timore di non arrivare per tempo,
aveva negli ultimi giorni, escogitato un trucco: aiutato da tutti i commilitoni
era riuscito a portare la macchina nella località più vicina, spostandola via
via.
Non si sa esattamente
come, ma, alle prime avvisaglie, messi in moto i complicati meccanismi di
avvertimento, Roberto arrivò in un tempo considerevolmente breve a casa.
Falso allarme. Ma, come
spesso succede, poche ore dopo, l'allarme risultò veritiero e l'alpino Salati
divenne padre di una bambina, alla quale venne dato il nome di Barbara,
protettrice dei montanari.
CAPITOLO 55
LA RECLUTA CON
IL BAMBINO
Al CAR di Bra era
arrivata una nuova infornata di reclute.
Fra i giovani che
affollavano il piazzale, il sottotenente Luciano Ivaldi ne notò uno al fianco
di una ragazza che teneva un bimbo in braccio. Si avvicinò. Indossavano abiti
sgualciti, capelli unti, lo sguardo di chi è cresciuto troppo in fretta. Il
bambino, ad occhio, aveva un paio di mesi, non di più.
“Chi sei?” domandò al
ragazzo. Il giovane mostrò all’ufficiale la cartolina precetto. “Di chi è il
bimbo?” chiese Luciano. “E' mio, mio figlio”, rispose. “E lei è tua moglie?”
aggiunse il graduato guardando la ragazza. “No, non siamo sposati” replicò il
coscritto chinando il capo per celare l'imbarazzo.
Luciano Ivaldi sapeva che
i padri con moglie e figli a carico avevano diritto all'esonero dalla leva. Il
caso che aveva di fronte, tuttavia, era formalmente differente e siccome sotto
naia la forma è sostanza, chiese lumi al Comando. Al telefono, un ufficiale,
doveva essere un maggiore, sentenziò: “Mogli, la circolare parla di mogli, non
di ragazze madri!”. E il bimbo? “Ci pensasse la famiglia, i nonni, gli zii ...
le caserme non sono asili nido!”.
Luciano ritornò dal
ragazzo e abbozzò: “Saluta la tua compagna e il tuo bambino. Potranno venire a
trovarti tutte le volte che vorranno”. “Faccio il muratore, se resto qui e non
lavoro, come fanno a mangiare” bisbigliò la recluta chinando un'altra volta il
capo. “Non avete genitori in grado di aiutarvi?”, obiettò Luciano. “Ci hanno
sbattuti fuori casa”, fu la risposta che lo lasciò senza parole. Venivano da un
paese del cuneese, a volte si faceva così, da quelle parti e anche altrove, per
emendare la vergogna di un'incauta, prematura notte d'amore.
Fu allora che a Luciano
venne un'idea: concedere una licenza al ragazzo e affidargli una lettera da
consegnare ai Carabinieri del paese. Nella missiva, dopo aver descritto il
fatto, avrebbe chiesto di intercedere presso il sindaco per celebrare in tutta
fretta il matrimonio.
Il giovane avrebbe così
ottenuto l'esonero dalla leva.
Ne parlò con Capitan
Burdese che si tenne fuori: “Ivaldi, faccia come meglio crede”. Il giovane
sottotenente capì al volo che il comandante non era contrario. Padre di una
figlia, sapeva cosa significasse essere genitore.
Spiegò il piano ai due
giovani.
La ragazza lo guardò con
disincanto. Questo ufficiale stava mandando a rotoli il più bel sogno della sua
vita: un matrimonio in chiesa, l'abito bianco, i fiori sull'altare, l'Ave
Maria, i chicchi di riso lanciati in aria, il bouquet alle amiche, le foto da
incollare sull'album di famiglia ...
A corto di tempo e di
quattrini, intravedendo una via d'uscita, il giovane padre invece annuì: “Se
basta un matrimonio in municipio...”. “Basta e avanza”, rispose Luciano
ostentando sicurezza per fugare ogni ripensamento.
Dettò la lettera ad un
furiere e la consegnò al giovanotto che mai sarebbe diventato alpino. Aveva
altre responsabilità, le incombenze e i trastulli della naia andavano lasciati
ai coetanei con i grilli in testa.
“Che Dio vi assista”,
sospirò Luciano accompagnando con lo sguardo i tre sventurati fino al crocevia
che portava alla stazione.
Dopo una decina di giorni
ricevette un fonogramma dai Carabinieri. I documenti erano pronti, bisognava
pazientare alcuni giorni per rispettare i tempi tecnici e poi si sarebbe
celebrato il matrimonio.
A quel punto la pratica
di esonero sarebbe stata inoltrata al Ministero.
Luciano non ne seppe più
nulla.
I mesi passarono in
fretta, la vita di caserma dirottò altrove la sua mente.
Un pomeriggio
l'attendente bussò alla porta della sua camera per dirgli che era atteso in
portineria. Scese lo scalone due gradini alla volta, entrò nell'androne e vide
un ragazzo e una ragazza che, all'istante, non riconobbe.
“Tenente, si ricorda di
noi? Siamo quelli del bambino, del matrimonio ...”.
Luciano Ivaldi li
abbracciò.
Indossavano abiti
dignitosi, capelli in ordine, sorriso allegro. Chiese notizie del bimbo.
Cresceva bene, per l'occasione l'avevano affidato ai nonni. La famiglia si era
ricomposta. Il tempo, ancora una volta, aveva rimarginato le ferite.
CAPITOLO 56
LA MULA ‘DELFINA’
La ‘Delfina’ sgroppava da
anni al servizio della 127° compagnia mortai. Era una bella mula di prima
classe, grande e robusta. A differenza dei muli di seconda e terza classe, più
piccoli e meno resistenti e che venivano usati dalla fanteria alpina per il trasporto
di tende e approvvigionamenti, la Delfina era addetta al trasporto di armi e
munizioni pesanti. In particolare le caricavano sulle spalle il mortaio da 120
al gran completo, con piastra, affusto, e bocca da fuoco: ci sarebbero voluti
almeno tre alpini per trasportare manualmente quella zavorra!
L’estate del 1972 stava
giungendo al termine ed anche la Delfina avrebbe dovuto prepararsi, insiemi ai
suoi amici alpini, per il prossimo campo invernale.
Ma probabilmente, in
quella mattina di fine agosto, il pigro quadrupede non aveva molta voglia di
allenarsi. Probabilmente soffriva per qualche indisposizione e la prevista
sgambata di circa un paio d’ore al ‘Maso Pineto’ non rappresentava certo il
massimo delle sue aspettative.
Ciononostante, con grande
senso del dovere, la mula si incolonnò disciplinatamente nel gruppo
manifestando il suo covante malessere con qualche piccola scalciata e nulla
più.
Uscì di malavoglia dalla
caserma. Al comando del piccolo plotone c’era il sergente salmerista ed il
sottotenente veterinario del Battaglione, un gioviale e simpatico ragazzone
bolognese.
La Delfina, per buona
parte della passeggiata, proseguì allineata e coperta.
Poi, d’improvviso, accusò
un disturbo intestinale.
Le si avvicinò, per
visitarla, l’ufficiale veterinario.
Fu a questo punto che la Delfina,
mai si seppe se per caso o volontariamente, mise a segno la sua risaputa
specialità: la scalciata laterale!
Il simpatico tenente di
Bologna cercò di evitarla, ma riuscì a schivarla soltanto in parte.
Fatto sta che la bizzosa
mula, poi ben curata ed assistita, si riprese prontamente dalla momentanea
indisposizione, mentre lo zelante ufficiale venne ricoverato di tutta fretta
nel vicino ospedale, nel reparto odontoiatrico, per la ricostruzione di ben
sette denti!
CAPITOLO 57
ALPINO AD OGNI
COSTO
Un’intensa attività
agricola, grazie alla buona fertilità dei terreni della zona, aveva da sempre
caratterizzato il quartiere di San Rocco Castagnaretta, un polmone verde
circondato da una bella campagna nella periferia di Cuneo. A rendere famosa
questa piccola località non aveva contribuito solamente la sua carota dal lungo
fittone, ma soprattutto la presenza storica del 2° reggimento degli alpini, il
‘Doi’.
La caserma intitolata al
partigiano Ignazio Vian era la sede del battaglione Orobica, così chiamato in
quanto il suo bacino di reclutamento erano le alpi Orobie e già dal luglio del
1963 questo battaglione aveva funzione di centro di addestramento reclute.
Nel gennaio del 1972 Piergiorgio
Marguarettaz si presentò alla sede del comando di Cuneo. Con lui, tra gli
altri, c’era un bel gruppetto di colleghi sten del 64° corso AUC: Sandro
Bazurro, Piero Borro, Valerio Brunetto, Gianni Buffa, Enrico Casalegno, Sandro
Cerrato, Luciano Ivaldi, Paolo Lupani, Paolo Masnata, Maurizio Moro, Adriano
Peracchia, Gianni Pasquino, Aldo Perron.
Piergiorgio, insieme a
Gianni, ai due Paolo, a Piero ed a Valerio, fu smistato proprio a San Rocco di
Castagnaretta e lì avrebbe dovuto trascorrere i suoi nove mesi in servizio di
prima nomina.
Dopo circa due settimane
dal suo arrivo, cominciarono finalmente a presentarsi le prime reclute.
La procedura di
ricevimento era pressoché simile a quanto gli era accaduto alla SMALP qualche
mese prima: accoglienza in caserma, identificazione, doccia, parrucchiere,
visita medica, vestizione, attribuzione della compagnia.
Dal mattino fino a notte
inoltrata, anche dopo l'arrivo dell'ultimo treno alla stazione di Cuneo, la
caserma era un continuo e frenetico ribollire di giovani di diverse
provenienze. Erano in gran parte spaesati, solo qualcuno simulava una supposta
spavalderia.
Molti, prima di
arrendersi definitivamente all’obbligo del servizio miliare, mettevano in atto
un ultimo e disperato tentativo per evitare la ‘naja’. Accampavano le
motivazioni più diverse e fantasiose: malattie improvvise, strane
documentazioni sanitarie attestanti imperfezioni fisiche tali da mettere in
dubbio l'idoneità a svolgere il servizio militare che chissà come alla visita
di leva non erano state riscontrate, impegni di lavoro inderogabili, genitori
anziani e soli, fratelli da accudire.
Fu pertanto una sorpresa
quando il sottotenente medico chiamò Piergiorgio per sottoporgli uno strano
caso.
Stava infatti visitando
un ragazzo con numerose cicatrici in varie parti del corpo e, cosa ancor più
grave, con una gamba palesemente più corta dell'altra. Il ragazzo però, e qui
stava l’anormalità della situazione, si guardava bene dallo sfruttare questa
circostanza come valido motivo per essere subito rimandato a casa. Se ne stava col capo chino senza proferire
parola, rispondendo a monosillabi alle domande del medico.
I due ufficiali,
ovviamente, desideravano avere un chiarimento in merito, ma il ragazzo
continuava nel suo silenzio.
Dopo molti tentativi,
messi in atto prima con le buone maniere e poi con qualche sollecitazione più
brusca, il medico e Piergiorgio riuscirono finalmente, a notte ormai fonda, a
scoprire l'arcano.
Il ragazzo cominciò
balbettante a spiegarsi.
Proveniva da una sperduta
frazione delle valli valtellinesi e subito dopo la visita di leva, cui era
risultato abile e quindi arruolato, era stato vittima di un serio incidente
d'auto che gli aveva causato quelle importanti ferite. Ma, una volta dimesso
dall'ospedale, si era ben guardato dall'informare il distretto di competenza,
per cui al momento di ricevere la cartolina precetto si era presentato
regolarmente al C.A.R.
A quel punto il ragazzo
interruppe per un momento il suo racconto e dopo un attimo di pausa scoppiò in
un pianto dirotto. Tra le lacrime, chiese di chiudere non uno ma due occhi e di
tenerlo in caserma, dove poteva, a differenza di casa, mangiare pasti regolari.
“Vede signor tenente, alcuni miei compaesani, che sono stati qui prima di me,
mi hanno raccontato che in caserma si mangia carne anche due volte al giorno
mentre a casa mia faccio la fame”.
Per alcuni lunghi minuti
in infermeria ci fu un silenzio totale.
Piergiorgio ed il medico
inizialmente prolungarono di proposito la selezione del ragazzo per tenerlo
qualche giorno in più in caserma in modo che potesse usufruire della mensa.
Poi, correttamente, ne
informarono il comandante di compagnia che a sua volta ne parlò col maggiore
comandante.
Purtroppo non ci fu
niente da fare: il ragazzo fu riformato per sopravvenute imperfezioni fisiche.
Il caso naturalmente
divenne di pubblico dominio e tutti ne parlavano.
Venne organizzata un
colletta spontanea. Vi partecipò l’intera caserma: dai comandanti agli alpini.
Fu raccolta una bella
somma di denaro che il Maggiore comandante del Battaglione consegnò al povero
‘alpino mancato’ sotto forma di prestito a fondo perso e con l'abbraccio ideale
di tutta la grande Famiglia Alpina.
La permanenza del giovane
alla caserma Vian fu prolungata per ulteriori dieci giorni.
Quando infine andò alla
stazione di San Rocco per prendere il treno che lo avrebbe riportato a casa,
non era da solo: con lui c’era il cuore di un intero battaglione, il cuore
degli Alpini!
CAPITOLO 58
IL MESE PIU’ BELLO!
Il sottotenente Felice
Piasini, in quanto Alpino d’Arresto, venne destinato a Vipiteno, al Battaglione
Val Chiese, appartenente alla Brigata Alpina Orobica. Neppure il tempo di
adempiere agli atti formali che fu subito rispedito, a modo di pacco postale, alla
volta di Glorenza, in alta Val Venosta.
Nella nuova sede rimase
ben poco: revisionò i registri contabili (quelli di carico e scarico dei
materiali in dotazione) e fu aggiornato dall’unico militare in servizio a
Glorenza (uno scaltro e scafato maresciallo pugliese) sui rapporti fra sede di
compagnia e distaccamenti.
Poi, finalmente, la
partenza per la destinazione operativa: Saltusio, a 9 km da Merano, con la
qualifica di comandante del piccolo distaccamento, capienza massima di 15
alpini.
Abituato ai ritmi precisi
ed inflessibili della SMALP, Felice, in quel minuscolo avamposto, si trovò ad
affrontare una realtà ben diversa.
Il primo problema che gli
si presentò riguardava l’orario della sveglia.
Per il neo arrivato non
vi erano dubbi: se la sveglia era fissata alla 6.30, a tale ora bisognava
alzarsi.
Non la pensavano allo
stesso modo i 13 alpini in forza alla casermetta.
Dopo infinite discussioni
e simulazioni cronometrate, l’ufficiale dovette constatare che, effettivamente,
dal suono del campanello che annunciava l’ispezione, all’alzarsi, vestirsi,
predisporre il ‘cubo’ e raggiungere i posti di servizio, non erano necessari i
canonici 60 minuti, bensì, per i ragazzi di Saltusio, erano sufficienti 90
secondi! Fingendosi convinto più dall’abilità dei suoi alpini che dalle minacce
più o meno velate di casuali incontri al termine del rispettivi servizi
militari, la sveglia continuò ad essere, per tradizione acquisita, alle 7.30!
Di questa ed altre
usanze, non proprio ortodosse, era al corrente anche il capitano che
supervisionava i distaccamenti. “Se lascia correre lui …” pensò Felice “…. non
c’è motivo di procedere ad alcuna modifica”.
Per quanto riguardava la
manutenzione delle opere di sbarramento andava molto meglio, anche perché il
giovane ufficiale non ammetteva alcuna deroga in merito. Abilmente, barattò la
corretta ed efficiente esecuzione dei lavori con licenze premio al fine
settimana.
Gli alpini eseguivano
questi lavori con grande abilità. Provenivano in gran parte dalla sana
campagna, dal settore dell’edilizia e dell’artigianato, ad eccezione del cuoco
bresciano, che di professione faceva il … ciabattino!
Bisognava sistemare
portelloni, pali, reti e filo spinato
attorno alle opere, tagliare gli alberi e la vegetazione lungo le linee di fuoco
per poter identificare e centrare l’obiettivo, ingrassare i fusti nelle
postazioni per cannoni e mitragliatrici, sostituire lampadine bruciate, mandare
a riparare i motori dell’impianto di deumidificazione, ricambiare l’acqua nelle
vasche per gli usi igienici, dare il bianco agli alloggiamenti interni per
renderli più luminosi e salubri alle compagnie che vi soggiornavano di
passaggio durante i campi estivi.
Insomma, tutto si
svolgeva con grande soddisfazione. Meno entusiasta era invece il maresciallo addetto
agli acquisti, bombardato di continuo dalle numerose e impreviste richieste di
materiali, che gli facevano sforare le previsioni contabili.
Per quanto riguardava i
viveri, l’amministrazione militare prevedeva due fonti di approvvigionamento:
l’acquisto diretto in loco, a Merano per frutta e verdura e a San Martino in
fondo alla Val Passiria per la carne, e la fornitura direttamente dai magazzini
del Battaglione di Vipiteno per i prodotti a lunga conservazione
E, se per gli acquisti
locali a Merano e a San Martino andava tutto molto bene, anzi spesso si
riceveva di più dello spettante forse anche perché Piasini si rivolgeva ai
commercianti in tedesco, altrettanto non si poteva affermare per le provviste
che giungevano da Vipiteno.
Il rifornimento avveniva
ogni mese.
Arrivava un ACL. Si
scaricavano in gran fretta i viveri e l’ufficiale doveva firmare solo i
registri, esentato da qualsiasi controllo.
Questo, almeno, era
l’andazzo prima che arrivasse a Sallustio il nuovo sottotenente valtellinese,
soprannominato ‘el Tudesc’. Dall’inizio del suo servizio, infatti, registro
alla mano, Felice ‘el Tudesc’ si mise a controllare di persona ogni voce ed il
relativo quantitativo spettante, spuntando o segnando l’eventuale l’ammanco:
riso, pasta, scatole di piselli, pelati, tonno, caffè, zucchero. Tutto veniva
controllato con la massima pignoleria.
I punti critici erano il
Parmigiano Reggiano ed il cordiale.
All’appello, infatti,
mancavano sempre e soprattutto troppi grammi di formaggio e troppe bustine di
cordiale.
Durante l’insolita
operazione di scarico e controllo, il capitano addetto ai rifornimenti era
visibilmente impaziente e, rosso in viso dalla collera, incitava di continuo a
sbrigarsi, perché ‘non aveva tempo da perdere’.
Il giorno seguente, però,
arrivò l’ACL con tutte le provviste spettanti, compreso un bel pezzo di grana.
“Non è questione di
pignoleria – pensava correttamente Felice – ma solo di far rispettare le
regole”.
E poi, le provviste non
consumate erano oggetto di scambio con i contadini: una scatola di caffè contro
sei uova, una bottiglia di cognac veniva quotata sei uova ed un pezzo di Speck.
Tre scatole di piselli, una di pelati e tre pezzi di fondente valevano un pezzo
di formaggio o mezzo chilo di burro!
Tutto bene quindi quel
che finisce bene?
Magari!
Qualche giorno dopo
infatti, lo stesso capitano, in servizio di ispezione, fregandosene della
procedura prevista, si presentò al distaccamento aggredendo verbalmente il
soldato di guardia al cancello che intendeva soltanto fare il proprio dovere:
“Ma che c…zo di parola d’ordine, apri! Non vedi che sono il tuo capitano?”
Purtroppo anche il
piantone, spaventato, non rispettò la procedura (Parola d’ordine! Controparola!
Colpo in canna. Sparo in alto, come primo ammonimento, etc.) ed aprì solerte il
lucchetto. I secondi trascorsi non bastarono ai compagni per mettersi in
regola. Il capitano entrò nella casermetta e come una iena si precipitò in
camerata.
Ormai era fatta!
Il
sottotenente Felice Piasini con l’alpino Pé
Il capitano scese le
scale e, passando davanti al sottotenente Piasini, che se ne stava impotente
sulla porta del suo ufficio, gli gridò soddisfatto, digrignando i denti: “Lei
stia punito!”
Il tempo di stendere il
rapporto e puntuale arrivò dal Comando di Vipiteno la sentenza.
Lo Sten Felice Piasini,
comandante del Distaccamento di Saltusio (seguiva un’ampollosa motivazione in
gergo militare) veniva trasferito in punizione, per giorni 30, al distaccamento
del Passo Resia, a 1.700 metri sul
livello del mare, al confine con l’Austria.Fu un settembre meraviglioso!
Il cielo terso che si
specchiava nel lago, l’aria frizzante del mattino che invogliava il punito a
studiare e a preparare gli esami che gli mancavano per laurearsi, le uscite nei
boschi, con gli alpini comprensivi e complici, a raccogliere mirtilli e funghi
(di cui l’alpino Pé era un formidabile conoscitore), le serate fino a tardi nel
vicino Gasthof…
Che pacchia!
Ma il clou della
punizione (che la dice lunga!) fu la visita improvvisa, una sera, di un
‘imbarazzato’ Capitano, accompagnato da un altro ufficiale, con susseguente
invito a cena oltre confine, giù in Austria, in divisa e in barba al
regolamento.
Il ‘Capitano’ sembrava
perplesso, ma la sua indecisione riguardava soltanto il menù: meglio un fumante
salmì di cervo o un rosolato stinco di maiale con patate al forno?
CAPITOLO 59
DUE UFFICIALI E
UNA FIAT 124 SPORT SPIDER
Era il giugno del 1972 e
le Compagnie del Secondo Reggimento Alpini di Cuneo si preparavano al
giuramento delle reclute del secondo contingente, previsto per i primi di
luglio.
Come ogni anno, il 2
giugno si celebrava a Roma la festa della Repubblica Italiana con la solenne
parata militare lungo la via dei Fori Imperiali. Per l'occasione il Secondo
Alpini inviò un reparto con la bandiera di guerra, che sarebbe stata portata
con grande fierezza dal sottotenente Aldo Perron, alfiere ufficiale del
Reggimento, subito scelto tra i giovani subalterni del Comando per la sua
prestanza e la sua imponente presenza.
Ma, oltre a questi
aspetti del tutto marginali sull’aspetto fisico del Perron, la cosa più
importante era che il giovane porta bandiera possedeva una Fiat 124 Sport
Spider, magnifica, bianca, carburatore doppio corpo, vettura sportiva 2+2
posti, 2000 cc. rombanti, invidia di tutta la caserma, tenuta come un figlio.
Orbene, dovendo quindi
assentarsi per i motivi sopraesposti, l'alfiere Perron fu costretto ad affidare
a terzi la sua creatura, anche se per un breve periodo; la scelta cadde sul suo
fido commilitone sottotenente Sandro Bazurro, con il compito di sorvegliarla e
di curarne la manutenzione, concedendogli in via del tutto eccezionale anche di
usarla, ovviamente con le dovute cautele.
Sandro, conscio della
grande responsabilità e della fiducia attribuita, pensò di parcheggiarla
diligentemente a fianco della propria 600, posizionandole entrambe a portata di
vista e controllandole periodicamente.
Inizialmente l'intenzione
era quella di avviare il motore saltuariamente, in modo che non si scaricasse
la batteria, e così fece per un po’; poi un giorno mentre effettuava
l'operazione di ricarica, si accorse che il rombo del potente motore aveva
attirato l'attenzione di alcune leggiadre passanti, cosa che mai era avvenuta
quando aveva effettuato la medesima operazione con la propria Fiat 600.
Pensò allora di fare un
giro attorno alla caserma, a passo d'uomo, fino al distributore di benzina più
vicino, imprecando per il fatto che il commilitone avesse lasciato poco
carburante nel serbatoio, forse presagendo le sue intenzioni.
Passando nei pressi del
portone centrale incontrò l'amico e collega sottotenente Maurizio Moro, il
quale sovente, quando era libero da impegni di servizio e di ... cuore,
accompagnava Sandro nelle scorribande serali alla fabbrica di abiti
‘Vestebene’, ubicata lungo la provinciale via Genova, all'ingresso di Cuneo.
Lo sguardo
sciupafemmine del sottotenente Sandro Bazurro
In questa manifattura
tessile erano impiegate decine di ragazze, che come un fiume defluivano dai
cancelli della fabbrica alla fine del turno, nel tardo pomeriggio, per avviarsi
a piedi verso il centro città o aspettando la corriera che le avrebbe condotte
in uno di quell'infinità di paesini, sparsi nella Provincia Granda.
Quello era il territorio
di caccia di tanti Alpini della Cesare Battisti.
Come rinunciare
all'occasione così ghiotta di mettersi in evidenza con una simile vettura,
tenuto conto che i due ufficiali erano soliti presentarsi o con la 600 di
Sandro o la 500 di Maurizio.
Fatto sta che, rabboccato
il serbatoio con ben 5.000 lire, partirono con il vento in fronte ed il sole
che rifletteva gli ultimi raggi nello specchietto retrovisore. Arrivarono
giusto in tempo per avvicinare le ultime ragazze che uscivano dai cancelli, ma
il caso volle che queste si infilassero subito sulla corriera che nel frattempo
era sopraggiunta.
Restarono mollemente
appoggiati all'auto ancora per un po' di tempo, tanto per gustare gli sguardi
di ammirazione di qualcuno e di invidia di qualcun altro, poi decisero di
proseguire lungo la provinciale, nella speranza di avere miglior fortuna.
Giunti all'altezza
dell'incrocio per Roata Canale e Roata Civalleri pensarono di deviare, sperando
di trovare la scorciatoia per Boves anche perché si era fatta l'ora di mettere
qualcosa nello stomaco.
La strada era un po'
sconnessa e Sandro l'affrontò con grande cautela, conscio di doversi arruolare
nella legione Straniera, qualora fosse capitato qualcosa all'ammiraglia che stava
guidando.
Ad un tratto sulla
banchina di destra si materializzarono due snelle figure, che speditamente si
dirigevano verso l'abitato.
Dapprima le superarono
decisamente, avendo comunque il tempo di apprezzarne i fini lineamenti, quindi
con uno sguardo d'intesa, senza proferir verbo, ai due amici sembrò doveroso
offrire loro un passaggio, considerato che il sole era da tempo scomparso
all'orizzonte e l'imbrunire stava sopravanzando speditamente.
Le ragazze accettarono
senza tentennamenti, anche perché avevano perduto l'ultima corsa della corriera
ed ai due ufficiali restò sempre il dubbio se tale repentina decisione fosse
merito delle stellette dorate che stavano bene in evidenza sulle spalline, o
del potente mezzo di trasporto sul quale stavano mollemente seduti.
Le due splendide ragazze
erano di Roata Canale e lavoravano presso uno studio professionale di Cuneo.
Se non fosse stato che i
due avevano entrambi il cuore impegnato in storie affettive molto profonde, si
sarebbe potuta configurare la netta volontà di approfittare della circostanza,
per approfondire la conoscenza delle due giovani.
L'arrivo in paese ebbe un
successo enorme ed un'eco altrettanto sonora, considerato che le due ragazze
nulla facevano per minimizzare il fatto a parenti ed amici.
Comunque i due ufficiali
oltre ai ringraziamenti rimediarono anche un abbondante spuntino con pane
salame e formaggio, che divorarono letteralmente sotto un pergolato
meraviglioso, non senza perdere d'occhio due ragazzini assai intraprendenti,
che impossessatisi dei loro copricapi si pavoneggiavano, marciando nella corte
polverosa. Ma come si sa, da cosa nasce cosa, ed i due trovandosi a loro agio
in quell'ambiente sereno, lo elessero a mèta fissa per le loro passeggiate
serali.
Una sera di quelle,
giungendo nei pressi del grande casale, notarono parcheggiata nella corte una
Alfa Romeo Giulia dei Carabinieri.
Si avvicinarono e
chiesero al gendarme che stava a bordo cosa fosse successo.
Nello stesso momento,
l’altro carabiniere stava scendendo da una scala esterna dell’edificio insieme
ad una delle due ragazze, che li abitava. Era visibilmente in grande imbarazzo.
Fabrizio e Sandro, che
per l'occasione non indossavano la divisa, rivolsero la stessa domanda anche al
secondo carabiniere; costui, per tutta risposta, chiese con fare brusco i
documenti ai due allibiti tenentini che, ancora confusi per quanto stava
succedendo, esibirono contemporaneamente i rispettivi tesserini di
riconoscimento, palesando il loro grado.
Il capo pattuglia annotò
allora i loro dati su un taccuino e con fare altezzoso, a voce alta e ferma,
badando bene di essere udito dalla piccola folla che nel frattempo si era
radunata, sentenziò che per il momento la cosa sarebbe finita lì, rimandando
eventuali provvedimenti a successive e non ben precisate cricostanze.
Fu allora che Sandro
chiese al medesimo di declinare le proprie generalità e quale giustificazione
potesse avere un tale comportamento. Venne risposto evidentemente solo alla
prima domanda: “capo pattuglia carabiniere scelto ‘XY’ in servizio di pattuglia
sul territorio”.
Fu a questo punto che a
Maurizio sfuggì un “ma va là che vi scelgono bene”. La frase, seppur
biascicata, non passò inosservata dallo ‘scelto’ che, rosso in viso, intimò
loro un “potete andare” che non ammetteva repliche.
La situazione a quel
punto era chiara: lo ‘scelto’ era in realtà un uomo geloso che si trovava in
quel posto per ‘pattugliare’ la morosa ed era sua intenzione scoraggiare
eventuali presunti rivali.
Sandro e Maurizio,
facendo ricorso a tutto il loro buon senso, si limitarono a salutare
cordialmente i presenti, tutti visibilmente in imbarazzo per l'increscioso
fatto, considerato il buon rapporto che si era instaurato tra di loro. Con
grande apparente tranquillità abbandonarono con un rombo di motore il luogo
della disfida.
Il giorno successivo il
caso venne portato a conoscenza dei superiori e se ne interessò direttamente il
Comandante di Battaglione. Un tale ingiustificato comportamento nei confronti
dei due ufficiali, venne ritenuto all'unanimità assolutamente inaudito.
Nel frattempo anche il
carabiniere scelto, subodorando le possibili complicanze della vicenda, aveva
relazionato al suo superiore e da lì fino ad arrivare al comandante della
Tenenza. Costui, assiduo frequentatore del circolo ufficiali della Cesare
Battisti, persona di grande buon senso, portò le sue scuse personali e quelle
dello ‘zelante’ e focoso militare ai due ufficiali ed a tutta la calotta. Lo
accompagnava una grande figura di carabiniere, il maggiore Tuttobene, in visita
al Reparto ed ospite del Comando del Secondo Alpini.
Per la cronaca il colonnello Tuttobene, medaglia d'oro al
valor civile alla memoria, verrà assassinato insieme con il suo autista a
Genova, il 25 gennaio 1980, in un attentato rivendicato dalla colonna Berardi
delle brigate rosse.
La cosa finì lì senza
infamia e senza lode, né vinti né vincitori, con le motivazioni e con le scuse
che si sprecavano da entrambe le parti in causa, e come nelle migliori
tradizioni alpine con un paio di buone bevute, offerte ovviamente dalla
Benemerita.
Nel frattempo il tenente
Perron era rientrato dalla missione a Roma e riprese possesso della potente
vettura, ignara causa di tutto questo. I due giovani ufficiali, Maurizio e
Sandro, ritornarono alle vecchie abitudini, ad onore del vero con molto minore
successo.
E le due ragazze? Beh …
vennero più volte notate a passare e a sbirciare dentro la caserma attraverso
il portone centrale, ma furono ignorate con grande eleganza.
Ed i due baldi gendarmi
dei carabinieri, probabilmente istruiti a dovere dai loro superiori, spinsero
altrove il loro turno di pattuglia del territorio, lasciando la tutela della
morosa ai momenti liberi dal servizio.
Per fortuna le rispettive
fidanzate di Maurizio e Sandro rimasero all'oscuro di tutta la vicenda. Quando
un mese più tardi vennero invitate dal Comandante di Reggimento ad assistere
alla cerimonia di Giuramento, applaudirono con calore la sfilata dei due
tenentini, in testa ai loro reparti.
C'è da chiedersi se le due ragazze avrebbero tenuto un analogo
comportamento qualora fossero state informate dell'increscioso fatto capitato
ai loro gagliardi ufficiali. Ma mai lo
seppero né mai lo sapranno, se non leggendo queste memorie, ma ormai è passato
così tanto tempo ....
CAPITOLO 60
IL CORSO DI SOPRAVVIVENZA
Il ‘Corso di
sopravvivenza’, così come previsto dal programma di addestramento delle truppe
alpine, sembrava cosa più adatta a dei Rambo super dotati, piuttosto che a un
manipolo di ragazzi, per quanto volonterosi, in servizio di leva.
Queste erano infatti le
ardue disposizioni cui avrebbero dovuto attenersi i componenti della squadra
per il corretto superamento della prova in questione:
- Effettuare una
traversata dal punto A al punto B, così come identificata nelle cartine IGM.
- Muoversi solo
nottetempo.
- Non essere notati da
nessuno.
- Dormire all’addiaccio o
in trune appositamente costruite.
- Cibo a disposizione: 2
razioni K a persona (equivalente a 4 pasti completi).
- Tempo a disposizione
per completare l’intero percorso: 6 giorni e 5 notti.
- Contatti con la base: 1
contatto via radio al giorno, alle ore 18.00.
Il tutto veniva poi
ulteriormente complicato dal rigido clima invernale. La neve infatti aveva già
ricoperto la vallata e muoversi di notte non era per nulla agevole, soprattutto
dovendo evitare strade statali, provinciali, comunali, vicinali, mulattiere e
sentieri frequentati. Semplicemente, si poteva procedere soltanto nel bosco.
La squadra era composta
da 8 intemerati soldati.
C’era un sottotenente, un
sergente, un esperto in radiotrasmissioni, un infermiere, un caporal maggiore e
tre alpini.
Il sottotenente,
comandante della sventurata pattuglia, era un giovane ufficiale di complemento
sfornato dal 64^ corso AUC, al secolo Callegari Vinicio, da Castelfranco
Veneto!
Dopo essere stato
trasportato con una AR (auto di ricognizione, una FIAT Campagnola) ed un CL
(Camion leggero) sul punto di partenza, il gruppetto si defilò velocemente.
Camminarono con le
ciaspole ai piedi, faticosamente, nella neve profonda e farinosa.
Era già l’imbrunire.
Dopo qualche tempo
raggiunsero il primo punto previsto dall’itinerario e si accamparono.
Affamati, divorarono
quasi completamente il contenuto della prima razione.
Scavarono delle
tane-ricovero approfittando di piccoli pendii ed al mattino avevano già
terminato il cibo della prima confezione.
Venne la sera e si
ripartì verso il secondo punto identificato sulla carta.
Avrebbero dovuto restare
fuori 6 giorni e 5 notti per arrivare a completare il tracciato.
Alle 18.00 stabilirono
l’appuntamento radio per il rapporto con la base.
Con la seconda notte
anche la seconda razione K era quasi terminata.
Il comandante Vinicio si
chiedeva cosa si sarebbe potuto fare nel caso ormai certo di esaurimento
anticipato degli alimenti, mentre gli occhi dei suoi alpini cercavano di
leggere qualcosa nei pensieri del loro superiore.
Si mossero verso il terzo
obiettivo, dopo aver cancellato come di dovere le tracce dello stanziamento.
Verso l’una di notte
raggiunsero il punto convenuto: brillava una candida luna, risplendeva un cielo
stellato, il freddo bruciava la faccia.
Non avevano quasi più
cibo con loro: il sergente estrasse due tavolette di cioccolata ed un alpino
recuperò dal suo zaino una scatoletta di carne. Ma per sfamare 8 ragazzi
giovani, affamati e infreddoliti, ci sarebbe voluto ben altro.
Poi, come d’improvviso,
Vinicio vide materializzarsi una luce che filtrava tra le piante del bosco.
Subito chiamò a sé il
caporale, altoatesino e quindi bilingue.
Gli chiese cosa ne
pensasse dell’idea di raggiungere quella struttura che si intravvedeva e di
chiedere qualcosa da mangiare. Il militare annuì entusiasta.
Vinicio sacrificò ben
volentieri parte del denaro che si era portato da casa e lo diede al soldato.
Nel frattempo i ragazzi,
con i quali si era stabilito un buon rapporto cameratesco, predisponevano le ‘tane’
per la notte.
Dopo un paio d’ore il
caporale rientrò con pane, burro, formaggi, vino e frutta.
Disse inoltre ai compagni
che al maso, in barba alla segretezza della missione, avevano notato la loro
presenza e che potevano con molto piacere offrire ospitalità nel fienile, a
condizione che non fumassero.
La pattuglia si mosse con
una rapidità sorprendente: in meno di un’ora il piccolo drappello aveva preso
pieno possesso del nuovo ed accogliente alloggio.
Alla mattina fecero
colazione con pane fresco, burro, marmellata e latte appena munto. Vinicio
saldò più che volentieri quanto dovuto e rimasero lì fino a sera, sotto lo
sguardo incantato dei marmocchi dei contadini, alquanto incuriositi nel vedere
una marmaglia del genere, puzzolente, con barbe lunghe e fucili veri.
Ripartirono
all’imbrunire.
Ma a quel punto il
sottotenente Callegari aveva le idee chiarissime in testa su dove trascorrere
la prossima nottata: studiando infatti il percorso aveva notato che con una
piccola deviazione si sarebbero avvicinati ad un altro maso …
Naturalmente nei rapporti
via radio, fra scariche e vuoti, si faceva presente al comando che a parte il
freddo e la carenza di generi alimentari, non vi erano preoccupanti situazioni
sanitarie e di sicurezza.
Arrivarono a notte
inoltrata nei pressi della quarta base ed anche questa volta fu sufficiente
mandare in avanscoperta il caporale lanzichenecco per assicurarsi un caldo
fienile con tanto di abbondante dessert.
Passarono il giorno
oziando e la pattuglia ormai rinfrancata già pregustava l’ultimo tragitto con
l’ennesimo maso da occupare.
Ma alle 18,00 precise,
durante il programmato collegamento radio, arrivò inaspettato l’ordine di
partenza per raggiungere il punto C identificato nella tavoletta IGM, con
conseguente ed immediato rientro al reparto.
“Molto probabile –
supponeva Vinicio - che qualcuno avesse mangiato la foglia e si chiedesse come
potessero fare questi pur prodi alpini a restare senza viveri ed a camminare
per quattro giorni di seguito”.
Arrivarono in caserma che
era ormai buio. Venne loro incontro il Colonnello e Vinicio gli presentò la
forza. Poi gli fu chiesto, per l’indomani, di fare un rapporto dettagliato
della missione.
Come gli era stato
ordinato, il mattino successivo Vinicio si presentò in Comando: erano presenti
il Colonello, l’aiutante maggiore ed il Tenente Arnaldo Soleri.
Il sottotenente Callegari
Vinicio fece il suo minuzioso rapporto in un silenzio di tomba.
Ovviamente omise tutti i
particolari che riteneva nocivi venissero raccontati.
Il commento finale del
suo comandante di compagnia fu alquanto rassicurante: “Tenente, la vedo
alquanto deperito ...”.
Epilogo: due giorni dopo,
durante l’adunata dell’alzabandiera, tutti i ragazzi che avevano partecipato a
quella impegnativa impresa vennero chiamati al centro del piazzale e, dopo un
breve discorso di encomio, furono onorati del “fazzoletto giallo”.
Da quel giorno, annodato
intorno al collo e sotto la camicia, gli otto giovani esploratori indossarono
con fierezza il foulard dorato, ormai parte integrante della loro divisa.
CAPITOLO 61
LA VALANGA DEL
CORNO PICCOLO
Marcellino Bortolomiol
aveva ricevuto un meraviglioso regalo dalla buona sorte: era stato infatti
destinato al 7° Reggimento Alpini Battaglione Feltre, precisamente alla caserma
di Pieve di Cadore, a 20 km da casa, tra le vette Feltrine ed in mezzo alle
Dolomiti.
Lui ed il suo gruppetto
di esploratori erano continuamente impegnati.
Le missioni si
susseguivano senza tregua: fecero parte della squadra addetta alla messa a
punto delle piste di discesa per le gare di coppa del mondo di sci a Cortina e
posizionarono le corde fisse per le ascensioni al Cimon della Pala, sopra San
Martino di Castrozza, durante una fitta nevicata nel mese di luglio e dopo aver
pernottato per due notti nel bivacco Fiamme Gialle, sotto una perdurante bufera
di neve.
Ma non mancarono, ad
intervallare le giornate più faticose, anche le stupende discese con gli sci ai
piedi, in perfetta divisa bianca, dopo essere stati trasportati dagli
elicotteri dal Col Margherita fin su al Passo San Pellegrino!
La vivace vita militare
del sottotenente esploratore Marcellino Bortolomiol proseguiva come meglio non
avrebbe desiderato, in un continuo movimento tra le rocce e le nevi che tanto
amava, con ripetuti percorsi di montagna e con poca caserma.
Arrivò anche il momento
del campo invernale.
Tutto l’intero
battaglione Feltre, con muli, centinaia di alpini, camion e camionette, su una
lunghissima tradotta, partì da Feltre per trasferirsi armi e bagagli fino
all’Aquila, in un lungo viaggio di oltre 600 chilometri.
Come sempre, le attività
al campo si susseguivano senza sosta.
Attraversarono la Piana
di Campo Felice con i muli dopo che gli alpini avevano aperto un varco nella
neve alto 2 metri e lungo quasi 3 km.! Percorsero itinerari, sconosciuti a
Marcellino, incontrando piccoli paesi come Ovindoli nel parco naturale del
Velino e Roccaraso ai margini meridionali dell’Altopiano delle Cinquemiglia.
Camminarono sulla Maiella innevata e sul Gran Sasso.
Il sottotenente
Bortolomiol, con la sua squadra, venne poi deputato ad attrezzare la salita al
Corno Piccolo del Gran Sasso: tutta la compagnia artiglieri avrebbe dovuto
infatti salire su quella cima. Si trattava di un lavoro delicato, soprattutto
per quanto riguardava il superamento di un lungo costone di neve.
I ragazzi si misero
subito al lavoro. Si trasferirono a Campo Imperatore, ex roccaforte del Duce,
eletto a campo base delle operazioni ed alloggiarono nell’umido tunnel di
collegamento tra la stazione a monte dell'albergo e il parcheggio della
stazione a valle. Ogni mattina partivano alle cinque, ancora nel buio della
notte, fino a raggiungere l’inizio di quel lungo costone di neve che andava
attraversato per raggiungere la vetta.
Una di quelle mattine,
intorno alle 8:30, probabilmente per accelerare i tempi di percorrenza,
Marcellino ed i suoi compagni tagliarono la costa innevata senza mantenere le
distanze di sicurezza.
Purtroppo, fu una scelta
avventata.
L’eccesso di peso fece
partire una slavina.
Erano in 10: sette alpini
esploratori, il capitano in coda, il sergente in testa ed il sottotenente
Bortolomiol in mezzo.
I cinque ragazzi che
procedevano nella parte centrale del gruppo furono colpiti in pieno dalla
valanga che nel frattempo cresceva a vista d’occhio. Precipitarono nello
strapiombo per qualche decina di metri e vennero sommersi dalla massa nevosa. I
quattro alpini a fianco di Bortolomiol, due per parte, furono scaraventati lateralmente
dalla forza d’inerzia della slavina, mentre Marcellino seguitava a scivolare
lungo il plateau.
Il giovane sottotenente
continuava a nuotare nel tentativo di mantenersi a galla e fece appena in tempo
a scorgere un gruppetto di rocce che sporgevano tra la neve.
Furono la sua salvezza.
Riuscì infatti ad
appigliarsi a quegli spuntoni, prima che iniziasse il pericoloso canalone
disseminato di impervie sporgenze di pietra. Marcellino, facendo appello a
tutte le sue forze e mantenendo la testa bassa finché l’intera valanga non gli
fu passata sopra, riuscì a resistere, ancorato a quei massi amici che gli
stavano salvando la vita.
Finalmente, la grande
slavina smise di ruggire.
Marcellino fu subito
soccorso. Aveva perso buona parte della pelle delle mani, ma stava bene.
Anche gli altri compagni,
a parte qualche piccola escoriazione, erano sani e salvi.
L’indomani mattina gli
indomiti giovani erano nuovamente sul posto per completare il lavoro ed il
giorno successivo, infine, l’intera compagnia, con i pezzi degli obici e delle
mitragliatrici, raggiunse la cima del Corno Piccolo.
Il panorama, sulla vetta,
era unico, con il Ghiacciaio del Calderone e le tre vette del Corno Grande, unitamente
al Torrione Cambi, che sembravano a portata di mano.
Il Corno Piccolo era
stato conquistato, mentre le mani spelacchiate di Marcellino e dei suoi alpini
erano già un lontano ricordo.
CAPITOLO 62
IL SOLDATO
COLAMEO
Subito dopo che i ‘veci’
facenti parte della truppa della 76^ Compagnia di stanza a Chiusaforte, finita
la naja, se furono andati, i loro posti furono presi nel giro di un paio di
giorni da altrettanti ‘civili’.
Ben presto anche i nuovi
arrivati sarebbero diventati dei bravi militari a tutti gli effetti.
Ma la cosa non era
automatica.
Tutti questi bravi
ragazzi sarebbero dovuti passare a loro volta attraverso l’impegnativa trafila
cui si erano sottoposti i loro predecessori: addestramento alle armi, alla
disciplina, alla fatica, ai servizi, alle marce e a tutto il resto di impegni
che il Servizio Militare prevedeva.
Ogni Sottotenente aveva
il suo Plotone da seguire ed ogni sera, nell'ufficio del Capitano, avevano
luogo le riunioni per fare il punto sulla situazione.
Tutto procedeva per il
meglio: erano bravi ragazzi con desiderio di imparare. Si erano tutti ben
affiatati fra loro in breve tempo e portavano avanti il programma di istruzione
aiutandosi a vicenda.
Tutto sembrava essere a
posto.
Ma non era così!
Fra gli alpini del
sottotenente Roberto Braggion c'era il soldato Colameo, abruzzese di nascita e
di cocciutaggine.
Si era messo in testa che
lui, con la naja, non voleva averci niente a che fare. Anzi, doveva fare per
forza qualcosa ‘contro’. Per carità, era buono come il pane, tranquillo e
gentile ma, tutto quanto faceva, era l'esatto contrario di quello che facevano
gli altri. E con la ferrea volontà di esibire questa sua diversità.
Si comportava così in
tutte le materie di istruzione, ma una su tutte era quella che prediligeva
boicottare: marciare ‘disallineato’ con la compagnia in preparazione della
grande parata che ci sarebbe stata da lì a pochi giorni.
Ad ogni ‘passo’ il suo
piede batteva subito dopo quello degli altri, era perennemente fuori tempo e fuori
linea, girava la testa sempre quando doveva stare ferma, e così proseguendo.
Per il suo carattere mite
era ben tollerato dai suoi commilitoni, ma molto meno dal suo Capitano.
Prima velatamente e poi
sempre più chiaramente il Comandante della Compagnia fece capire al
sottotenente Braggion che avrebbe dovuto, in qualche modo, risolvere il
problema.
Altrimenti ci avrebbe
pensato lui.
Roberto era sinceramente
preoccupato: in quella ribellione del soldato Colameo c'era qualcosa di strano.
Ad ogni marachella che combinava il suo sguardo cercava di incrociare quello di
Roberto, ma con leggero senso di sfida e allo stesso tempo di dispiacere nei
confronti del suo sottotenente, quasi volesse sussurrare: “Mi spiace per te ma
io ho la mia missione anti-naja da compiere”.
Questa sfida piaceva al
giovane ufficiale e pertanto la raccolse in pieno.
Gli interessava
soprattutto che il ‘suo’ alpino non si facesse del male da solo e non andasse
incontro a brutte conseguenze.
Cominciò a ‘marcarlo
stretto’, anche cercando di dialogare con lui in tutti i momenti possibili, ma
senza risultato. La data della parata si avvicinava ed il Capitano fremeva
sempre di più. A seguito delle
rassicurazioni di Roberto che garantiva che tutto sarebbe filato liscio, il
comandante sfoggiava una calma apparente ma … pericolosa, come a dire che
eventuali guai li avrei pagati Roberto.
L'idea venne a Braggion
lo stesso giorno della parata.
Era, l'alpino Colameo,
piccolo di statura, anche se non fra i più piccoli, e nella predisposizione
dell'allineamento della Compagnia Roberto gli assegnò comunque il primo posto,
quello più in vista.
Sarebbe stato visto per
primo e in pieno da tutto il pubblico, alti Ufficiali, un Generale e,
soprattutto, dalla sua morosa e dai suoi famigliari che erano arrivati da un
paesino disperso nella provincia de L'Aquila.
Inutile dire che marciò a
tempo, impeccabile nell'allineamento e nella marziale postura che assunse
durante tutta la parata.
Soprattutto con lo
sguardo felice.
E dopo il suo
atteggiamento cambiò.
Sicuramente fra i due il
più felice fu il sottotenente Roberto Braggion quando il Capitano, qualche
tempo dopo, e con la piena approvazione di Roberto, decise di promuovere
l'alpino Colameo a Caporale e di affidargli l'incarico di addestratore.
CAPITOLO 63
UN TENTATIVO
DEL TUTTO INUTILE
Il Tenente Colonnello Cesare Di Dato, persona coerente,
corretta e comunque tranquilla, ma giustamente severa, comandava il Battaglione
alla caserma Testafochi.
Per inciso, si narrava che, quando succedeva in caserma
qualcosa che non andava, chiamasse al telefono l'Ufficiale di Picchetto
dicendo: “Pronto, sono Cesarino!”. A quel punto il povero Sten
scattava automaticamente sull'attenti rispondendo: “Comandi
signor Colonnello”, caricandosi sul groppone ogni pesante rimprovero.
Passarono i mesi sino a quando si verificò il naturale
avvicendamento al comando del Battaglione.
Pochissimi giorni prima del commiato, Di Dato radunò al
Circolo Ufficiali diversi suoi amici, pari grado e non, per organizzare la
festa di addio. Casualmente, Giuliano Levrero e l'amico Sten Franco Garabello,
della medesima Compagnia, trovandosi in caserma, furono invitati alla sua
festa!
I saluti d'addio furono celebrati, piacevolissimamente, in
un night club di Saint Pierre.
A Cesare Di Dato succedette il Tenente Colonnello Pierino
Monsutti.
Del Colonnello
Monsutti Giuliano conserva con grande piacere ed onore una lettera del 29
febbraio 1988 che gli fu inviata da Padova a seguito delle sue felicitazioni
quando Monsutti divenne Generale Vice Comandante della 'Regione Militare Nord
Est'.
“Caro Levrero – scrisse il
Generale - mi ha fatto molto piacere ricevere il Suo scritto e ricordare i
vecchi bei tempi del Battaglione “Aosta”. La ricordo benissimo e la ringrazio per le Sue parole,
tanto gradite, anche perché mi giungono da un
collaboratore validissimo quale Lei è stato, in ogni situazione nell'attività e
nella vita di caserma …”.
Cambiando il Comandante, comunque, cambiò anche l'aria che
si respirava in caserma.
Era il periodo in cui il Capitano Francesco Albarosa era
stato aggregato al ‘Susa’ con alcuni alpini del Battaglione per le imminenti manovre
NATO che si sarebbero svolte in Norvegia.
E Giuliano, essendo lo Sten più anziano rimasto, divenne
Comandante di Compagnia: la vita e le attività divennero maggiormente onerose,
complesse e rischiose.
Quasi tutte le mattine Levrero era a rapporto nell'ufficio
del Comandante per disposizioni di ordine generale e particolare circa la
Compagnia che stava comandando assieme ai colleghi Traversone del 65° e Vissà
del 66° Corso.
Il nuovo Comandante, purtroppo, aveva la consuetudine di
dormire pochissimo, quindi era spesso in giro per la caserma, tant'è che la
guardia e l'Ufficiale di Picchetto erano continuamente all'erta.
Giuliano dormiva in una camera posta al primo piano sotto
le camerate della 42^, appositamente sistemata ed arredata dal Capitano
Albarosa ed a disposizione degli Ufficiali; per raggiungerla doveva
necessariamente attraversare in diagonale il piazzale e non poteva
assolutamente defilarsi.
Molte volte la notte, rientrando tardi, trovava il piazzale
illuminato, la guardia schierata sull'attenti ed il Colonnello che parlava con
l'Ufficiale di Picchetto. Accorgendosi della sua presenza, il colonnello
Monsutti licenziava il picchetto e si intratteneva a parlare con Giuliano
passeggiando per la caserma.
Il colonnello amava chiedere al giovane sottotenente il suo
parere circa i possibili varchi da cui gli alpini avrebbero potuto scavalcare
il muro di confine per andare in fuga, soffermandosi zona per zona per la
valutazione (punti ben conosciuti da tutta la truppa, ma tenuti sempre
segreti!). A volte ragionava sulla fattibilità di come operare per migliorare
l'ordinamento e la vita di caserma; a volte si parlava della vita futura di
Giuliano. Era senza dubbio piacevole ragionare con lui, anche se la stanchezza
ed il sonno aumentavano passo dopo passo.
Comunque, ogni volta che si incontravano la sera, l’alto
graduato terminava la discussione con un esplicito invito: “Lei
Tenente è in gamba, ci pensi seriamente, ci pensi, abbiamo bisogno
di persone come lei! Sono sicuro che farebbe un'ottima carriera”.
Ed ogni volta, arrampicandosi sui vetri, Giuliano cercava un’argomentazione
nuova per chiarirgli che oramai la sua vita era decisa, aveva ventisei anni ed
aveva studiato per fare l'architetto ... ma non era facile distoglierlo da
quell'idea fissa.
E giunse il giorno del termine del servizio di prima nomina
per tutti i ragazzi del 64° corso.
Anche alla caserma Testafochi, per quell’occasione,
era previsto in tarda mattinata un rinfresco di commiato nel salone del Circolo
Ufficiali.
Annusando già aria di casa ed avendo preparato
precedentemente le valigie, Giuliano quella mattina decise di non presenziare
all'alzabandiera, ma di starsene tranquillamente a dormire sino
all'appuntamento per il rinfresco.
Alle otto e mezza circa bussarono alla porta: era un
piantone che lo avvisava di recarsi urgentemente dal Colonnello. Staccando
diversi 'moccoli' si preparò il più velocemente possibile e raggiunse il suo
Studio.
Il comandante Monsutti lo fece accomodare e gli dette
disposizioni precise e puntuali facendogli infinite raccomandazioni su come
avrebbe dovuta essere condotta la Compagnia da parte del collega che lo avrebbe
sostituito da quel momento sino al ritorno del Capitano Albarosa, ancora
trattenuto in Norvegia.
La 'lezione' durò talmente a lungo che i due giunsero al
Circolo per il rinfresco con quasi mezz'ora di ritardo.
Probabilmente, era l’ultimo, disperato tentativo, del
colonnello Pierino Monsutti di convincere Giuliano ad intraprendere la carriera
militare rinunciando a quella di architetto.
Ma fu una manovra del tutto inutile.
Dopo il rinfresco ed il pranzo Giuliano caricò la sua auto,
compresa ... una gabbietta con un 'verdone' regalatogli da un suo
caporalmaggiore.
Tornò finalmente e definitivamente a casa, con una montagna
di ricordi ed un pizzico di nostalgia, pronto per intraprendere la sua nuova
attività con il consueto entusiasmo e la riconosciuta professionalità.
L’ufficiale di picchetto Giuliano Levrero
CAPITOLO 64
ADDIO ALLE ARMI
Con l'arrivo dell'autunno
del 1972, anche l’esperienza di soldato di Sandro Bazurro, in qualità di
ufficiale di complemento, arrivava alla sua naturale conclusione.
Il 9 luglio partecipò
all'ultimo Giuramento solenne in piazza Galimberti a Cuneo con le reclute del
secondo contingente '72 che, durante la lunga cerimonia e complice il caldo
torrido, svennero a grappoli (ne caddero almeno una ventina) tra il brusio di
disapprovazione della folla assiepata.
L’ultimo
giuramento del ‘doi’.
Piazza
Galimberti. Cuneo.
In quel periodo iniziava
anche il lento, inesorabile scioglimento del Corpo Addestramento Reclute del 2°
RGT Alpini (che terminerà definitivamente due anni dopo, con la creazione del
Battaglione Addestramento Reclute “Cuneense”, erede della bandiera di guerra
del vecchio Reggimento).
Il 22 agosto del 1972
Sandro venne delegato a svolgere l'incarico di comandante della Compagnia
Artiglieri da Montagna Tridentina in sostituzione del Comandante Titolare,
inviato alla Scuola di Guerra.
Da tale data iniziò la
dismissione del Reparto, con versamento di tutti i materiali della Compagnia,
sia di servizio che di casermaggio, dalle armi ai materassi: un compito molto
impegnativo e di responsabilità per un giovane sottotenente di prima nomina.
Ultimato l'addestramento
del secondo contingente '72 ed accompagnate le reclute ai Reggimenti, la vita
di caserma divenne monotona e si cercava di movimentarla con scherzi e tiri
mancini ai figli, ma anche tra gli anziani, soprattutto verso chi si imboscava
od otteneva favoritismi per trarne benefici in modo spudorato.
In quel periodo anche un
caro collega di Sandro, appassionato di armi, tra un servizio e l'altro, si
dilettava a costruire impugnature ergonomiche per il revolver calibro 22 che
usava per il tiro al poligono, testandone poi l'efficienza con la ‘volontaria’
collaborazione dell’amico.
Più precisamente quando
al pomeriggio, liberi dai servizi, si stava a riposo in branda nell'ora di
silenzio, il pistolero sorprendeva il compagno nel momento del naturale
assopimento, dovuto anche all’estiva calura, ‘invitandolo’ a restare immobile e
supino, mentre prendeva accuratamente la mira e sparava a tiro radente contro
il muro che aveva al suo fianco.
Quando andava meglio il
suo obiettivo era il soffitto.
Risultato: all'atto del
congedo sul muro a fianco di un letto si poteva distintamente individuare un
profilo umano ed il soffitto somigliava al planetario della Scuola di Aosta,
tutto puntinato da fori calibro 22.
Ormai tranquillamente
congedati, dopo qualche giorno i due furono richiamati ‘gentilmente’ per
tappare tutti quei buchi, con spatola e stucco da muro. Scroccarono l'ultimo
pranzo al circolo ufficiali, ma si divertirono un po' meno a sigillare i fori
del soffitto a tre metri e mezzo da terra, salendo su un improvvisato
trabattello, formato accatastando le brande.
Bellissima fu la festa di
congedo: tutti gli ufficiali della calotta ed il quadro permanente invitati,
damigiane di vino posizionate sotto il porticato affinché tutti potessero
attingerne, canti e balli fino a tarda ora, salumi e formaggi in abbondanza e
poi il silenzio, fuori ordinanza naturalmente. Affiorò anche qualche
lacrimuccia, complici le abbondanti libagioni e poi tutti a nanna... ma
veramente? Ma no... tutti veramente no.
Improvvisamente nella
notte un denso fumo si levò da una camera nell'ala degli alloggi Ufficiali,
invadendo tutte le stanze, i corridoi, le scale. Un candelotto lacrimogeno da
un chilo aveva contribuito a far commuovere anche i più scafati, i più
riottosi, anche coloro che felici della partenza dei due tenentini non avevano
ancora versato neppure una lacrimuccia per i loro anziani.
Tra questi anche l'ignaro
cappellano, che alloggiava in una camera attigua degli alloggi ufficiali ed era
costretto suo malgrado a condividere tutte quelle dissolute intemperanze.
Fu molto severo e da buon
delatore fece partecipe del fatto il valente Comandante di Battaglione, quello
della valigia di cartone per intenderci. Costui, dopo aver chiamato a rapporto
Sandro ed il suo degno compare e dopo aver loro rammentato anche le altre
precedenti malefatte, li redarguì con fermezza, dichiarandosi felice della loro
prossima partenza e multandoli con le spese di una damigiana di vino (che
sarebbe servita al cappellano per il suo santo uffizio …).
Colse l'occasione per
ricordare tutto ciò che avevano combinato in quei nove mesi di permanenza ai
reparti, degni eredi a suo dire, dei loro dissoluti predecessori.
Sottolineò in particolare
la brutta avventura con le educande del collegio situato proprio dirimpetto
agli alloggi degli ufficiali, che tante noie gli aveva procurato con la madre
superiora.
La birbonata era
consistita nell'attirare l'attenzione di quelle sventurate con atteggiamenti
discinti tenuti dalle camere fronteggianti i loro alloggi o dai locali servizi
e docce; ciò era stato possibile essendo i due immobili separati solo da pochi
metri di strada. Qualcuno si era spinto ben oltre, inviando loro messaggi poco
convenienti ma molto chiari, attirando le poverette in appuntamenti galeotti,
tanto che alcune di loro mosse da profondo pentimento per gli atti impuri
commessi, pare ripetutamente e con reciproca soddisfazione, rinunciarono ai
voti promessi, con ‘grave nocumento per la sacra istituzione tutta’.
In quel caso
l’immancabile rimprovero solenne terminò nell'ufficio del comandante ed alla
presenza della madre superiora, direttrice del collegio. Il colonnello, ormai
scafato nel dirimere tali incresciosi avvenimenti, condannò ‘i colpevoli’ a
pagare un paio di bevute per tutta la calotta, e soprattutto rinfacciò loro di
non averlo mai portato prima a conoscenza del fatto, certo che con l'esperienza
di un maturo superiore tutto ciò non sarebbe successo.
Il primo ottobre
dell'anno 1972 Sandro Bazurro e tutti i suoi compagni del 64° corso AUC vennero
inviati in congedo, per ultimato servizio di prima nomina.
Lasciavano tanti amici e
portavano nel cuore tanti cari ricordi.
CAPITOLO 65
PILLOLE DAL BATTAGLIONE
LE
TROTE DELLA VAL PASSIRIA
“…allora
Tenente, cosa vogliamo fare? Redigiamo il verbale ed esponiamo denuncia alle
autorità, o…?”.
Così
il guardiapesca ed il messo comunale si rivolgevano a Felice Piasini,
comandante del distaccamento di Saltusio in Val Passiria, in un caldo pomeriggio
di fine luglio.
I
due se ne stavano all’ingresso della casermetta con due sacchetti di plastica
rigonfi e gocciolanti e, all’invito del tenente ad accomodarsi, proposero che,
per non sporcare, era meglio andare sul retro e fare due chiacchiere. Aperti i
sacchetti, il comandante, scuotendo il capo, capì subito di che si trattava.
I
suoi naioni ne avevano combinata un’altra.
Le
ispezioni alle opere di difesa si svolgevano sia in mattinata che nel
pomeriggio. Nel tragitto tra una postazione e l’altra, non si poteva resistere
alla tentazione di fare un giretto nei boschi in cerca di funghi, che poi
venivano cucinati con il risotto o impanati dall’ex ciabattino bresciano,
promosso cuoco sul campo! Al pomeriggio
si preferiva andare sulla sponda opposta, che dava a nord, più fresca, ma si
doveva passare per forza dal torrente. E, nonostante le raccomandazioni, la
pattuglia si toglieva scarponi e mimetica e si rinfrescava o si metteva a
prendere il sole sui massi levigati dall’acqua. Qualcuno, un po’ più attivo,
cercava di acchiappare con mani e bastoni qualche trota, ma in genere senza
successo. Quel giorno, fortuna volle che trovassero, in una pozza isolata
vicino al letto principale del torrente, un gran numero di trote rimaste là
intrappolate. Prenderle era diventato un gioco. Così lo schiamazzo festoso dei
baldi pescatori richiamò l’attenzione degli indigeni che, gelosi delle loro
cose e rispettosi della legge, andarono ad avvisare chi di dovere.
Il
resto è noto. Svanito ormai il sogno di gustare le famose ‘Forellen’ del
Passirio, al comandante non rimase che optare per la soluzione più vantaggiosa:
‘regalare’, seguendo il consiglio delle guardie locali, le trote alla Casa di
Riposo di Rifiano, il paese vicino, e chiudere lì la faccenda.
“COMODO,
COMODO!”
La
divisa in disordine e l’atteggiamento non proprio militare dei soliti imbecilli
sorpresi a fare autostop, non dovevano essere stati particolarmente graditi ad
un Generale di Merano a spasso con la moglie su per la Val Passiria, in una
domenica d’agosto.
La
lavata di capo a cascata fu inevitabile. Vennero coinvolti tutti: Generale,
Tenente Colonnello, Capitano responsabile dei distaccamenti e Tenente,
comandante dello stesso.
Lunedì
mattina squillò l’apparecchio di collegamento tra Vipiteno, sede del
Battaglione, e la casermetta di Saltusio. Era il Tenente Colonnello che si
informava, tra il sornione e l’ironico, sulla vita del distaccamento. Rivolse
domande ben precise relative ad altrettante consegne, il più delle volte
‘formali’, la maggior parte delle quali non rispettate, come l’alzabandiera fra
l’altro, ma note a tutto il sistema.
Insomma,
forse era troppo e si doveva cercare di mettere un po’ d’ordine e disciplina,
in una ‘guarnigione’ abbandonata a sé stessa a pochi passi dal confine nemico.
Per
fortuna, solito more all’italiana, il comandante di quel distaccamento, il
sottotenente Felice Piasini, venne avvisato per tempo della visita a sorpresa,
fissata per il venerdì successivo.
Fu
una settimana di fuoco per tutti. Una signora che abitava di fronte provvide a
lavare e a stirare la bandiera. Si fecero le pulizie generali. Si mise il
grasso alle carrucole e si provò e riprovò l’alzabandiera. Si esercitarono in
adunate e schieramenti della forza fino alla nausea.
Venerdì
mattina, cinque minuti prima dell’ora fissata dal regolamento, spuntarono su
dalla salita che portava al distaccamento due penne bianche. Erano il Tenente
Colonnello Vittone, comandante del Valchiese, ed un Maggiore, seguiti da un
capitano e da un maresciallo.
“Ci
siamo!”, mormorò tra sé e sé Felice.
Vittone
invitò il comandante del distaccamento a procedere, come da prassi, al rituale
dell’alzabandiera.
Gli
alpini uscirono dalla casermetta e si schierarono con perfetto allineamento.
Poi,
seguendo il protocollo militare, il caporale corse davanti al Colonnello.
Scattò
sull’attenti, alzò fiero il braccio destro all’altezza della visiera del
cappello ed iniziò, con palese emozione, a presentarsi: “Caca ... caca …
cacaca…”.
Avrebbe
dovuto dire solamente: “Caporale Casazza Mario” e quindi presentare la forza
del distaccamento. Il Casazza era un biondino della Lomellina, ubbidiente,
sempre disponibile e buono come il pane.
Per
sbloccare la comica situazione fu sufficiente un calmo e bonario: “Comodo!
comodo!” esclamato del Colonnello. Era un piemontese dalla corporatura
imponente, intransigente ma evidentemente anche molto comprensibile …
IL
PRIMO INCARICO
Il
primo incarico che Vinicio Callegari ricevette al suo arrivo in Battaglione fu
quello di organizzare il trasporto di due CPM di legna in una casermetta a
Varna, in provincia di Bolzano. Avrebbe dovuto comandare un plotoncino di
alpini per caricare a mano la legna presso un deposito vicino alla caserma e
scaricarla dove convenuto.
Vide
in piazzale due camion con autisti e 4 alpini in uniforme da lavoro.
“Capperi
– si disse - l’Aiutante Maggiore oltre che dare l’ordine mi ha procurato tutto
il necessario”.
Si
avvicinò ai due mezzi e diede le sue disposizioni. Vide gli occhi degli alpini
sgranarsi: gli dissero timidamente che avevano un altro ordine. Ma Vinicio non
volle sentire ragioni e si partì.
Al
rientro, era l’ora di rancio, venne preso per la collottola dal maggiore:
quegli automezzi erano destinati al trasporto munizioni ed avrebbero dovuto
recarsi in polveriera ...
Per
tacitare l’accaduto, Vinicio spese quasi mezzo stipendio al circolo ufficiali …
FORNI
AVOLTRI: LA RIVINCITA DEI MULI
Gennaio
1972.
Bruno
Brachet, Mirco Bozzo e Valerio Poggi furono destinati presso l'8° Reggimento
Alpini ed accorpati all'11° compagnia, battaglione Mondovì, a Forni Avoltri, in
Friuli.
Erano
appena arrivati nel bel paesino dell’Alta Val Degano, che subito incominciò il
campo invernale. Questo lungo addestramento, della durata di un mese, prevedeva
che per dieci giorni si rimanesse stabili nello stesso posto e che per i
restanti venti ci si spostasse in continua mobilità.
Per
il campo fisso fu scelta un'altura sopra il paese.
Effettuarono
in zona le esercitazioni programmate ed alloggiarono nella malga ‘Casera
Tuglia’. Quel rustico edificio era stato messo a disposizione degli alpini
dagli allevatori del posto, che erano soliti utilizzarlo per il ricovero del
bestiame, condotto al pascolo nel periodo estivo.
Purtroppo
con il passare dei giorni le nevicate si fecero sempre più insistenti ed il
sentiero che portava alla baita fu completamente sommerso dalla neve: già
impraticabile in stato normale dai mezzi motorizzati, quella stradina di
montagna divenne così inagibile anche per i muli, i soli in grado di
trasportare i rifornimenti ai soldati dislocati in quella malga sperduta.
Fu
subito individuata una opportuna alternativa: marmitte, vitto, fabbisogno
giornaliero e quant’altro necessario sarebbe stato caricato sulle spalle dei
robusti conducenti dei muli …!
Incredibilmente,
grazie a quei volonterosi alpini, per l’occasione trasformati in ‘bipedi da
soma’, alla compagnia non mancò mai nulla ed ogni giorno continuò persino ad
arrivare il vitto caldo.
Si
racconta inoltre che in quel periodo i simpatici muli, tranquillamente
stravaccati al calduccio nella malga, ogni qual volta vedevano arrivare
trafelati i loro conduttori carichi come invece capitava sempre a loro, avessero
progressivamente trasformato il loro raglio abituale in una sorta di stridulo
sogghigno umanoide.
Per
fortuna, non risulta che nessun alpino abbia mai cominciato a scalciare …!
UN
SILENZIO FUORI ORDINANZA
Alla
caserma Testafochi del Battaglione Aosta una sera di primavera 1972 c’era un
po’ di fermento dovuto al fatto che i Sottotenenti del 62° corso AUC il giorno
dopo sarebbero andati a casa in quanto il loro periodo di servizio militare (15
mesi) era terminato.
Passati
pochi minuti dopo le 23 e già suonato il silenzio a conclusione della giornata,
Michele Casini, Sottotenente della 134° compagnia mortai, decideva di fare un
regalo ai ‘nonni’ congedanti e, facendosi aprire dalla guardia di turno il
portone della carraia, portò la propria macchina al centro del cortile della
caserma. Aperte completamente le due portiere dove erano collocati gli
altoparlanti inserì un nastro Super 8 (chi le ricorda?) con le suonate del
celeberrimo trombettista Nini Rosso. Posizionato il nastro sul ‘silenzio’, a tutto
volume iniziò la riproduzione.
Era
completamente buio e, appena il suono prese voce, il silenzio all’interno della
caserma divenne assoluto.
Tutti
quelli che erano all’interno si avvicinarono alle finestre ascoltando il
silenzio cosiddetto ‘fuori ordinanza’.
Fu
un momento di grande emozione che coinvolse i partenti ed anche, ovviamente,
chi restava. L’ufficiale di picchetto quella sera non era un Sottotenente di
complemento, come solito, ma un tenente. Infatti nelle ultime settimane erano
arrivati in caserma dei tenenti provenienti dalla Scuola di Applicazione per
fare un po’ di esperienza al Battaglione anche come Ufficiali di Picchetto.
Al
termine del brano musicale Michele riportò l’automobile fuori dalla caserma e
rientrando l’Ufficiale di Picchetto gli disse che il Comandante del Battaglione
(Ten. Col. Cesare Di Dato) lo aveva chiamato in merito al ‘fuori programma’ per
avere spiegazioni comunque rinviate al mattino successivo.
Michele
tranquillizzò il Tenente dichiarando che l’indomani avrebbe informato il
Comandante della propria responsabilità.
Regolarmente
il mattino successivo Michele, con colpo di tacco perfetto, entrò al Circolo Ufficiali
salutando i Colleghi ed il Comandante dichiarandosi responsabile del ‘silenzio’
della sera precedente e, considerato che si era trattato solo di un regalo,
apprezzato in verità da tutti, si dichiarò disponibile a fare ammenda con un
brindisi a proprio carico.
La
proposta venne accolta positivamente da tutti, compreso il Ten. Col. Cesare di
Dato, ottimo Comandante e gentleman.
L’ARTISTA
Durante la selezione
delle reclute al CAR di Bra, lo Sten. Sandro Cerrato, laurea in lettere, poeta,
sognatore, si trovò ad esaminare un giovane che disse di essere musicista e
pittore.
La selezione terminò
all'istante. Sandro non volle che quel ragazzo finisse in pasto alla truppa.
Tra commilitoni, un buon bevitore di grappa valeva più di un artista di
talento!
Fu così che l'ufficiale
arruolò il giovane come attendente da condividere con il compagno di camera, lo
Sten. Enrico Casalegno.
Enrico, dopo una settimana,
di quell'artista ne aveva le tasche piene. Ore e ore di solfeggi, il mattino,
invece di rifare i letti. Ore e ore con i pennelli in mano, il pomeriggio,
invece di lucidare gli scarponi. Ma che razza di attendente era quello!
Se ne lamentò con Sandro,
che non volle sentir ragioni: le opere dell'ingegno venivano prima dei lavori
di manovalanza!
Si giunse infine ad un
compromesso: l'attendente della sessione successiva sarebbe stato scelto da
Enrico Casalegno.
IL SOMMELIER
Più avveduto si dimostrò
lo Sten. Adriano Peracchia quando selezionò i militari da assegnare al Circolo
Ufficiali. Tra gli altri, scelse un giovane che era sommelier al Muscatel, un
ben frequentato bar-ristorante della Cinzano, sulla provinciale Alba-Bra.
Al Circolo, dietro il bancone
del bar, in giacca viola e guanti bianchi, il militare preparava gradevolissimi
aperitivi che serviva, ghiacciati, in calici ornati con spicchi di limone
e bucce d'arancia.
Il nostro alpino dava
però il massimo alla Mensa Ufficiali dove, in occasione delle feste, esibiva il
suo talento proponendo grandi vini d'annata da abbinare a cibi di alta qualità.
Scelta la bottiglia e
mostrata l'etichetta, il sommelier descriveva le caratteristiche organolettiche
di quel nettare prezioso, poi con un temperino elicoidale estraeva il tappo
dalla bottiglia, annusava il sughero e versava un sorso di quel sangue di Bacco
nel bicchiere dell'ufficiale più alto in grado.
Questi, annusati i
profumi e tastati i sapori, con l'autorità che gli era conferita dalle stellette,
approvava la scelta e dava il via alla libagione con un formale cenno del capo.
PARTE TERZA:
A CHI E’ ANDATO AVANTI
CAPITOLO 66
IL PARADISO DI CANTORE
‘Raggiungere
il Paradiso di Cantore’ è un’espressione in uso tra gli Alpini, con la quale si
indica la morte di un compagno d’armi.
Nasce
nell’immediato dopoguerra 1915-1918, quando un giornalista del Corriere della
Sera, Mario Bisi, pubblicando un articolo a ricordo degli alpini morti in
guerra, immaginò che il generale Antonio Cantore, caduto tra i primi sulle
Tofane, dall’aldilà passasse in rivista i battaglioni composti da chi era già
deceduto.
Ed è in questo paradiso parallelo, in mezzo alle nostre
montagne e riservato soltanto agli Alpini, che vogliamo ricordare i nostri
compagni del 64° che sono andati avanti.
FRANCO FAVINI 1972
ALBERTO TURINI 1972
ALFREDO PEAQUIN 1984
GIUSEPPE GUADAGNINI 1992
ROBERTO GAMBINO 1994
CLAUDIO MARTELLO 1994
SANDRO FRANCESCHINI 2000
VALERIO GATTI 2000
DOMENICO FENILI 2002
ENRICO CASALEGNO 2003
GIANNI PEDRAZZOLI 2006
NEREO TERRERAN 2007
ALESSANDRO BARATTO 2008
GIUSEPPE PINTER 2008
ROBERTO SALATI 2009
FRANCO CASATI 2011
MARIO BRIGNOLI 2013
GIANPAOLO LUPANI 2013
GIOVANNI LONG 2014
PIERO BORRO 2015
FLAVIO FAVA 2015
CAPITOLO 67
IN MEMORIA DI FRANCO FAVINI
Il
Sottotenente Franco Favini, classe 1943, laureato in ingegneria edile, era
fidanzato ed era residente a Roma. Arrivato ad Aosta, fu assegnato alla terza
camerata, con la qualifica di fuciliere.
Venne
poi destinato in servizio di prima nomina al Battaglione Addestramento Reclute
Julia, all’Aquila.
Domenica
4 giugno 1972, da solo e senza informarne chicchessia, il Sottotenente Franco
Favini si avviò per un’escursione sul Corno Grande del Gran Sasso d’Italia.
Cadde
al Passo del Cannone.
I
suoi resti, dopo una caduta di circa 700 metri, vennero recuperati nella Valle
dei Ginepri e deposti nella tomba di famiglia, a Modena.
Il
22 settembre 1972, Stefano Benazzo, Evelino Mattelig e Paolo Nicoli posero una
croce con una targa esplicativa nel luogo dove era caduto.
Evelino
prese nota degli eventi della giornata: partenza dall’Aquila (quota 723), Prati
di Tivo (quota 1.400), La Madonnina (quota 2.028), Passo Scalette, Valle delle
Cornacchie, Rifugio (quota 2.433), Sella Due Corni (quota 2.547), Passo del
Cannone (quota 2.679).
Il
10 agosto 2014, il Sottotenente Favini viene ricordato nel corso di una
cerimonia Alpina a Paspardo, cui partecipano la vedova di suo fratello e sua
nipote, rintracciate dopo lunghe ricerche, grazie ad Evelino ed all’Alpino
Pietro Salari, responsabile dell’Ufficio di Stato Civile del Comune di Paspardo
(Val Camonica, BS). Diversi componenti del 64° Corso sono presenti a Paspardo,
con il Gagliardetto del Corso.
In
occasione dell’Adunata ANA all’Aquila, poiché l’antica croce è scomparsa, nasce
l’idea di recare un’altra croce al Passo del Cannone.
Purtroppo
il Soccorso Alpino ci informa che c’è ancora troppa neve sul Corno Grande.
Si
decide quindi di fare celebrare una S. Messa il 16 maggio 2015 al Santuario
Giovanni Paolo II, a San Pietro della Jenga (vicino ad Assergi).
La
messa è officiata da Don Nelson Callegari.
Sono
presenti tutti i componenti del 64° Corso presenti all’Aquila per l’Adunata, il
Reduce Alpino Ugo Balzari, ingegnere 95nne (guerra in Russia a 20 anni,
ritirata del Don, portaordini, guida alpina, aiutante di Don Gnocchi, ha
recentemente pubblicato un libro di memorie) e numerosi turisti giunti in gita.
Giuliano
Secchi ricorda uno per uno i compagni del 64° Corso andati avanti.
Franco
Zanin recita la Preghiera dell’Alpino.
L’Alpino
Balzari legge una sua poesia, la Preghiera del Reduce.
CAPITOLO 68
CIAO, AMICI
MIEI!
Mirco Bozzo, Franco Favini, Alfredo Peaquin e
Alberto Turini avevano impiegato poco tempo a fraternizzare.
Ben presto divennero inseparabili.
Uscivano insieme tutte le sere.
Quando Alberto passava in camerata a chiamare
Mirco, Ermanno Tegami non cessava di redarguirlo: "Mettiti le
pattine", gli diceva scherzosamente affinché non sporcasse il pavimento
lucidato a cera.
A fine corso, durante la licenza natalizia, per
Capodanno, si ritrovarono per festeggiare tutti insieme. Erano stati invitati a
cena dai genitori di Alfredo, che abitavano a Verres, a pochi chilometri da
Aosta.
Poi ancora, sempre loro quattro e sempre
inseparabili, erano volati in macchina a Valtournenche.
Lì, affacciati ad un orrido, con l’acqua di
montagna che scorreva rumorosa nella profonda fessura, avevano brindato al
nuovo anno, con la piramide di granito più bella del mondo, il monte Cervino,
testimone lucente e silenzioso.
Alberto, Alfredo e Franco sono andati avanti.
E’ rimasto il solo Mirco, quaggiù, a ricordare
quei momenti di infinita dolcezza.
Ci sarà tempo per rincontrarsi.
BRUNICO. Per gli ex ufficiali del 64º corso
Auc della Scuola militare alpina di Aosta e per gli alpini del Gruppo Ana di
Fondo, in val di Non, ma in generale per tutta l'ex Tridentina, per l'Ana
(Associazione nazionale alpini) e per le Truppe alpine in generale, la data del
27 aprile di ogni anno segna un appuntamento che in pochi dimenticano.
Quest'anno il ricordo si è fatto sentire ancora di più, visto che sono
trascorsi esattamente quarant'anni da quel 27 aprile del 1972 quando, fresco di
prima nomina, il sottotenente Alberto Turini, in forza al Sesto Reggimento
Alpini di Brunico, moriva con tre commilitoni altrettanto giovani, il sergente
Franco Trentini e gli alpini Edilio Tesconi e Bruno Zanchi, nell’uscita di
strada del mezzo cosiddetto Acl su cui viaggiavano dalla Val Pusteria alla
volta di Bolzano, da dove sarebbero partiti per un corso di arrampicata in
roccia. Il mezzo militare, affrontando l'allora stretta curva a sinistra che
immetteva sul cavalcavia, sbandò, tirò letteralmente giù il comunque basso
guard rail e precipitò proprio sulla sottostante linea ferroviaria pusterese.
Davanti alla stele di marmo bianco che alcuni
anni più tardi venne collocata a memoria del tragico incidente, quest'anno,
come detto nel quarantennale di quella disgrazia, si sono radunati un numero
finora mai visto di commilitoni delle vittime di quella sciagura, di ex
ufficiali del 64° Auc e di ex alpini, senza dimenticare i rappresentanti del
Sesto Reggimento. I veci e gli alpini convenuti hanno assistito con i gagliardetti
al vento alla messa. La funzione religiosa è stata celebrata dal cappellano
militare don Valentino Quinz, con il suggestivo arricchimento delle melodie del
Coro Plose di Bressanone, in ricordo dei quattro giovani morti e dei
sopravvissuti alla tragedia.
(ALTO ADIGE, 6 maggio 2012)
CAPITOLO 69
IL CALVARIO DI
ENRICO CASALEGNO
Evelino
Mattelig e Franco Zanin, impegnati nella laboriosa ricerca dei componenti del
64° Corso AUC per organizzarne un ritrovo, avevano appreso da Alessandro
Cerrato che Enrico Casalegno era stato aggredito nel 1998 da una rara e molto
invalidante malattia.
Già il suo
nome esplicava la pena che comportava ai suoi sottoposti: la sindrome di
Locked-In, cioè di chi si sente ‘chiuso dentro se stesso’. Enrico infatti non
aveva alcun movimento motorio, praticamente era paralizzato, ma era
consapevolmente vigile e riusciva solo ad esprimersi verbalmente con enorme
fatica. Quella malattia degenerativa concedeva al malato un periodo di
sopravvivenza molto limitato, superato solo in pochi casi al mondo.
Enrico era uno
di quelle eccezioni.
Nessuna cura
era ancora riuscita a debellare quel rapace interiore che divorava
inesorabilmente le sue malcapitate vittime. In quegli anni la ricerca medica di
farmaci adeguati procedeva a passi lentissimi e infruttuosi. Forse le industrie
farmaceutiche non ritenevano abbastanza remunerativo lo sviluppo di medicinali
destinati ad un numero di pazienti così ristretto.
Un giro di
telefonate riunì un gruppetto di AUC compagni di Enrico.
Andarono
insieme a San Raffaele Cimena a fare visita al loro compagno per portargli un
poco di conforto.
La moglie li
accolse con grande affabilità e li introdusse al suo capezzale. Encomiabile era
la dedizione della donna nell'accudire amorevolmente il marito in quelle povere
condizioni con tanta instancabile determinazione. Lui stava percorrendo lentamente
un'altra tappa della sua incredibile Via Crucis, avendo riacquistato solo da
poco tempo l'uso stentato della parola. Finalmente allora riusciva a comunicare
a voce con il mondo che lo circondava, anche se in modo faticosissimo.
Quante e quali
dolorose peripezie aveva già dovuto affrontare!
Accolse i
vecchi amici con un sorriso spiazzante, disteso in quel letto di dolore.
Bugatti,
Mattelig, Tosolini e Zanin, i più abili a nascondere il loro intimo dispiacere
al suo cospetto, cercarono di coinvolgerlo scherzosamente nei vecchi ricordi
della Smalp.
Enrico Casalegno con Evelino Mattelig, Franco Zanin, Luigi
Bugatti, Alberto Orecchia, Valentino Bartelle, Paolo Tosolini e Alessandro
Cerrato.
Il rivangare
quelle situazioni del passato fu per lui fonte di momentanea felicità, avendole
condivise quando era ancora immune da quella pena.
Quella visita
ottenne gli effetti auspicati di solidarietà. Sempre supportato nell'esprimersi
dalla moglie, Enrico congedò gli amici, con voce flebile ed un sorriso
disarmante sulle labbra, dicendo loro: "Oggi sono molto contento: mi ha
fatto grande piacere rivivere con voi certi episodi di Aosta. La vita é fatta
di emozioni e io oggi sono tanto felice perché ne ho vissuta una grande grazie
a voi e vi ringrazio di cuore!".
La sua
esternazione commosse tutti. In quegli attimi si era sentito alleggerito del
peso della croce che stava portando! Non si può vedere soffrire una persona che
ha il sorriso sulle labbra senza rimanerne colpiti nell'intimo. Alberto,
Alessandro, Evelino, Franco, Luigi, Paolo e Valentino, tutti con gli occhi
lucidi che cercavano malamente di nascondere, lo salutarono con l'impegno di
ritornare a fargli visita.
Che persona
era Enrico nel suo dolore!
Dopo il suo
commiato e seduti a tavola nel vicino ristorante, gli amici ufficiali
rivangavano l’accaduto; erano segnatamente felici di aver momentaneamente
alleviato quella sofferenza inverosimile rasserenando, anche se solo per pochi
attimi, la giornata di Enrico.
Ancora oggi
che lui non c'è più, molti lo ricordano sempre nelle loro preghiere.
PARTE QUARTA:
UN PO’ DI NUMERI
CAPITOLO 71
I RAGAZZI DEL 64mo
I RAGAZZI DEL 64mo
AUC | CAM. | SPECIALITA' | DESTINAZIONE | CASERMA |
Albertoni Nerio | 1 | fuciliere | ||
Alga Renato | 9 | fuciliere | Feltre (BL) | Zannettelli |
Alineri Giuseppe | 5 | fuciliere | Tarvisio (UD) | Lamarmora |
Baratto Alessandro | 12 | |||
Barbazza Stanislao | 14 | arresto | S.Stefano Cadore (UD) | Calbo |
Barberis Renato | 16 | mortaista 81 | Tarvisio (UD) | Lamarmora |
Baronio Angelo | 16 | mortaista | Monguelfo (BZ) | Battisti |
Bartelle Valentino | 12 | |||
Bazurro Sandro | 8 | fuciliere | Cuneo | Battisti |
Bellini Umberto | 1 | fuciliere | Tai di Cadore (BL) | Calvi |
Beltramini Franco | 16 | mortaista | Paluzza (UD) | Plotzner Mentil |
Benazzo Stefano | 18 | mortaista | ||
Berlini Angelo | 11 | armi tiro teso | Venzone (UD) | Feruglio |
Bertarione Bartolomeo | 15 | pioniere | Pinerolo (TO) | Berardi |
Berti Luciano | 13 | |||
Bianchi Gabriele | 15 | esploratore | Vipiteno (BZ) | Menini-De Caroli |
Bocco Franco | 6 | fuciliere | Savigliano (CN) | Trosarelli |
Borghi Mario | 13 | arresto | Cavazzo Carnico (UD) | Bernardini |
Borro Piero | 7 | fuciliere | San Rocco (CN) | Vian |
Bortolomiol Marcellino | 15 | esploratore | Feltre (BL) | Zannettelli |
Bozzo Mirco | 1 | fuciliere | Forni Avoltri (UD) | Durigon |
Brachet Bruno | 16 | mortaista | Forni Avoltri (UD) | Durigon |
Braggion Roberto | 3 | fuciliere | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Brembati Franco | 2 | fuciliere | ||
Brignoli Mario | 12 | |||
Brociero Ernesto | 8 | fuciliere | Pinerolo (TO) | Berardi |
Brunetti Giorgio | 11 | armi tiro teso | Merano (BZ) | Battisti |
Brunetto Valerio | 7 | fuciliere | San Rocco (CN) | Vian |
Buffa Giovanni | 5 | fuciliere | San Rocco (CN) | Vian |
Bugatti Luigi | 2 | fuciliere | Pontebba (UD) | Zanibon |
Buizza Giorgio | 9 | fuciliere | Aosta | SMALP |
Burgstaller Franco | 13 | Aosta | SMALP | |
Cainero Eddi | 13 | |||
Callegari Vinicio | 15 | pioniere | Bressanone (BZ) | Reatto |
Casalegno Enrico | 3 | fuciliere | Bra (CN) | Trevisan |
Casati Franco | 16 | mortaista | Merano (BZ) | Rossi |
Casetta Michele | 2 | fuciliere | ||
Casini Michele | 18 | mortaista 120 | Aosta | Testafochi |
Castelli Francesco | 1 | fuciliere | ||
Cavareta Leonardo | 2 | fuciliere | ||
Cecconi Mario Agostino | 15 | pioniere | ||
Cenzi Giovanni | 2 | fuciliere | Agordo (BL) | XXII Marzo 1848 |
Cerrato Alessandro | 4 | fuciliere | Bra (CN) | Trevisan |
Cerri Piergiuseppe | 7 | fuciliere | Venzone (UD) | Feruglio |
Clemente Franco | 13 | |||
Cocchi Ennio | 3 | fuciliere | ||
Colombo Giorgio | 10 | fuciliere | Monguelfo (BZ) | Battisti |
Colorio Giuliano | 8 | fuciliere | Feltre (BL) | Zannettelli |
Cominola Claudio | 12 | trasmissioni | Tai di Cadore (BL) | Calvi |
Conconi Paolo | 18 | mortaista | San Candido (BZ) | Cantore |
Coppo Marco | 14 | |||
Costantini Fernando | 13 | |||
D'Acunto Giovanni | 9 | fuciliere | Monguelfo (BZ) | Battisti |
Dalla Colletta Giovanni | 14 | |||
Dalle Molle Egidio | 11 | armi tiro teso | Pieve di Cadore (BL) | Buffa di Perrero |
De Carlini Tarcisio | 16 | mortaista | ||
De Paoli Antonio | 12 | trasmissioni | Tarviso (UD) | Lamarmora |
De Pellegrin Aldo | 13 | arresto | San Candido (BZ) | Druso |
Del Giorgio Adriano | 4 | fuciliere | Aosta | SMALP |
Della Valle Adriano | 10 | armi tiro teso | ||
Dus Claudio | 4 | fuciliere | ||
Faccioli Armando | 13 | trasmissioni | Ugovizza(UD) | Solideu d'Incau |
Fava Flavio | 5 | fuciliere | Brunico (BZ) | Lugramani |
Favini Franco | 3 | fuciliere | L'Aquila | Rossi |
Fenili Domenico | 4 | fuciliere | ||
Ferrando Ugo | 1 | fuciliere | ||
Ferrario Franco | 16 | mortaista | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Ferrato Rinaldo | 12 | |||
Fioroni Marco | 3 | fuciliere | ||
Flematti Massimo | 17 | mortaista | San Candido (BZ) | Cantore |
Foglia Paolo | 18 | mortaista | ||
Forni Pier Giuseppe | 18 | mortaista | Malles Venosta (BZ) | Wackernell |
Franceschini Sandro | 13 | arresto | San Candido (BZ) | Druso |
Francescon Pierpaolo | 2 | fuciliere | ||
Furlan Gianni | 18 | mortaista | ||
Gaddo Maurizio | 8 | fuciliere | ||
Gallino Pierluigi | 4 | fuciliere | Merano (BZ) | Rossi |
Gambino Roberto | 14 | controcarro | Tai di Cadore (BL) | Calvi |
Gasparini Diego | 4 | fuciliere | ||
Gasperina Lorenzo | 9 | fuciliere | ||
Gatti Valerio | 5 | fuciliere | ||
Gazzera Livio | 7 | fuciliere | ||
Gazzoli Dario | 3 | fuciliere | Malles Venosta (BZ) | Wackernell |
Gentili Ivano | 11 | armi tiro teso | Pontebba (UD) | Fantina |
Gianoli Aldo | 14 | controcarro | Paluzza (UD) | Plotzner Mentil |
Giongo Mauro | 17 | mortaista | Malles Venosta (BZ) | Wackernell |
Giuliani Attilio | 6 | fuciliere | ||
Giuliani Giuliano | 12 | |||
Gloder Iganzio | 5 | fuciliere | Feltre (BL) | Zannettelli |
Gottardi Uldarico | 6 | fuciliere | Malles Venosta (BZ) | Wackernell |
Grassi Maurizio | 17 | mortaista 81 | Pieve di Cadore (BL) | Buffa di Perrero |
Grillo Pasquarelli Enrico | 5 | fuciliere | Oulx (TO) | Assietta |
Guadagnini Giuseppe | 14 | arresto | San Candido (BZ) | Druso |
Ivaldi Luciano | 4 | fuciliere | Bra (CN) | Trevisan |
Lazzarotto Ennio | 6 | fuciliere | ||
Leonardi Franco | 17 | mortaista | ||
Levrero Giuliano | 5 | fuciliere | Aosta | Testafochi |
Libardi Cesare | 9 | fuciliere | Merano (BZ) | Rossi |
Loiacono Carletto | 10 | armi tiro teso | ||
Long Giovanni | 11 | armi tiro teso | ||
Longo Roberto | 6 | fuciliere | ||
Lorenzi Mario | 18 | mortaista | Aosta | Testafochi |
Lucchina Giovanni | 15 | controcarro | Merano (BZ) | Rossi |
Lupani Gianpaolo | 6 | fuciliere | San Rocco (CN) | Vian |
Maina Giorgio | 17 | mortaista | Venzone (UD) | Feruglio |
Marchelli Alfredo | 15 | Aosta | Testafochi | |
Marchini Gianantonio | 6 | fuciliere | ||
Marconi Filippo | 6 | fuciliere | Brunico (BZ) | Lugramani |
Marguerettaz Piergiorgio | 5 | fuciliere | San Rocco (CN) | Vian |
Martello Claudio | 6 | fuciliere | ||
Mascolo Franco | 6 | fuciliere | Belluno | Salsa |
Masnata Paolo | 5 | fuciliere | San Rocco (CN) | Vian |
Mattelig Evelino | 8 | fuciliere | Pontebba (UD) | Zanibon |
Meneghini Alfonso | 7 | fuciliere | Tai di Cadore (BL) | Calvi |
Mensi Dario | 1 | fuciliere | Malles Venosta (BZ) | Wackernell |
Merlini Luigi | 10 | fuciliere | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Merlo Teobaldo | 2 | fuciliere | Monguelfo (BZ) | Battisti |
Micol Paolo | 7 | fuciliere | ||
Miglioretti Alessandro | 11 | armi tiro teso | Paluaro (UD) | Monte Paluaro |
Milan Giuliano | 17 | mortaista | ||
Miotti Rolando | 11 | armi tiro teso | ||
Moneta Paolo | 1 | fuciliere | Aosta | SMALP |
Monti Paolo | 7 | fuciliere | Bressannone (BZ) | Reatto |
Moro Maurizio | 2 | fuciliere | Cuneo | Battisti |
Mosso Pietro | 17 | mortaista | ||
Munini Renzo | 13 | arresto | Cavazzo Carnico (UD) | Bernardini |
Narratone Giovanni | 9 | fuciliere | Mondovì (CN) | Galliano |
Nassano Aldino | 11 | armi tiro teso | ||
Nesta Paolo | 7 | fuciliere | ||
Nicoli Paolo | 3 | fuciliere | ||
Orecchia Alberto | 7 | fuciliere | Feltre (BL) | Zannettelli |
Ostinelli Paolo | 10 | armi tiro teso | ||
Pancera Mario | 15 | controcarro | Belluno | Salsa |
Pasquino Giovanni | 8 | fuciliere | Boves | Cerutti |
Peaquin Alfredo | 4 | fuciliere | Paluzza (UD) | Plotzner Mentil |
Pedrazzoli Gianni | 16 | pioniere | ||
Pennacchioni Paolo | 2 | fuciliere | ||
Peracchia Adriano | 7 | fuciliere | Bra (CN) | Trevisan |
Perron Aldo | 8 | fuciliere | Cuneo | Battisti |
Pfeifer Luis | 15 | esploratore | Bressanone (BZ) | Reatto |
Piasini Felice | 14 | arresto | Saltusio (BZ) | Caserma di sbar. |
Pighetti Umberto | 18 | mortaista | Pinerolo (TO) | Berardi |
Pini Roberto | 10 | armi tiro teso | ||
Pinter Giuseppe | 17 | mortaista | Glorenza (BZ) | Petiti |
Piolini Mauro | 17 | mortaista 81 | San Candido (BZ) | Cantore |
Pisetta Camillo | 13 | |||
Poggi Valerio | 3 | fuciliere | Forni Avoltri (UD) | Durigon |
Prati Roberto | 16 | mortaista | ||
Quaranta Giorgio | 17 | mortaista 81 | Pinerolo (TO) | Berardi |
Rabbolini Arnaldo | 3 | fuciliere | ||
Randon Emilio | 15 | |||
Rebulla Gianfranco | 1 | fuciliere | Pieve di Cadore (BL) | Buffa di Perrero |
Rizzo Franco | 17 | mortaista | Malles Venosta (BZ) | Wackernell |
Rosana Vincenzo | 9 | fuciliere | ||
Rossi Angelo | 8 | fuciliere | Cuneo | Battisti |
Roviaro Alberto | 16 | pioniere | Feltre (BL) | Zannettelli |
Rulfi Pier Giorgio | 15 | esploratore | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Rumiz Paolo | 14 | |||
Salati Roberto | 1 | fuciliere | Aosta | Testafochi |
Saldan Pietro | 10 | armi tiro teso | Feltre (BL) | Zannettelli |
Salvador Antonio | 12 | trasmissioni | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Sandrone Mario | 9 | fuciliere | Cuneo | Battisti |
Sapori Paolo | 9 | fuciliere | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Scavarda Mauro | 12 | Aosta | SMALP | |
Schena Lino | 5 | fuciliere | Vipiteno (BZ) | Menini-De Caroli |
Secchi Giuliano | 8 | fuciliere | Monguelfo (BZ) | Battisti |
Sivieri Enrico | 16 | pioniere | ||
Slaghenaufi Paolo | 9 | fuciliere | Bolzano | Vittorio Veneto |
Soave Angelo | 4 | fuciliere | Tarvisio (UD) | Lamarmora |
Soldati Luigi | 11 | armi tiro teso | ||
Sori Nevio | 14 | arresto | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Stabiini Cesare | 10 | armi tiro teso | San Candido (BZ) | Cantore |
Tegami Ermanno | 1 | fuciliere | Mondovì (CN) | Galliano |
Terreran Nereo | 18 | mortaista 120 | Belluno | Salsa |
Tesio Roberto | 11 | armi tiro teso | Aosta | Testafochi |
Tomasi Mauro | 14 | arresto | San Candido (BZ) | Druso |
Tonon Mario | 14 | arresto | Paluzza (UD) | Plotzner Mentil |
Tosolini Paolo | 10 | armi tiro teso | Chiusaforte (UD) | Zucchi |
Tropenscovino Giuseppe | 10 | armi tiro teso | Aosta | Testafochi |
Turini Alberto | 4 | fuciliere | Monguelfo (BZ) | Battisti |
Unterberger Sebastian | 12 | Bressanone (BZ) | Reatto | |
Valentini Fabio | 8 | fuciliere | ||
Viarengo Luigi | 18 | mortaista 120 | Bressanone (BZ) | Reatto |
Zanin Franco | 2 | fuciliere | Agordo (BL) | XXII Marzo 1848 |
Zordan Lorenzo | 18 | mortaista 120 | Belluno | Salsa |
CAPITOLO
72
INDICE
DELLE CITAZIONI (per capitolo)
ALBAROSA FRANCESCO 38,47,48,63.
ALBERTONI NERIO 07.
ALINERI GIUSEPPE 02.
ARATA (tenente) 48.
BALZARI UGO 67.
BARATTO ALESSANDRO 66.
BARBERIS RENATO 39.
BARTELLE VALENTINO 69.
BAZURRO SANDRO PR,01,03,12,16,17,24,36,41,52,53,57,59,64.
BELLINI UMBERTO 07.
BENAZZO STEFANO 01,14,67.
BERBELLINI ELENA 04.
BERTARIONE BARTOLOMEO 12,21,22,27.
BISI MARIO 66.
BOIS ADOLFO 37.
BORRO PIERO 57,66.
BORTOLOMIOL MARCELLINO 01,23,61.
BOZZO MIRCO 07,27,36,65,68.
BRAGGION ROBERTO 08,11,20,42,43,62.
BRIGNOLI MARIO 66.
BROCIERO ERNESTO 12,17,36,40,
BRUNETTO VALERIO 17,57.
BUFFA GIOVANNI 31,37,57.
BUGATTI LUIGI 69.
BUIZZA GIORGIO 23,30.
BUIZZA MANUELA 30.
BURDESE Capitano 44,55.
CANTORE ANTONIO 66.
CADDEO SERGIO 46.
CALLEGARI DON NELSON 67.
CALLEGARI VINICIO PR,01,05,23,34,36,43,60,65.
CAMUSSO Capitano 49.
CANDIANI MICHELE 48.
CASALEGNO ENRICO 06,44,50,57,65,66,69.
CASATI FRANCO 66.
CASAZZA MARIO 65.
CASETTA MICHELE 06.
CASINI MICHELE 01,37,40,65.
CASINI NAILA 01.
CASTELLA MARIO 45.
CASTELLI FRANCESCO 07.
CERRATO SANDRO 44,57,65,69.
CERRI PIER GIUSEPPE PR,12,29,31.
COCCHI ENNIO 20.
COLAMEO (alpino) 62.
COLORIO GIULIANO 12,17,36.
COLOMBO GIORGIO 12.
CONGEDO (il cane) 25.
DELFINA (la mula) 56.
DEL GIORGIO ADRIANO 22.
DE PAOLI ANTONIO 31.
DI BIASI SERG. 45.
DI DATO CESARE 37,63,65.
DI DOMENICO VINCENZO 45.
DROGO GIOVANNI 42.
ELIA capitano 48.
FACCIOLI ARMANDO 23.
FAVA FLAVIO 66.
FAVINI FRANCO 66,67,68.
FENILI DOMENICO 66.
FERRANDO UGO PR,07,27.
FERRARIO FRANCO 01,16,18,20,39,45.
FIDANZA MAURO 02,06,08,12,36.
FIORONI MARCO 11,20,23,31.
FLEMATTI MASSIMO 01.
FOLEGNANI GOVANNI 12,18,26,27,28,31,32,36,38.
FORMELLI VITTORIO 03.
FRANCESCHINI SANDRO 66.
GADDO MAURIZIO 36.
GALLAROTTI BRUNO 03,23,37,39.
GALLIANO (sergente maggiore) 48.
GAMBINO ROBERTO 66.
GARABELLO FRANCO 48,63.
GARD SERGENTE 07,39.
GASPARINI DIEGO 13.
GATTI VALERIO 66.
GAZZERA LIVIO 32.
GIACOMINA (la marescialla) 30.
GIANOLI ALDO 15.
GRASSI MAURIZIO 01.
GUADAGNINI GIUSEPPE 66.
IPPOLITO GIOVANNI 45.
IVALDI LUCIANO PR,33,44,51,55,57.
IVALDI MARIUCCIA 33.
LAMBRI SOTTOTENENTE 28,29,36.
LEGRENZI FABRIZIO 48.
LEVRERO GIULIANO PR,12,15,31,36,37,38,40,47,48,63.
LONG GIOVANNI 66.
LORENZI MARIO 15,37,38,40,48.
LUCCHINA GIOVANNI PR.
LUPANI PAOLO 12,57,66.
MARCHELLI ALFREDO 37.
MARGUERETTAZ PIERGIORGIO 16,25,31,33,49,57.
MARCHELLI ALFREDO 40.
MARTELLO CLAUDIO 23,66.
MASNATA PAOLO 57.
MATTELIG EVELINO PR,10,36,39,67,69.
MATTELIG LUIGI 10,23.
MENSI DARIO PR,07.
MIGLIORETTI ALESSANDRO 06.
MONETA PAOLO PR,01,07,22,27,34,36.
MONSUTTI PIERO 48,63.
MORO MAURIZIO 53,57,59.
NAPOLITANO COLONNELLO 28.
NARRATONE GIOVANNI 02.
NASSANO ALBERTO 23.
NICOLI PAOLO 08,67.
ONOFRI CLAUDIO 44.
ORECCHIA ALBERTO 04,12,35,44,46,69.
OTTAVIANO caporale 45.
PASSERIN D’ENTREVSE S.TE 36.
PANCERA MARIO 02.
PAPA’ MARCEL 24.
PASQUINO GIOVANNI PR,12,17,36,57.
PE’ (Alpino) 58.
PEAQUIN ALFREDO 66,68.
PEDRAZZOLI GIANNI 66.
PELLICO SILVIO 46.
PERACCHIA ADRIANO 32,44,57,65.
PERRON ALDO PR,12,17,36,57,59.
PETROCCO LAMBERTO 26,28.
PEZZALI GIORGIO 45.
PFEIFER Alpino 49.
PFEIFER ALOIS 43.
PIASINI FELICE 02,39,58,65.
PINTER GIUSEPPE 66.
POGGI VALERIO 08,65.
QUINZ DON VALENTINO 68.
RABBOLINI ARNALDO 23.
REBULLA GIANFRANCO 07,23.
RIZZO FRANCO 02.
ROSANA 32.
ROSSI ANGELO 12,17,36.
ROVIARO ALBERTO PR,02.
SALATI BARBARA 54.
SALATI MARINELLA 01,54.
SALATI ROBERTO 01,07,18,32,37,40,54,66.
SANDRONE MARIO 06,25,32.
SECCHI GIULIANO PR,12,17,19,36,39,67.
SIVIERI ENRICO 04.
SLAGHENAUFI PAOLO 17.
SOAVE ANGELO PR,13,39,44.
SOLERI ARNALDO 60.
TEGAMI ERMANNO 02,68.
TERRERAN NEREO 66.
TESCONI EDILIO 67.
TESIO ROBERTO 40.
TOGNINI ANGELO 39.
TOSOLINI PAOLO 69.
TRAVERSONE GUIDO 48.
TRENTINI FRANCO 67.
TROPENSCOVINO GIUSEPPE 37,40.
TURINI ALBERTO 07,66,68.
TUTTOBENE (colonnello) 59.
VALENTINI FABIO 17,36.
VENUTTI alpino 45.
VERUNELLI (maggiore) 12,20,27,28,31,36.
VITTONE (colonnello) 65.
ZAMPA GIANCARLO 38,48.
ZANCHI BRUNO 67.
ZANIN FRANCO 23,39,67,69.
ZORDAN LORENZO PR,23.
ZUZZI GILBERTO 02.
Michele Candiani, di Busto Arsizio, perito nell'incidente con l'elicottero era il mio adorato cugino.
RispondiEliminaVi ringrazio di questi ricordi e mi piacerebbe sapere se qualcuno l'ha conosciuto di persona e si ricorda qualche dettaglio di lui. Grazie, Bruno